passarono da 25 su diecimila abitanti nel 1876 a 848 su diecimila nel 1894‐
1895.
La crisi economica e la diffusione della povertà suscitarono
l’interesse della Chiesa gioiese e di don Giuseppe Silipigni in particolare.
Nato a Gioia nel 1877, Silipigni, giovane docente del Seminario di Mileto,
era uno dei più stretti collaboratori del vescovo Morabito (1898‐1922), la
cui attività pastorale si distinse sempre per l’attenzione ai ceti più umili,
secondo le nuove direttive dell’azione sociale della Chiesa. Presto
l’attenzione di Silipigni si concentrò su quegli strati della popolazione
costretti a emigrare, verso cui rivolse le sue preghiere e un’intensa attività
caritativa. Punto centrale attorno a cui ruotava la sua opera pastorale fu il
giornale La Stella degli Emigranti, da lui fondato e diretto; esso fu l’unico
esempio in Italia di pubblicazione d’ispirazione religiosa interamente
dedicata al fenomeno migratorio.
Nel 1912 Silipigni decise di seguire i calabresi al di là dell’oceano e si
trasferì a New York, dove, in qualità di parroco della chiesa di Nostra
Signora di Loreto, in Elizabeth Street, svolse una più intensa attività
assistenziale verso tutti gli emigrati italiani. Appresa la lingua inglese,
divenne un famosissimo oratore, tanto che le sue prediche furono incise
dalla casa discografica Victor (l’odierna RCA). Durante la Prima guerra
2
mondiale fu inoltre scelto dall’Order Sons of Italy in America, la più
influente associazione italo‐americana, come oratore ufficiale e nel 1921
ne divenne il Supreme Curator.
La scuola e il centro di accoglienza giovanile da lui fondati e annessi
alla parrocchia divennero dei centri di riferimento della comunità locale e
di diffusione dell’italianità.
La sua morte, nel dicembre 1930, fu celebrata da The New York
Times come la perdita di un vero leader nelle attività sociali.
Una parte significativa della documentazione alla base della ricerca
è stata reperita nell’Archivio storico diocesano di Mileto; notizie sulla
situazione socioeconomica del Circondario di Palmi provengono
dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria. Alcune importanti notizie sui primi
anni di sacerdozio del Silipigni sono state trovate nelle collezioni private
della famiglia Ardissone e di monsignor Francesco Laruffa, entrambi
residenti a Gioia Tauro e nella collezione privata della famiglia Tedeschi di
Polistena.
Per quanto riguarda il soggiorno americano, si è ricorso al database
online di Ancestry.com e all’Archivio de The New York Times.
3
Fondamentale è stata la consultazione delle annate di alcuni
periodici calabresi (Il Normanno, La Voce Cattolica, Cronaca di Calabria)
relative ai primi decenni del Novecento e in particolare de La Stella degli
Emigranti, a cui è stato dedicato un capitolo a parte. L’annata del 1904 è
stata consultata presso la Biblioteca comunale di Polistena; quella del
1905 presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Un ringraziamento speciale va al professore Angelo Sindoni, che ha
avuto generosamente fiducia in me, e al professore Sebastiano Marco
Cicciò, che ha avuto la pazienza di seguire il mio lavoro parola per parola.
Infine – ed è la cosa che più desideravo arrivare a scrivere – questa
tesi è per la mia famiglia: per il mio bellissimo nipotino Giacomo, che è la
luce dei miei occhi; per mia Madre e mio Padre, che sono sempre stati e
sempre saranno il mio sostegno e la mia forza; per mia sorella, che mi ha
aiutata in mille modi nella realizzazione del lavoro; e per il mio fidanzato,
che ha dovuto pazientemente sopportare tutte le mie ansie...
4
Capitolo I
La Piana di Gioia Tauro dall’Ottocento al 1913
1.1 Considerazioni generali
La prima parte della ricerca vuole essere una ricostruzione, sia pure
limitata ad alcuni aspetti e momenti, della storia dell’emigrazione
calabrese dall’Unità al 1913, che è bene considerare come anno terminale
dei nostri studi, in quanto gli anni 1914 e 1915 sono influenzati dalle
vicende belliche già in atto. L’arco di tempo considerato si riferisce al
fenomeno della grande emigrazione transoceanica calabrese.
Lo studio dell’emigrazione coinvolge l’economia, la politica, la storia
patria e la microstoria, la sociologia, la statistica, la psicologia, la religione
e mille altri aspetti, tanto il fenomeno è vasto, complesso e proprio per
questo difficile da classificare con una sola definizione.
Nell’Ottocento se ne andarono a milioni dal Vecchio Continente, in
maggioranza irlandesi, tedeschi, polacchi e italiani. Fu una sorta di esodo
biblico dall’Europa impoverita e spesso flagellata dalle carestie causate dai
cattivi raccolti.
Il flusso migratorio dall’Italia si manifestò a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento e crebbe impetuoso fino al 1915 e inizialmente si
5
diresse quasi per la metà verso altri Paesi europei, spesso con carattere
temporaneo o stagionale. Verso la fine del secolo, però, prese consistenza
la destinazione americana. Tra il 1876 e il 1901, 5.792.546 d’italiani
emigrarono e tra questi ci furono 310.363 calabresi.
1
Un milione, quasi il
venti per cento di tutti gli emigrati italiani, andò negli Stati Uniti durante
gli ultimi venticinque anni dell’Ottocento. Anche nel Novecento continuò
l’espatrio, anzi, si accrebbe: durante gli anni di crisi del primo decennio del
Novecento, 2.135.877 italiani emigrarono negli Stati Uniti, la cifra record
dell’emigrazione italiana si registrò nel 1913, con 872.598 persone, di cui
400.000 negli Stati Uniti.
2
Il totale raggiunto in cento anni, dal 1876 al
1976, fu di 25.800.000 emigranti, le cui destinazioni principali erano,
nell’ordine, gli Stati Uniti, la Francia, la Svizzera, l’Argentina, la Germania, il
Brasile e il Canada.
3
L’emigrazione italiana costituisce uno dei fenomeni più notevoli
dell’Italia unita, il più consistente sotto il profilo statistico e il più
complesso sotto il profilo delle trasformazioni sociali. Questo colossale
1
E. Franzina, La grande emigrazione, Venezia 1976, p. 57.
2
Historical Statistics of the U.S.A., Washington 1960, citato in R. U. Pane, L’esperienza
degli emigrati calabresi negli Stati Uniti, in P. Borzomati (a cura di), L’emigrazione
calabrese dall’Unità ad oggi. Atti del II Convegno di Studio della Deputazione di Storia
Patria per la Calabria, Polistena 6‐7, Rogliano 8 dicembre 1980, CSER, Roma 1982, pp.
273‐293.
3
G. Rosoli (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana 1876‐1976, CSER, Roma 1978,
pp. 11‐16.
6
fenomeno creò problemi enormi dal punto di vista religioso, specialmente
nei casi di emigrazione oltreoceano e problemi altrettanto ardui dal punto
di vista sociale, anzi, le due questioni andavano insieme, perché i Paesi di
provenienza per molto tempo si disinteressarono della sorte degli
emigrati: li lasciavano partire, poi, pensasse ognuno a se stesso.
Dalla fine del XIX secolo il parlamento e il governo italiani iniziarono
a interessarsi al fenomeno migratorio, sebbene con notevole ritardo
rispetto al suo primo manifestarsi, approvando due leggi, una, la legge
Crispi del 1888 e un’altra del 1901, che rientrava tra le prime legislazioni
sociali e assegnava allo Stato, attraverso il Commissariato Generale
dell’Emigrazione, il compito di tutela e d’intervento a favore degli
emigranti, prima della partenza, durante il viaggio e all’arrivo.
4
Secondo il Balletta, le leggi del 1888 e del 1901 stanno a
testimoniare l’incapacità dei governanti o la loro mancanza di volontà di
rimuovere la causa principale dell’espatrio: la miseria in cui versava la
popolazione del Mezzogiorno e della Calabria in particolare.
5
4
E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino,
Bologna 1979, pp. 255‐275. Vedi anche: F. Assante (a cura di), Il movimento migratorio
italiano dall’Unità nazionale ai giorni nostri, Libraire Droz, Genève Napoli 1978.
5
F. Balletta, Emigrazione e struttura demografica in Calabria nei primi cinquanta anni
di Unità nazionale, in P. Borzomati (a cura di), L’emigrazione calabrese dall’Unità ad
oggi, cit., p. 28.
7
Il dramma della partenza si prolungava dopo l’arrivo, sia in America
Settentrionale sia in America Latina. Gli emigrati vivevano ammassati negli
slums delle grandi città statunitensi ed erano impiegati in condizioni
disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie.
Oppure, erano dispersi in Sudamerica, nelle immense campagne e
impegnati in lavori di dissodamento e coltivazione, senza orario di lavoro,
senza poter contrattare la paga.
Passando dall’emigrazione italiana a quella specifica calabrese,
notiamo molte affinità con il fenomeno nazionale e altrettante differenze,
ma il dato che colpisce di più è il ritardo con cui in Calabria e nel
Mezzogiorno si cominciò a emigrare rispetto al resto d’Italia. Nel resto
d’Italia, l’emigrazione ha avuto inizio in forma massiccia già attorno al
1860, mentre sono dovuti trascorrere ancora vent’anni perché in Calabria
il fenomeno acquistasse una certa rilevanza. Prima di occuparci
dell’emigrazione calabrese, è necessario, però, tracciare le linee, seppur
brevi, della storia di questa complessa regione per capire fino in fondo le
ragioni che stanno alla base dell’emigrazione.
8
Il primo calabrese in America fu il viaggiatore Giovanni Francesco
Gemelli Carreri, nato a Taurianova (allora chiamata Radicena) nel 1651 e
morto a Napoli nel 1725.
6
Ci furono molti calabresi tra i tanti mercanti, artisti, musicisti,
missionari, esploratori e avventurieri italiani che andarono in America tra
Sette e Ottocento, ma, prima dell’Unità, era notevole l’emigrazione dei
calabresi in Sicilia;
7
già a partire dalla fine del XVI secolo consistenti nuclei
di maestranze, soprattutto di muratori e di intagliatori, della provincia di
Reggio Calabria, di Terranova, Seminara, Bagnara, Palmi, si dirigevano, in
cerca di lavoro, verso Palermo.
8
Notevole era anche l’emigrazione
stagionale dei vanghieri cosentini nelle terre del basso Mesima e dei
braccianti nella vasta distesa cerealicola del Marchesato di Crotone o
nell’oliveto del Rossanese.
9
Consistente era anche il periodico
trasferimento degli abitanti dei casali cosentini in Sila, alla fine
6
R. U. Pane, L’esperienza degli emigrati calabresi, cit., p. 273.
7
Risale addirittura al 1196 il documento più antico, un contratto agrario, in cui ricorre
un’emigrazione di calabresi fuori della propria regione. Quest’emigrazione si effettua
nonostante la scarsezza di mano d’opera, molto accentuata nel Medioevo a causa delle
incursioni dei saraceni, delle guerre continue e dei frequenti disastri naturali. F. Russo,
L’emigrazione calabrese in Sicilia in un documento medievale, in P. Borzomati,
L’emigrazione calabrese, cit., pp. 153‐155.
8
V. Fusco – M. Borgese, Andamento demografico ed emigrazione a Polistena dagli inizi
del Novecento ai nostri giorni, in P. Borzomati (a cura di), L’emigrazione calabrese
dall’Unità ad oggi, cit., p. 36.
9
V. Padula, La Calabria prima e dopo l’ Unità, Tipografia del R. Albergo de’ Poveri,
Roma‐Bari 1977, vol. I, citato in G. Cingari, Storia della Calabria dall’Unità a oggi,
Editori Laterza, Roma‐Bari 1983, p. 2.
9
dell’inverno. Le due province di Catanzaro e di Reggio, sebbene anche qui
le migrazioni non fossero del tutto assenti, importavano braccia dalla
provincia di Cosenza. Nel Reggino, oltre i cosentini che da novembre a
Pasqua scavavano fossi e piantavano alberi e vigne tra Rosarno, Melicucco
e Anoia, una temporanea migrazione si svolgeva dall’Aspromonte
meridionale alla Piana di Gioia Tauro.
Malgrado queste migrazioni interne, l’isolamento tra le varie aree
era notevole. Il mare era la principale via di comunicazione, i prodotti
agricoli destinati all’esportazione, come l’olio, la seta e gli agrumi,
varcavano le strettoie delle valli verso i pochi approdi costieri e gli stessi
rapporti commerciali tra Ionio e Tirreno erano assicurati più per mare che
per terra. Gioia Tauro, appartenente al Circondario di Palmi, nella
provincia di Reggio Calabria, come tutti gli altri venti paesi che
costituivano il territorio della Piana, durante il periodo borbonico non
godeva di comode strade che permettessero ai suoi abitanti di spostarsi
con agibilità da un centro all’altro, ma con l’Unità furono avviate una serie
di iniziative che portarono alla definizione di un sistema viario.
10
10
R. Liberti, Il risorgimento: dal decennio francese alla Grande Guerra, in F. Mazza (a
cura di), Gioia Tauro, storia, cultura, economia, Rubbettino Editore, Catanzaro 2004, p.
126.
10
Ogni studio sulla Calabria deve tenere conto del carattere
disomogeneo della penisola calabrese, che presenta zone molto
diversificate tra loro e in parte almeno giustifica il nome al plurale, le
Calabrie, dato da sempre alla regione. La Calabria è composta per più di
tre quarti di montagne e per un quarto di colline e pianure. La popolazione
era arroccata nei piccoli e medi comuni di collina e di montagna, là dove si
era ritratta nel corso dei secoli per sfuggire alle paludi e alle incursioni dal
mare. Sulle colline e sui monti la terra era più avara, ma il sito più sicuro e
l’aria più salubre. Molti paesi erano simili a nidi d’aquile e spesso lontani
dalle campagne da lavorare; le colline e le montagne dominavano quasi
per intero il territorio e solo nel Reggino il sistema collinare era litoraneo.
Nelle poche zone pianeggianti non infestate dalle paludi erano emersi solo
pochi centri abitati. Le due Piane di Sibari e di Sant’Eufemia erano
paludose e quasi desolate, la Piana di Gioja,
11
che allora era chiamata “di
Palmi”, anche dopo la bonifica delle terre tra le foci del Mesima e del
Budello e il prosciugamento dei laghi formatisi dopo il sisma del 1783 tra
Cosoleto e Oppido, presentava tratti melmosi e inabitabili. Nel Bollettino
della Prefettura di Calabria Ultra I del gennaio 1866 leggiamo:
11
Gioja, il 26 marzo 1863, con decreto governativo proposto dal sindaco Luigi Baldari,
ebbe l’aggiunta della denominazione Tauro, in ricordo dell’antica Metauros da cui ha
tratto le origini. P. Vissicchio, Gioja Tauro. Vicende storiche cittadine da Metauros ad
oggi, Club Ausonia, Reggio Calabria 1995, p. 23.
11
Non pochi elementi di prosperità questo comune [Gioia Tauro] racchiude, ma ne
inceppano lo sviluppo la insalubrità dell’aria e la mancanza di acque potabili […]
mancano nel territorio di questo comune acque veramente potabili. Unica e sola acqua
rispondente alle igieniche esigenze è quella detta di Gillè, ma l’ingente spesa che si
richiede per condottarla, tenne sempre lontana l’amministrazione dal farvi
assegnamento […]. Le sorgive di acqua da espropriarsi a tal uopo sono quelle
denominate di Gillè, scaturenti nel fondo Telesi di proprietà dei signori […] Cordopatri
da Monteleone.
12
Due anni dopo, il sottoprefetto Sicardi, in un rapporto del tre agosto
1868, scriveva:
In tutto intero il circondario […] eccellenti si mantennero in questo anno le condizioni
della sanità pubblica, meno ben vero Gioia T. e qualche altro comune, ove durante la
stagione estiva e parte dell’autunno per le pestifere esalazioni le rispettive popolazioni
veggonsi obbligate ad emigrare, ora in più forte numero ancora del consueto,
avvegnacchè le condizioni atmosferiche ebbero a peggiorarsi per la grande quantità di
lino portata ai vicini stagni a macerare, essendo nell’anno in corso stato
abbondantissimo tale ricolto.
13
12
Archivio di Stato di Reggio Calabria (ASRC), I.C.U.P., inv. B. 102, fasc. 74.
13
ASRC, Prefetto, inv. 34, B. 9, fasc. 947 Relazione sulle condizioni e sui bisogni del
Circondario di Palmi (1868).
12
Non c’è da stupirsi, dunque, se a Gioia i casi di malaria e di febbri
perniciose fossero all’ordine del giorno e se anche il vaiolo facesse spesso
la sua triste apparizione.
14
Anche Cosenza non era priva di vaste aree paludose. Un
contemporaneo osservava che “fa ribrezzo vedere gli stagni della
vicinanza di Tarsia, e le melmose terre della rinomata Macchia della
Tavola”.
15
Essendo una regione prevalentemente agricola, la Calabria, prima
dell’Unità, traeva vantaggio dalla crescente domanda internazionale di
prodotti specializzati come olio, seta e agrumi e non mancava neppure un
significativo aumento delle attività manifatturiere. Quasi un quarto della
popolazione calabrese era impegnato nei lavori industriali e le donne lo
erano in un rapporto di quattro a uno sugli uomini. Le donne si
applicavano specialmente alla filatura e alla tessitura, sebbene dividessero
con gli uomini i lavori agricoli. Il lavoro industriale integrava quello
agricolo, esso si attuava, però, per gran parte in forme arcaiche: anche nei
paesi in cui la manifattura offriva prodotti meno grossolani, essa non si
discostava dai metodi tradizionali.
14
D. Coppola, Gioia nell’Ottocento attraverso le fonti d’archivio, in Deputazione di
Storia Patria per la Calabria, Gioia Tauro nel contesto storico calabrese. Atti del
Convegno di Studi, 17‐18‐19 novembre 1993, Barbaro, Oppido Mamertina 1996, p. 587.
15
M. Fera, Raccolta di varie memorie, Cosenza 1860, p. 15.
13
Per quanto riguarda gli aspetti demografici, la situazione rispetto
agli inizi del XIX secolo era cambiata. Sebbene la popolazione della
Calabria avesse conosciuto in passato, specie nel Cinquecento, un
notevole sviluppo, dalla fine del Settecento il ritardo nella crescita
demografica rispetto alle altre regioni si era fatto molto forte. Tra il 1820 e
1860, però, la popolazione aveva ricominciato a crescere, oltrepassando il
milione, con un aumento di 289.000 unità rispetto agli inizi del secolo.
16
Quest’espansione aveva rafforzato i centri più grossi e più attivi,
inoltre si era ovunque rafforzata la tendenza all’accentramento. I tre
capoluoghi erano cresciuti notevolmente nella prima metà del secolo.
Reggio aveva superato i trentamila abitanti (raddoppiando la sua
popolazione) Catanzaro i ventimila (aumentando i suoi abitanti di ben il
75%) mentre Cosenza contava quasi diciottomila abitanti nel 1861 (aveva
anch’essa più che raddoppiato la sua popolazione)
17
.
Le preoccupazioni maggiori per la popolazione calabrese, che
deteneva il triste primato di altissimi indici di analfabetismo (il numero
degli analfabeti era dell’89,2%, di poco inferiore alla Basilicata e superiore
a tutte le altre regioni) di mortalità infantile, di disoccupazione, erano
16
G. Galasso, Lo sviluppo demografico del Mezzogiorno prima e dopo l’Unità, in G.
Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1975, pp. 303‐319. Vedi anche: L.
Izzo, La popolazione calabrese nel secolo XIX: demografia ed economia, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1965, pp. 85‐109.
17
G. Galasso, Lo sviluppo demografico del Mezzogiorno, cit., pp. 303‐319.
14
quelle della ricerca della “giornata” di lavoro o del “posto” nella pubblica
amministrazione. In una situazione simile, coltivare ideali di unità
nazionale, di associazionismo, di collaborazione, era impensabile.
Al momento dell’Unità, i calabresi furono coinvolti nella risoluzione
di problemi quali il completamento dell’Unità nazionale, i rapporti con la
Chiesa, le alleanze con gli Stati europei: questioni che nulla avevano in
comune con i numerosi problemi locali rimasti irrisolti e anzi aggravati
dalle nuove leggi che prevedevano, tra l’altro, un sistema fiscale più
oneroso e il servizio di leva obbligatorio.
Dopo l’unificazione, la legislazione vigente nel Regno del Piemonte
fu estesa alle regioni annesse e ciò creò non pochi problemi: vera e
propria ostilità suscitò l’estensione del sistema fiscale piemontese,
realizzata con le cinque leggi Bastongi, emanate tra il 1861 e il 1862.
Questi cambiamenti repentini rappresentarono per la Calabria un fatto
molto grave, perché il sistema fiscale borbonico era molto più blando di
quello piemontese.
I provvedimenti di politica economica, che accompagnarono la
creazione del mercato nazionale, produssero nella regione notevoli
conseguenze. L’unificazione commerciale, con il trionfo del libero scambio,
sradicò la scarsa industrializzazione che l’assolutismo borbonico e il
15
capitale straniero avevano cercato di tutelare con un forte protezionismo
doganale.
L’adesione al nuovo regime lasciò, così, ben presto il posto alla
delusione, soprattutto tra la piccola e media borghesia.
Il passaggio dal regime borbonico al nuovo Stato provocò la rottura
di equilibri antichi, basati su una struttura patriarcale e feudale. Il nuovo
equilibrio che si andava creando, si presentava sotto la forma dell’aggravio
fiscale, della mancanza di lavoro, del tradimento del problema demaniale,
della staticità dei salari e dell’aumento del costo della vita.
18
L’aumento delle imposte indirette, la svalutazione, la vendita dei
beni ecclesiastici, erano tutte a beneficio dei gruppi più forti del settore
agrario mentre comprimevano ulteriormente la condizione popolare. Un
altro fattore che accentuò il malessere popolare fu l’arrivo nella regione
della pebrina, che aveva colpito la bachicoltura settentrionale alcuni anni
prima del 1860 e che in Calabria produsse i suoi effetti soprattutto nel
primo quindicennio unitario. La malattia del baco e l’arresto delle filande
colpirono duramente il lavoro soprattutto femminile, che sebbene fosse
stagionale, era di vitale importanza in un’economia di autoconsumo.
18
V. Clodomiro, Per una storia dell’emigrazione italiana: la Calabria dal 1880 al 1915,
Quaderni dell’Istituto di Studi Storici, Catanzaro 2002, pp. 59‐63.
16
Queste condizioni caratterizzavano l’agricoltura calabrese all’indomani
dell’Unità, dalla quale ci si aspettava un profondo cambiamento, che non
venne. Il brigantaggio, prima, la crisi agraria e la rottura commerciale con
la Francia, dopo, aggravarono la situazione e a farne le spese furono i ceti
rurali.
Nel primo decennio dell’Unità, lo stato finanziario delle province
calabresi e dei loro comuni non solo era dissestato ma esangue e l’attesa
che lo Stato si assumesse una parte almeno della pesante eredità
borbonica, era generale. In breve tempo, però, ci si rese conto che le cose
stavano diversamente e l’opinione generale fu che non solo lo Stato non
avesse soddisfatto le attese, ma che avesse spremuto un’economia povera
senza sovvenire ai bisogni primari con interventi decisivi.
Tra i numerosi problemi che la Destra dovette affrontare, riguardo
alla crisi che investiva tutto il Mezzogiorno e soprattutto la Calabria, vi
furono il brigantaggio, le conseguenze economiche derivanti
dall’applicazione della legge sul macinato, la questione dei boschi silani e
infine, ma non ultima per importanza, l’emigrazione.
La grave recessione abbattutasi dalla fine degli anni Settanta sulle
campagne del continente, in seguito alla forte concorrenza dei paesi
extraeuropei, investì nel Mezzogiorno soprattutto le aree destinate alla
17
produzione granaria. Da questo punto centrale, la crisi si era dilatata e
intrecciata, come conseguenza delle scelte di politica economica e
doganale adottate per farvi fronte, ad altri settori di vitale importanza,
come quello viticolo, olivicolo ed agrumario. In Calabria, dove la
produzione granaria e viticola era fondamentale, il processo recessivo
ebbe effetti decisivi; la produzione, infatti, diminuì drasticamente.
L’emigrazione calabrese nacque da profondi sconvolgimenti
strutturali che portarono le masse diseredate a tentare di uscire da quello
stato miserevole emigrando. Solo così si spiegherebbe come i contadini
calabresi abbiano potuto sopportare lo sradicamento dalle loro case e dai
propri affetti; diventare trasmigatori oceanici da gente semplice, che non
sapeva né leggere né scrivere e che mai si era allontanata troppo da casa;
vincere la paura per i rischi certi e gravi che l’emigrazione comportava,
erano abbastanza note, infatti, le pessime condizioni degli emigranti
durante i viaggi e la nuova posizione di ostilità del Governo degli Stati Uniti
a partire dal 1882.
19
Concorreva in modo decisivo alla crisi l’aumento della popolazione,
dovuto all’abbassamento del tasso di mortalità, specie infantile, mentre
quello di natalità si manteneva mediamente alto. In Calabria, l’aumento
19
M. D’Ambrosio, Il Mezzogiorno d’Italia e l’emigrazione negli Stati Uniti d’America,
Roma 1924, pp. 61‐97.
18