Durante la guerra fredda, il modello americano era in completa
contrapposizione a quello sovietico, sia sul piano ideologico che su quello
militare. Sul piano ideologico, gli Stati Uniti ricoprivano il ruolo di portavoce
dei valori democratici occidentali, quali il capitalismo, il liberismo e l’economia
di mercato, mentre, dall’altra parte, l’Unione Sovietica rappresentava gli ideali
marxisti, il comunismo e l’economia pianificata.
Sul piano militare si assisteva ad una corsa sfrenata agli armamenti, sia da
un punto di vista quantitativo che qualitativo, e all’esportazione della propria
influenza strategico-militare, cercando di inglobare nella propria sfera
egemonica il maggior numero di paesi neutrali possibili. Con la fine della guerra
fredda, il modello occidentale è l’unico ad essere sopravvissuto e gli Stati Uniti
sono l’unica potenza che sia in grado di poter intervenire in ogni parte del
mondo. D’altra parte l’attuale sistema politico internazionale è caratterizzato da
un numero ristretto di stati aventi una forza equivalente, così la potenza
mondiale risulta più distribuita rispetto al periodo della guerra fredda.
Venendo meno la minaccia politico-ideologica dell’URSS e del
comunismo, gli stati si orientano sempre più verso politiche fondate
sull’interesse nazionale, anche se l’integrazione europea sembra volgersi nella
direzione opposta. L’ordine mondiale, di conseguenza, viene a basarsi non più
su una contrapposizione di ideali, ma su un sistema di equilibrio delle forze e
sulla conciliazione degli interessi nazionali come avveniva nell’Europa del XIX
secolo. Anche gli Stati Uniti devono definire i loro interessi nazionali e
internazionali e attuare una politica estera che permetta loro di perseguirli.
Questo studio si propone di analizzare il ruolo degli Stati Uniti d’America
nel nuovo ordine mondiale, sorto dopo la decadenza dell’Unione Sovietica come
superpotenza contrapposta. La finalità di questo studio è quella di analizzare la
politica estera americana dalla fine della guerra fredda e il sistema globale
emergente, per capire quale sia il nuovo ruolo internazionale degli Stati Uniti: se
siano o no una potenza egemone, se vogliano o non vogliano esserlo, se si tratti
di un’egemonia riluttante.
La potenza americana deve saper ricostruire una strategia politico-militare
capace di far fronte alle esigenze derivanti dall’ordine mondiale emergente. La
difesa deve considerare che non esiste più un unico e definito nemico da
combattere, ma sussistono una serie di minacce più o meno esplicite che
concorrono a minare la sicurezza statunitense e dei suoi alleati, e che vanno dalla
proliferazione delle armi, al terrorismo internazionale all’azione di paesi ostili. Il
crollo dell’Unione Sovietica ha inoltre disteso la tensione della corsa agli
armamenti, portando gli Stati Uniti a dedicare alla difesa una percentuale di
spesa pubblica sempre minore.
La deterrenza nucleare perde il suo ruolo centrale, data la diminuzione di
efficacia riscontrata sia verso la Russia, che in generale verso gli altri paesi.
Riemerge l’importanza delle armi convenzionali nelle guerre locali, mentre il
nucleare riacquista rilievo nella strategia di alcune potenze emergenti. Gli Stati
Uniti hanno incrementato l’utilizzo di azioni preventive e di contromisure che
possano ridurre i rischi delle minacce contro la sicurezza nazionale, tra cui le
sanzioni economiche, il controllo degli armamenti e la politica di non
proliferazione.
Gli Stati Uniti attuano la loro politica estera soprattutto nell’ambito delle
organizzazioni internazionali che, con la fine del bipolarismo, stanno
affrontando un’importante fase di riconversione. Dopo il successo della guerra
del Golfo, le operazioni che l’America ha svolto nel quadro delle Nazioni Unite
sono state caratterizzate da alcuni fallimenti. Tutto questo ha ridotto la fiducia
americana verso l’utilità e l’efficacia dell’istituzione internazionale, che
necessita delle riforme necessarie per poter gestire un sistema mondiale diverso
da quello del secondo dopoguerra.
L’Alleanza Atlantica, sopravvissuta al crollo del bipolarismo, è diventata
l’organizzazione internazionale più efficace nella risoluzione delle crisi regionali
e internazionali. La NATO ha dovuto comunque rinnovarsi dato che è venuta a
mancare una delle principali ragioni per cui era stata costituita: l’opposizione al
blocco sovietico. Gli Stati Uniti hanno dato inizio alla ricostruzione della base
ideologica e strutturale dell’istituzione, attribuendo ad essa nuovi compiti e
ristabilendo nuovi rapporti esterni con i paesi considerati avversari durante la
guerra fredda e interni con gli alleati europei.
L’Unione Europea tenta di formare una politica estera e di sicurezza
comune, che incontri il favore di tutti gli stati membri, al fine affermare il
proprio ruolo a livello mondiale. Le potenzialità dei paesi dell’Unione
potrebbero mettere l’Europa unita su un piano egualitario rispetto agli Stati Uniti
e rappresentare un centro alternativo di potere e di influenza. Questo ancora non
avviene, dato che l’Europa ha aderito quasi totalmente alla politica e alle
decisioni americane, senza proporre una strategia internazionale diversa e
indipendente. La Francia è l’unico paese dell’Unione che tenta di mantenere e
sviluppare una politica autonoma e spesso in contrapposizione con la potenza
statunitense.
Per quanto riguarda la Russia, dopo il disfacimento del blocco sovietico, i
rapporti ostili con l’America sembravano dover automaticamente scomparire. Le
relazioni russo-statunitensi sono però tuttora di difficile definizione. Gli Stati
Uniti si sono impegnati in una politica di aiuti economici, cercando di instaurare
relazioni amichevoli con l’ex potente avversario. In Russia però la crisi
economica e la perdita di influenza nell’area che un tempo rappresentava
l’impero russo e poi sovietico, ha indebolito fortemente il paese che da
superpotenza è diventato un paese in via di sviluppo.
Il tentativo russo di mantenere, anche con la forza, la propria autorità alla
periferia del suo ex impero e di poter ancora influire in modo incisivo sulla
politica internazionale, crea numerosi momenti di tensione con gli Stati Uniti,
aggravati dalla politica di allargamento e dai nuovi impegni internazionali della
NATO, che minacciano lo status della Russia.
La Cina rappresenta la potenza emergente per eccellenza, la quale riesce
tutt’oggi a mantenere una forte indipendenza dal mondo occidentale. La Cina è
una potenza nucleare la cui economia sta crescendo con un ritmo superiore a
qualsiasi altro paese e si prepara a diventare una grande potenza che
condizionerà l’andamento della politica internazionale. L’amministrazione
Clinton si è adoperata con successo affinché tra i due paesi si riaprisse il dialogo,
dopo quattro anni di silenzio a seguito degli avvenimenti di piazza Tien An
Men.
Gli Stati Uniti sono interessati ad instaurare buone relazioni con la Cina,
per la sua importanza negli equilibri dell’area asiatico-pacifica, la cui stabilità
contribuirebbe alla sicurezza internazionale e per la sua rilevanza economico-
commerciale. Gli Stati Uniti incontrano una Cina che, nonostante abbia
intrapreso una politica di maggiore apertura verso l’occidente, coltiva ambizioni
regionali egemoniche spesso in contrasto con gli obiettivi americani. La
questione dei diritti umani è un’altra questione spinosa nei rapporti tra i due
paesi.
Il Giappone, il principale alleato asiatico degli Stati Uniti, è un importante
attore nell’equilibrio dell’Asia e deve stabilire nuove relazioni con gli altri paesi
della regione per mantenerne la stabilità e perseguire il proprio interesse
nazionale. La caduta dell’Unione Sovietica fa scomparire una delle principali
minacce per il Giappone e quindi mette in dubbio la necessità di una stretta
relazione difensiva con gli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti sono l’unica nazione che abbia sempre dichiarato
l’universalità dei propri ideali e che sia stata disposta a combattere per
affermarne la validità. Oggi ci si interroga sulle ragioni che portano gli Stati
Uniti a prendere le decisioni e ad agire in politica estera, ovvero se l’obiettivo
sia la salvaguardia dei propri interessi nazionali o se vengano mossi da grandi
ideali. Dalla fine della guerra fredda è spesso difficile tracciare una linea netta
che distingua gli interessi dagli ideali, ed è altrettanto difficile stabilire se si tratti
di interessi e ideali esclusivamente americani oppure occidentali.
L’idealismo wilsoniano continua a sostenere la politica estera statunitense.
Esso si basava sulla considerazione che gli Stati Uniti non fossero una nazione
come le altre, in quanto vigeva in loro un “eccezionalismo” di ideali da esportare
nel resto del globo. Sempre secondo Wilson, non esisteva una differenza
sostanziale fra la libertà dell’America e la libertà nel mondo. Gli Stati Uniti si
innalzavano di conseguenza al ruolo di benefico poliziotto globale ancor prima
della politica del contenimento, sviluppatasi dopo la seconda guerra mondiale.
Nella convinzione di dover diffondere i valori del proprio paese quale contributo
alla pace mondiale, la sua missione americana oscilla tra quella di “faro” e
quella di “crociato” della libertà.
In questo ultimo decennio la scomparsa della paura del grande nemico
sovietico ha, d’altro canto, provocato una generale disaffezione dell’opinione
pubblica verso la missione internazionale americana. Il popolo statunitense,
comunque diviso al suo interno, sembra lasciarsi coinvolgere maggiormente
dalle questioni di politica interna e rimane spesso distaccato dagli avvenimenti al
di fuori dei confini nazionali.
Dopo l’approfondimento degli argomenti sopra citati, si cercherà di trarre
delle conclusioni che chiarifichino l’attuale ruolo internazionale degli Stati Uniti
e l’esistenza di un’egemonia americana, tentando di fornire i mezzi necessari al
lettore affinché possa elaborare un suo giudizio. Visto che gli avvenimenti che
hanno sconvolto l’equilibrio bipolare sono da considerarsi ancora troppo recenti
e l’ordine mondiale attuale ancora in formazione, i politologi e gli studiosi non
hanno ancora raggiunto un unico e inoppugnabile giudizio su questo tema.
CAPITOLO PRIMO
LA DIFESA ED IL PROBLEMA
DEGLI ARMAMENTI
I.1. L’evoluzione della strategia
I.1.1. La strategia della guerra fredda
Durante la guerra fredda, la sicurezza americana era organizzata sulla base
di due strategie fondamentali: la deterrenza e il controllo degli armamenti. La
deterrenza consisteva nell’utilizzare una minaccia nucleare sufficientemente
forte e credibile tale da convincere l’Unione Sovietica a desistere da dati
comportamenti.
La strategia americana all’interno della NATO consisteva nell’impegnare
la maggioranza delle risorse nella preparazione di un grande scontro, che
sarebbe dovuto accadere tra i due grandi schieramenti. Le bombe e i missili
erano pronti ad essere utilizzate ed era ben nota la quantità di armi nucleari in
possesso di entrambe le superpotenze. Erano stati stabiliti i processi secondo i
quali si sarebbe dovuti arrivare ad una guerra nucleare, mentre si ignoravano
quelli che avrebbero dovuto seguire tale catastrofe.
Durante gli ultimi dieci anni di Guerra Fredda, stava iniziando una nuova
strategia che si incentrava maggiormente nella fase operativa della difesa,
tralasciando lo sviluppo della tecnologia distruttiva. Solo con la fine della guerra
fredda, la Nato ha potuto pianificare ed organizzare una guerra convenzionale, in
cui gli Stati Uniti, non avrebbero dovuto utilizzare le armi nucleari. Questo è
quello che è avvenuto con successo con l’operazione Desert Storm in Iraq.
2
I.1.2. La strategia degli anni novanta
La strategia di questi ultimi dieci anni è stata quella di intervenire in
alcune crisi locali, rendendo difficile inserire tali interventi in una politica
coerente e basata su priorità precostituite. Sarebbe necessario definire una
strategia che organizzi la sicurezza contro le minacce internazionali nel lungo
termine, stabilendo una serie di priorità.
3
Gli anni novanta hanno segnato una riclassificazione nella lista di tali
priorità. Il 22 giugno del 1999 a Skopje pronunciando un discorso davanti alle
truppe della KFOR, il Presidente Clinton ha affermato che, ovunque si
perpetrino persecuzioni e genocidi contro i civili, gli Stati Uniti interverranno
con il loro potere per farli terminare. La cosiddetta “Clinton Doctrine” evidenzia
come prioritaria la necessità di risolvere crisi locali, dove venga offesa la
coscienza umana e minata la stabilità regionale ed internazionale. Queste crisi
non minacciano direttamente interessi vitali americani.
Analizzando il budget della difesa, invece, si può notare che la
maggioranza dei fondi viene destinata all’eliminazione dei conflitti nel nord-est
2
Lawrence Freedman, “The Changing Forms of Military Conflict”, Survival vol.40 n.4, inverno 1998-
1999, pp. 42-43
e nel sud-ovest dell’Asia, i quali vanno a minacciare interessi vitali per gli Stati
Uniti. In questi casi l’America adotta una strategia tipica della guerra fredda, la
deterrenza, che in questi casi si esplica nella minaccia di un immediato
intervento militare.
La minaccia alla sopravvivenza e alla posizione internazionale degli Stati
Uniti si è quasi annullata con la caduta dell’Unione Sovietica. La presenza di
situazioni “pericolose” che rischiano di trasformarsi in reali minacce orienta la
strategia verso la prevenzione e la creazione di contromisure.
4
Una delle
preoccupazioni più sentite sembra proprio quella di concentrare gli sforzi sulla
protezione nazionale e sul terrorismo internazionale, organizzando un
programma di difesa contro l’utilizzo di armi chimiche, biologiche e di missili
balistici in territorio statunitense. Questa politica implicherebbe uno
spostamento di risorse dai conflitti stranieri verso l’interno.
5
L’accesso alle tecnologie dell’informazione permette di migliorare
l’efficienza del potere militare massimizzando velocità, precisione e riduzione
delle perdite umane. Una guerra in cui si possano conciliare bassi costi, sia
finanziari che umani, non risponde soltanto a delle esigenze prettamente
militari, ma soprattutto a nuove pressioni politiche e morali. In passato, i paesi
occidentali erano pronti a minacciare un genocidio per impedire un’aggressione,
perché non esisteva il rischio effettivo che tale aggressione si verificasse. Oggi
non sarebbero più disposti ad accettare un approccio diverso e più violento, a
meno che non sia oggettivamente in gioco la sopravvivenza della loro società.
6
3
Ashton Carter, “Adapting US Defence to Future Needs”, Survival vol.41 n.4, inverno 1999-2000,
p.101
4
Ibidem, pp. 103-105
5
Richard Betts, “The New Threat of Mass Destruction”, Foreign Affairs vol.77 n.1, gennaio-febbraio
1998, p. 28
6
Cfr. Lawrence Freedman, op.cit., p. 44
I.1.3. La riduzione della spesa militare statunitense.
Gli Stati Uniti possiedono la più consistente forza militare del mondo, ma
per mantenere tale livello è necessario investire somme di denaro in misura
superiore a quella prevista dal budget federale. La potenza militare statunitense è
considerata la sola forza garante della stabilità e della pace mondiale. Nell’era
successiva alla guerra fredda però, le Forze Armate americane vengono
trascurate, minacciando la capacità e la possibilità di poter mantenere la pace. La
spesa pubblica per la Difesa era stata già ridotta con l’amministrazione Bush nel
1991 e con Clinton questa riduzione si è intensificata.
Le conseguenze di questi provvedimenti sono state il peggioramento della
preparazione militare, l’abbassamento del morale dei soldati che si sono visti
ridurre la retribuzione del 15% rispetto a impieghi civili equivalenti e le
crescenti difficoltà nell’arruolamento di nuovi elementi. Tutto ciò è in totale
contrasto con il crescente numero di crisi locali, in cui le Forze Armate
americane sono state impiegate in questi ultimi dieci anni.
Sarà una sfida del futuro Presidente cercare di conciliare la riduzione di
fondi per la difesa con il moltiplicarsi degli interventi bellici. La forza militare
statunitense deve poter affrontare ogni tipo di potenza ostile, non solo agli
interessi americani ma anche a quelli dei paesi alleati che condividono con gli
Stati Uniti ideali e principi. Risulta importante ottimizzare l’efficienza delle
truppe migliorandone il trattamento economico e la preparazione. L’acquisizione
di nuove armi si rivela fondamentale per poter affrontare le crisi del
ventunesimo secolo, anche se gli Stati Uniti continuano a possedere un ampio
vantaggio tecnologico rispetto agli altri paesi.
7
Spesso però, anche la migliore tecnologia non è sufficiente a garantire una
vittoria. La forza militare statunitense si è dimostrata imbattibile rispetto a paesi
dai confini e tecnologia limitati, come il Kuwait e la Corea, i quali possiedono
solo armi convenzionali. Esistono, al contrario, paesi che impostano i loro
programmi militari in funzione dell’eliminazione della supremazia tecnologica
americana. Questi paesi hanno la possibilità di poter combattere e di poter
esercitare un potere deterrente contro gli Stati Uniti.
In particolar modo in Asia, la forza militare statunitense è messa in
discussione. Paesi come Israele, Siria, Pakistan, Iran, Cina, India e Corea del
nord stanno concentrando i loro sforzi nel costruire missili balistici, mentre gli
Stati Uniti propongono sistemi di difesa anti-missili per fermare le teste
esplosive.
8
Nonostante la riduzione dei budget della difesa, la spesa rimane
comunque tre volte superiore a quella di ogni paese potenzialmente ostile e più
alta della somma dei budget di difesa di Russia, Cina, Iran, Iraq, Corea del nord
e Cuba. Mancano quindi i presupposti per cui un aumento della forza militare di
questi paesi possa renderli competitivi rispetto alla superpotenza statunitense.
9
7
Condolezza Rice, “Promoting the National Interest”, Foreign Affairs vol.79 n.1, gennaio-febbraio
2000, pp. 50-52
8
Paul Bracken, “The Second Nuclear age”, Foreign Affairs vol.79 n.1, gennaio-febbraio 2000, 151
9
Cfr. Richard Betts, op.cit., p. 28