La domanda a cui si cercherà di dare una risposta è se il concetto di benessere
prevalente nella società occidentale, caratterizzata da un'economia basata sulla
produzione e sulla crescita infinita e quindi definita anche società della Crescita,
combaci con le definizioni che la Psicologia ci dà di benessere soggettivo e qualità della
vita (Cacciari, 2006; Bonaiuti, 2005; Goldwurm et al., 2004; Cicognani, Zani, 1999).
Cercheremo di comprendere se e in che modo questa società della Crescita sia in
grado di offrire ai suoi appartenenti felicità e appagamento, e attraverso le profonde
analisi critiche proposte da Galimberti (2000, 2003), Weil (1983), Tiezzi (2005), Lorenz
(2002), Bonaiuti (2005), Cross (1998), Rifkin (2000), Inghilleri (2003), Ingrosso (2003),
Zoja (2005) ed altri, cercheremo di comprendere in che modo, invece, questa società
finisca per provocare in coloro che ci vivono un senso di smarrimento, finisca per farli
sentire “insensati” perché prigionieri della mancanza di senso della società Tecnica,
denunciata su tutti e con parole ineguagliabili da Galimberti (2000, 2003).
Per fare questo, nel primo capitolo ripercorreremo le tappe dello sviluppo
industriale che hanno portato all'affermazione di quello che noi adesso definiamo
benessere, ma che sostanzialmente si configura come un benessere esclusivamente
economico: un ben-avere.
Il filo conduttore del primo capitolo sarà l'evolversi della Rivoluzione Industriale
attraverso le sue tappe, che Sylos Labini considera essere quattro. Ogni tappa
rappresenta una rivoluzione a sé stante, e quella che stiamo vivendo attualmente sarebbe
la quarta (Sylos Labini, 1988). Altri contributi di storia dell'economia ci aiuteranno nel
definire questo percorso (Deane, 1982; Cross, 1998; Galbraith, 1988; Latouche, 2002;
Melograni, 1988; Ricossa, 1988; Rifkin, 2001, 2002b; Strasser, 1999).
Una volta definito quale sia il concetto di benessere che abbiamo ereditato dal
rapido processo di industrializzazione, analizzeremo il concetto di benessere anche da
un punto di vista psicologico, andando a ripercorrere, nel secondo capitolo, l'evoluzione
storica di benessere e qualità della vita nelle discipline psicologiche, evidenziando
quando e in che modo la società civile ha iniziato a porsi il problema del benessere
psicologico contrapponendolo alla definizione arida e materialista che siamo abituati ad
avere del benessere, in che modo esso viene valutato, e quale è la relazione che
intercorre fra l'essere umano contemporaneo, il suo universo di cose e la sua condizione
di benessere psicologico (Inghilleri, 2003; Goldwurm et al., 2004; Cicognani, Zani,
1999).
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Nel terzo capitolo si parlerà invece degli indici di misurazione del benessere più
utilizzati, partendo da quello tristemente più noto, il PIL, passando attraverso le
misurazioni di benessere che ci offre la Psicologia, e finendo poi col proporre delle
misurazioni alternative ed integrate del benessere in cui si considerino, oltre a quelle
economiche, anche variabili di ordine sociale, ambientale e psicologico.
Il lavoro si concluderà, nel capitolo quarto, con l'introduzione del tema della
filosofia della Decrescita quale nuovo paradigma sociale ed economico, e terminerà col
tentativo di valutarne l'efficacia, nello scenario di una sua ipotetica diffusione e
applicazione pratica.
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1. Evoluzione del concetto di benessere/malessere dalla società
preindustriale alla società della crescita
1.1 La società della crescita
“È segno di grande miseria, che l'uomo abbia
bisogno di tante cose”.
Tuiavii di Tiavea (1998: 30)
Uno degli effetti più evidenti del progresso tecnologico è stato, fin dagli albori
della rivoluzione industriale, lo stravolgimento del nostro stile di vita e dei suoi ritmi.
Uso questo termine che indica un radicale cambiamento ma non ne indica la specifica
direzione, quando in realtà potremmo parlare più precisamente di aumento e
accelerazione dei nostri ritmi di vita e di crescita - sia quantitativa che qualitativa - del
nostro tenore di vita, poiché questa trasformazione si è sempre mossa lungo una
direttrice di incremento.
L'aumento della velocità dei nostri tempi vitali da allora non ha conosciuto soste.
La transizione da una società agricola, caratterizzata da tempi lunghi, biologici, dalla
stagionalità delle colture e dalla ritmicità moderata della natura, ad una società
industriale e tecnologica, assillata dalle procedure, dalla tempistica, dalla produttività,
dall’efficienza e da tutto ciò sia possibile misurare in frazioni temporali ha prodotto
delle conseguenze rilevanti, molte volte positive ed eccezionali, altre volte negative e
quasi catastrofiche. È sulla valutazione di queste conseguenze che si sviluppa un
dibattito antitetico, non sulla loro maggiore o minore portata.
Alla luce di questa premessa, possiamo definire la nostra società come un insieme
di realtà economiche, industriali e produttive costantemente proiettate verso
un'apparentemente interminabile crescita che si esprime attraverso l’aumento degli
scambi commerciali e della produzione industriale di beni, l’incremento del prodotto
interno lordo, del reddito pro-capite, dei consumi energetici, dell'acquisto di beni
durevoli, della ricchezza (Cacciari, 2006).
Questi obiettivi sono perseguiti come delle priorità non solo dai singoli esseri
umani che fanno parte di questa società, ma anche e soprattutto dalle istituzioni
politiche. La crescita, quindi, non è solo un obiettivo comprensibile per tutti coloro che
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operano secondo le leggi del mercato e che sono alla ricerca, per statuto, di continui
incrementi nei profitti, ma è anche un obiettivo irrinunciabile di ogni organismo
nazionale.
Lo Stato, in questa ottica, si configura come una gigantesca impresa alla cui
amministrazione si applicano i medesimi criteri che vengono utilizzati per amministrare
un'azienda privata (Latouche, 1995).
Sotto questa luce la nostra società appare, alla stregua di qualsiasi azienda o
impresa privata, come una società mai sazia, mai soddisfatta, sempre in espansione e
continuamente alla ricerca di nuovi spazi da conquistare.
Al contrario delle imprese private che sanno perfettamente quale è il proprio
obiettivo, la nostra organizzazione sociale è costituita da individui, o da gruppi di
individui mediamente indipendenti l’uno dall’altro, ma caratterizzati ognuno da una
discreta anche se variabile attitudine ad essere convinti, influenzati, manovrati, a volte
plagiati. Questo dato è oramai acquisito e dobbiamo la sua scoperta e la sua
comprensione, fra le altre discipline, anche alla Psicologia (Cacciari, 2006; Troilo,
2005). Questi fattori, interagendo, rendono la nostra società assolutamente non più in
grado di valutare, decidere e scegliere in modo indipendente, perché le categorie
estetiche e morali sono ormai di competenza esclusiva dei pubblicitari, dei
comunicatori, dei mass media in generale, che a loro volta esprimono il punto di vista
esclusivo e parziale di società private, con esclusive finalità economiche o proselitiste e
il cui unico scopo è quello di garantire la maggiore espansione possibile di un dato
prodotto, comportamento o semplicemente di un'idea, una convinzione, un
atteggiamento. Soggetti quindi che hanno una motivazione economica o ideologica nel
persuadere masse sempre più nutrite di consumatori inconsapevoli all’acquisto di
prodotti, alla fruizione di servizi, all’apprendimento di nuove abitudini sociali legate al
lavoro, all’alimentazione, alla comunicazione e all’intrattenimento.
Siamo in pratica inseriti in una società che produce incapacità di giudizio, se per
“capacità di giudizio” si intende la possibilità di esprimere una preferenza verso un
qualsiasi oggetto o comportamento senza subire determinanti influenze esterne; in un
certo senso, “la capacità di saper discernere il valore e il significato, anche in relazione
alle conseguenze, delle proprie azioni e omissioni e controllarle, con facoltà di decidere
e autodeterminarsi”, che sarebbe poi una delle molteplici definizioni date della capacità
di intendere e di volere (Invernizzi, 1996, 495).
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Viviamo in una società i cui individui sono ormai incapaci di produrre beni perché
assuefatti all’idea dell’indispensabilità dell’acquisto di merci. Una società e uno Stato
che dovrebbero essere fondati sul valore del lavoro, ma che hanno finito per esaltare il
solo lavoro salariato e dipendente, deresponsabilizzante nella sua totale assenza di
rapporti causa-effetto fra l'attività svolta dal lavoratore e il prodotto finito sempre più
immateriale. Una forma occupazionale che frustra, come sostiene Galimberti (2000),
l'homo faber, che non può riconoscere se stesso in un'attività afinalistica, dove non vi è
“più alcuna correlazione tra l'attività effettivamente svolta dall'homo faber e il prodotto
che dovrebbe rivestire il ruolo di immagine-guida della sua attività” (Galimberti, 2000,
606). Un'attività che fornisce ricchezza materiale ma che sottrae tempo, energia e
motivazione individuale alla creazione autonoma e alla determinazione soggettiva di
che cosa sia la propria ricchezza.
Una società che vive in un rapporto di dipendenza e di sudditanza nei confronti di
regole economiche convenzionali la cui assolutezza concettuale è indimostrabile
(Latouche, 2005) e che costringe il singolo individuo a una specializzazione forzata che
è in fondo uno stato di schiavitù nei confronti delle proprie limitate capacità pratiche,
grazie alle quali siamo inseriti in modo precario e contingente nel meccanismo
occupazionale, di cui poi diventiamo servi attraverso le catene indistruttibili del credito
al consumo (Gelpi, Julien-Labruyère, 1994). La nostra è ormai una società obesa,
onnivora, infestante e assolutamente disconnessa dall’ambiente.
Il termine “crescita” è ormai immancabilmente presente in ogni discorso politico,
indipendentemente dallo schieramento cui appartiene chi lo pronuncia.
In un processo incredibile di assimilazione concettuale anche i rappresentanti di
posizioni politiche lontane dalle teorie economiche liberiste parlano ormai della crescita
come di qualcosa di incredibilmente necessario e irrinunciabile, e della decrescita
economica, paradossalmente definita crescita negativa, come di qualcosa di catastrofico
da evitare (Latouche, 2005). L’Unione Europea stessa pone l’obiettivo della crescita
come un fattore primario e imprescindibile da perseguire, e le organizzazioni
economiche sovranazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale o la Banca
Mondiale, considerano la crescita l'obiettivo principale da raggiungere.
La crescita di cui stiamo parlando appare evidentemente caratterizzata in senso
esclusivamente economico (Cacciari, 2006). Se, per esempio, si parla di aumento
dell’occupazione lo si fa solo in termini percentuali, mai si pone la questione del
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miglioramento, per esempio, delle condizioni lavorative (Cacciari, 2006). Il fatto che
questo miglioramento non sia facilmente misurabile pone evidentemente dei problemi
che rendono inutile se non sconveniente la valutazione di certi parametri. Allo stesso
modo, una ipotetica contrazione dei consumi di energia elettrica viene vista
negativamente, perché comporta un decremento del prodotto interno lordo, ma
comporta anche un miglioramento, seppur infinitesimale, della qualità dell’aria che
respiriamo (Pallante, 2005).
Viviamo in una società che si è totalmente sbarazzata del dovere naturale di
educare i propri figli a vivere nell’ambiente in cui sono nati, a rispettarlo e a
considerarlo indispensabile e quindi insostituibile, a convivere con le regole immutabili
che lo governano accettando l'inevitabile sottomissione ad esse.
Piuttosto che affrontare i problemi attuali dell'ecosistema si sceglie di difendere
strenuamente l'attuale sistema economico-industriale promettendo che presto le
innovazioni tecnologiche lo emenderanno rendendolo sostenibile ed ecologico,
dimenticandosi poi di destinare, quantomeno, adeguate risorse economiche alla ricerca
scientifica (Bonaiuti, 2005).
Viviamo in una società di peccatori capitali, per usare un'analogia cara a Konrad
Lorenz (2002), i cui peccati non sono più l’adulterio, la blasfemia o l’omicidio ma sono
la sovrappopolazione del pianeta, la devastazione dello spazio vitale, la demolizione
delle tradizioni, il deterioramento del patrimonio genetico e il ricorso alla tecnologia
nucleare. In una parola: l’ecocidio.
Viviamo in una società che non è più definibile tale, o che il termine società non è
più in grado di definire l’insieme umano in cui viviamo. Se per società si intende un
“gruppo di uomini uniti da tradizioni, convenzioni, ordinamenti, costumi, con particolari
strutture gerarchiche e rapporti definiti” (Edigeo, 2006, 1749) sicuramente la nostra
società non soddisfa a pieno questi criteri. Neanche le altre definizioni ci sembrano
calzanti: “Associazione di individui di una specie animale che vivono assieme e fanno
fronte alle necessità della comunità dividendosi i compiti” oppure “associazione di
persone aventi fini comuni” (Edigeo, 2007, 1749). Nonostante ciò, viviamo in un
ambiente strettamente omologante, e che concede sempre meno spazi alla diversità, che
soffoca l'individualità, che ci riduce “a ripetitori del monologo collettivo, l'anima di
ciascuno conforme all'anima dell'altro, e il suo tratto specifico, non avendo un
vocabolario a disposizione che non sia il monologo collettivo in cui non riesce a dirsi, o
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tace in quel silenzio che ciascuno sempre più avverte quando incontra se stesso, o
prende gli itinerari spezzati, disarticolati e dissennati della follia” (Galimberti, 2002,
664). Una società conformista quindi, che rende la vita illusoriamente libera perché
“quando è la vita stessa a compiere il lavoro di omologazione, le procedure che lo
attuano, non avendo bisogno per imporsi di misure speciali, sembrano inesistenti, e
quando il comando è neutro, più naturale è l'obbedienza e più garantita è l'illusione della
libertà” (Galimberti, 2003, 79). E il conformismo è solo uno dei nuovi vizi capitali
individuati dal filosofo che descrive, nel suo I vizi capitali e i nuovi vizi (2003), il
consumismo, la spudoratezza, la sessomania, la sociopatia, il diniego, il vuoto, come le
nuove piaghe che affliggono il nostro mondo contemporaneo.
Ciò che manca nella società in cui siamo immersi, rispetto alle lapidarie
definizioni da vocabolario, fosse solo per somigliare al significato reale di questa parola,
è la solidarietà, la legittimazione dell'altruismo, l'ammirazione della generosità. Magari
una solidarietà strumentale, non compassionevole ma utilitaristica, la solidarietà di chi
ha compreso che un benessere più generalizzato permette a tutte le parti del sistema di
funzionare al meglio. Una solidarietà di origine razionale, non emotiva o filantropa, ma
che in ogni caso deve abbandonare ogni pretesa egoistica per realizzarsi. È del resto
comprensibile come in una società governata dal regime della razionalità tecnica, in cui
il perseguimento dell'interesse egoistico è diventato semplicemente logico, “ogni forma
di dedizione e di altruismo [...] appare come semplice espressione di irrazionalità. In
questo modo all'intellettualismo della razionalità tecnica corrisponde l'egoismo sul
piano etico, l'individualismo sul piano sociale e il narcisismo sul piano psicologico”
(Galimberti, 2002, 672).
La nostra società appare inoltre come un insieme umano che non ha avuto il
tempo di maturare ed evolversi al ritmo delle tecnologie che gli crescevano intorno
poiché travolto da un progresso tecnico e scientifico di velocità inedita, se lo valutiamo
in termini evoluzionistici. Ci ritroviamo inseriti, quindi, in modo improvviso e
ineluttabile in un universo tecnico, pur conservando dentro di noi “i tratti dell'uomo pre-
tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio
di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva” (Galimberti, 2000, 34),
e come afferma Heiddeger, “ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si
trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che
l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga
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più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero
meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra
epoca” (Galimberti, 2002, 33).
Siamo stati tutti chiamati ad uniformarci e stare al passo con la velocità di questo
cambiamento, senza la minima possibilità di critica o di messa in discussione di un
qualcosa che stava distruggendo totalmente i nostri sistemi di organizzazione sociale e
comunitaria. Siamo stati sapientemente informati, poi abituati e infine assuefatti al
nuovo, senza avere mai la possibilità di abituarci al vecchio. Il risultato è stato che
ormai viviamo tutti assurdamente proiettati in un futuro che ancora non c’è e che non ci
sarà mai, perché questa predisposizione mentale verso il domani svuota di significato il
futuro stesso, facendolo diventare l’attualità di oggi (Matteucci, 1988). Come sostiene
Galimberti (2002, 520), “oggi il soggetto è presente al divenire della tecnica, che
trascorre e fugge in un suo tempo che difficilmente potremmo chiamare il nostro tempo
[...]”. Viviamo ormai “nella pura accelerazione del tempo, scandita non dai progetti
umani, ma dagli sviluppi tecnici che, consumando con crescente rapidità il presente,
tolgono anche al futuro il suo significato prospettico, quindi il suo 'senso' ”(Galimberti,
2000, 700).
Questo asservimento acritico al progresso tecnologico è stato semplicemente il
prodotto di un approccio filosofico alla tecnica come fine e non più come mezzo per il
raggiungimento di un obiettivo (Latouche, 1995). Le leggi dell’economia e della
scienza, e i prodotti tecnologici stessi, invece di essere usati per il miglioramento della
condizione di vita degli esseri umani, o almeno di una sua parte, sono ormai fini a se
stessi. Sono diventate il vero e unico contenuto del nostro sistema sociale, è quindi
automatico per chi vi cresce accettarle come naturali (Latouche, 1995).
In questo panorama, in cui scienza, tecnica e leggi economiche sono vissute e
insegnate come degli assiomi pretestuosi, il cittadino e lo Stato Nazionale si ritrovano
completamente spogliati della loro sovranità: se la sola cosa che un Governo deve fare è
gestire degli obblighi, il suo unico ruolo diventa l’amministrazione delle cose e
all’interno di un tale sistema l’uomo perde ogni velleità politica e ogni diritto. In questa
ottica, come sostiene Serge Latouche (1995), si può tranquillamente sostituire l’uomo
con una macchina per votare, cioè per dire sempre sì, perché uno e uno solo sarà il
modo giusto di fare le cose, e la competenza di capire il perché non sarà mai di normali
cittadini armati di senso comune, ma dei tecnici: economisti, fisici, ingegneri. Loro
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diranno cosa, poi semmai si potrà discutere il come. Seguendo la logica del colpo
partito, non sarà più possibile nemmeno paventare la non realizzazione di un progetto
ormai deciso, sarà solo possibile discuterne eventuali ritocchi. Sarà (o è) il trionfo della
tecnocrazia (Latouche, 1995).
Di fronte a un simile scenario non c’è spazio per utopie futuristiche. Come si può
immaginare che su certe basi sociali si riesca a costruire una perfetta società in un futuro
iper-tecnologico? E’ molto più probabile che questa utopica prospettiva di futuro non si
avveri, che venga semplicemente usata come la carota e noi come gli asini,
rincorrendola alla ricerca del domani migliore o perfetto che in realtà non si
materializzerà mai, ma nel frattempo sfruttati per dissodare terra non nostra e dei cui
frutti non potremo mai godere.
Costruire una società perfetta converrebbe, infine, a chi trae giovamento dalle
condizioni in cui versa l'attuale? Questo è un altro interrogativo che merita attenzione.
Poniamo che sia possibile, assecondando il progresso tecnologico, arrivare alla
costruzione di una società non perfetta certo, ma funzionante: non inquinante, senza
disoccupazione o comunque senza povertà estrema, senza tensioni geopolitiche legate
alle risorse energetiche, senza clamorose ingiustizie sociali. Già questo quadro ha tinte
talmente surreali da renderci quasi impossibile il solo immaginarlo. Ma se un tale
scenario si verificasse, quali sarebbero le possibili conseguenze, per esempio
economiche e commerciali, della costruzione di una società di persone soddisfatte,
appagate, felici? Spenderebbero di più o di meno? La loro ansia consumistica si
attenuerebbe? I centri commerciali continuerebbero ad essere le venerate e
frequentatissime cattedrali dello shopping che sono adesso o comincerebbero ad
apparire come delle grottesche rificolone al neon? E nel segreto delle urne, un elettore
con un livello di tensione emotiva inferiore, un elettore più tranquillo, non assillato dalla
totale incomprensibilità della sua vita, persa fra le otto ore di lavoro, il mutuo, le bollette
e i figli, sarebbe più coscienzioso o meno? Sarebbe più indipendente nelle scelte o
sarebbe più manipolabile? E soprattutto, l'attuale sistema economico si adatterebbe e
sopravviverebbe alle caratteristiche mutate di un tale sistema sociale, o vi si porrebbe in
contrasto?
Baudelaire aveva definito il progresso, usando un aggettivo greco,
heautontimoroumenos: distruttore di se stesso (Pallante, 2005). La parafrasi economica
di questo concetto si può attribuire a Joseph A. Schumpeter che con la sua teoria della
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“distruzione creatrice” aveva individuato nella distruzione dei prodotti ormai non più
tecnologicamente all’avanguardia, seguita dalla loro sostituzione con altri più
tecnologici e moderni, l’unica possibilità concreta di aumentare il prodotto interno lordo
oltre certi livelli (Pallante, 2005, 72). Anche Galimberti considera il consumo
“condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico” (Galimberti, 2000,
611). Il consumo inoltre, “costretto a diventare 'consumo forzato', comincia a profilarsi
come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale
dell'apparato tecnico” e del mercato (Galimberti, 2000, 611).
La nostra società rispecchia ormai pienamente questa definizione: fagocita
prodotti, innovazioni, tecnologia sempre più all’avanguardia, pur essendo costituita da
individui che di questa tecnologia e di questi prodotti hanno fatto a meno per buona
parte della vita, e che adesso sono vittime di un processo di induzione di bisogni
artificiali che rendono queste novità immediatamente indispensabili (Cacciari, 2006).
La nostra società si è ormai trasformata in un enorme complicatissimo insieme di
ingranaggi che si muovono unitariamente verso la propria distruzione. Una
Megamacchina all’interno della quale, anno dopo anno, il sistema economico e
finanziario, assolutamente scevro di democrazia, si fonde sempre più e in modo sempre
più indistinguibile col sistema politico, burocratico e poliziesco dando vita - usando le
parole di Bernard Charbonneau - a un “totalitarismo culturale di cui il totalitarismo
politico non è altro che la conclusione più o meno necessaria” (Latouche, 1995, 7).
Necessaria per evidenti ragioni di gestione, in quanto l’eccessiva complessità del
nostro sistema politico e sociale ma anche e soprattutto del nostro sistema energetico,
sta rendendo imprescindibile l’adozione di sistemi sempre più centralizzati di
organizzazione, di controllo, come centralizzata e monopolista è la gestione dell’energia
che lo alimenta (Rifkin, 2002a). Come scrive Ellul, solo un sistema totalitario può
davvero gestire una società tecnica, una società tecnologica e sempre in progresso, una
società ispirata dall’utopia della crescita infinita (Latouche, 1995).
Un interrogativo interessante è quali siano le conseguenze psicologiche che
l’organizzazione sociale in cui viviamo ha sui suoi componenti, quali siano le influenze
psicologiche che subiscono i figli di questa società, cosa significhi nascere in questa
società, crescere accecati da continui e incessanti messaggi pubblicitari, essere educati
al di fuori del nucleo familiare, dimenticare i propri legami biologici e parentali col
passato e il valore stesso di questi legami. Diventa obbligatorio chiedersi come la
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macchina sociale si impegni nel costruire i propri futuri ingranaggi, attraverso quali
tecniche cerchi di formare i consumatori di domani. Di conseguenza diventa inevitabile
domandarsi quanto queste tecniche soddisfino dei criteri etici e se la loro
sistematizzazione e il fatto che siano oggetto di insegnamento universitario risponda a
criteri di moralità.
In una società, la società del benessere e della crescita, che accetta l’immorale e lo
fa diventare il suo sistema di gestione e di educazione, ogni cosa perde di valore, perché
si perdono i punti di riferimento etici su cui ogni società dovrebbe basarsi. Diventa una
società incapace di accogliere, di rassicurare, si trasforma in una società in cui trionfa
qualsiasi velleità egoistica in una logica che esalta l’efficienza, la produttività e il
benessere economico. Diventa una società patogena che, oltre ad ammalare i suoi
cittadini a causa dell’inquinamento o della notevole diffusione dell’alcool o del tabacco,
ammala i suoi figli di patologie ben più gravi, patologie psichiche che secondo il punto
di vista di Richard Gordon (2004) possono essere classificate e definite come disturbi
etnici. Anoressia, bulimia, comportamenti compulsivi legati all’acquisto di merci, al
gioco d’azzardo, patologie psicosessuali legate alla diffusione della pornografia o alla
mercificazione del sesso, condizioni di dipendenza da droghe ipocritamente definite
illegali ma di larga diffusione e consumo.
E con quale diritto le stesse discipline che da un lato s’impegnano nel potenziare
l’efficacia dei mezzi di comunicazione e nell’affilare le armi della loro persuasione
commerciale e ideologica poi si cimentano nella cura degli stessi soggetti che hanno
contribuito a deviare, a smarrire, a precipitare in una vita eccessivamente complessa e
automatica, da cui diventa impossibile districarsi e di cui diventa assurdo il solo
tentativo di comprenderne il significato?
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1.2 Il malessere pre-industriale
“L'uomo primordiale stava meglio, perché ignorava
qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua
sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto
esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della
sua felicità per un po' di sicurezza”
S. Freud (1929, 602)
La civiltà industriale in cui viviamo ha avuto, fin dalle sue origini, l’effetto di
scompigliare e mettere in discussione i criteri etici e morali che la governavano,
rendendone sempre più difficile la valutazione secondo parametri stabili e affidabili
(Melograni, 1988).
Da secoli ormai, l’economia e il mercato ci hanno costretto a rivedere leggi e
regole morali che sembravano immutabili. Un esempio che ha radici antiche, ma che è
comunque molto rappresentativo, è l’applicazione del tasso d'interesse, comportamento
visto come degradante e peccaminoso nell’epoca medievale (e tuttora inviso alla
religione musulmana) ma ormai consolidatosi come una normale e generalmente
accettata pratica finanziaria (Gelpi, Julien-Labruyère, 1994).
Il materializzarsi e consolidarsi di forme sempre più estreme di consumismo, o
potremmo chiamarlo, con Melograni (1988), opulentismo, mette ancor più in
discussione questi parametri, rendendoci quasi impossibile qualsiasi valutazione etica
(Melograni, 1988). Le continue innovazioni tecnologiche, mettendoci a disposizione
beni di natura sempre diversa, ci pongono di fronte alla difficoltà di individuare un
limite accettabile all’acquisizione di questi beni.
Non si tratta più di decidere quando fermarsi nella fruizione dello stesso bene, non
si tratta più di far buon uso di moderazione e temperanza, precetti comportamentali e
morali di origine religiosa che per secoli hanno impregnato l’educazione familiare nel
nostro paese e che ormai sono completamente svuotati di significato (Melograni, 1988).
La continua pioggia di novità merceologiche e le tecniche di comunicazione
pubblicitaria utilizzate per sponsorizzarne la diffusione hanno messo in crisi, nell’arco
di un secolo, schemi comportamentali fondati su princìpi cristiani che ormai erano
consolidati da tempo (Strasser, 1999).
Ci ritroviamo quindi a vivere in una società dove è ormai diventato impossibile
assolutizzare e generalizzare il concetto di bene male, e se ci vogliamo spingere nel
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tentativo di definire un concetto tanto relativo come quello di benessere, dobbiamo
prendere in considerazione variabili psicologiche, socioculturali ed economiche attuali,
ma non possiamo prescindere da una retrospettiva storica sull’argomento.
Un filo conduttore interessante da seguire, nel tentativo di ricostruire la genesi e le
mutazioni del moderno concetto di benessere, è l'evoluzione della Rivoluzione
Industriale.
Secondo Sylos Labini (1988) possiamo parlare, in accordo con Schumpeter, di
varie fasi che hanno contraddistinto il processo ancora in atto di industrializzazione.
Sylos Labini ne individua quattro.
La prima, indicata dagli storici come la vera e propria Rivoluzione, ha avuto
luogo alla fine del diciottesimo secolo in Inghilterra ed è stata legata all’introduzione
della macchina a vapore per usi fissi e quasi esclusivamente industriali. La seconda fase
è stata caratterizzata dallo spostamento dell’utilizzo della macchina a vapore verso usi
mobili, e ha visto quindi la nascita, seppur embrionale, della mobilità di massa. La terza
è stata caratterizzata dalla convergenza di più direttrici innovative: l’invenzione e
diffusione del motore a scoppio, la chimica e gli idrocarburi, l’elettricità. Oggi, sempre
in accordo con Sylos Labini (1988), staremmo vivendo una quarta fase, la fase
dell’elettronica, dell’informatica, dell’utopia dell’automazione, ma anche quella
dell’utopia energetica che vede l’idrogeno superare l’atomo per forza suggestiva, la fase
del trasporto aereo e delle migrazioni di massa e di un'ultima e forse più grande utopia,
quella dei viaggi spaziali. Ognuna di queste fasi ha prodotto dei cambiamenti radicali,
andando a migliorare, o forse solo a trasformare, le condizioni di vita dei cittadini dei
paesi in cui si sono verificati.
L'organizzazione sociale, precedentemente all’avvento della rivoluzione
industriale, si caratterizzava per la sua stretta relazione con l’agricoltura. Intorno alla
metà del XIX secolo, per esempio, il 75% della forza lavoro negli Stati Uniti era
impiegata in agricoltura (Rifkin, 2002b). In questo periodo fecero la loro comparsa le
prime ed importanti innovazioni tecnologiche, che applicate all’agricoltura portarono
nel giro di venticinque anni a una riduzione della forza lavoro impiegata in questo
settore dal 75% al 50% (Rifkin, 2002b).
Le invenzioni alle quali dobbiamo questo crollo del tasso occupazionale sono
l’aratro d’acciaio, la mietitrice e i primi rudimentali trattori. Niente in confronto alle
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innovazioni tecnologiche che possiamo osservare al giorno d’oggi nell’agricoltura
statunitense, ormai quasi totalmente automatizzata (Rifkin, 2002b).
La maggioranza degli individui che componevano questa società traeva il suo
sostentamento dallo sfruttamento della terra su cui viveva e da cui dipendeva. Questa
era una società in cui gli scambi commerciali dipendevano dalla quantità di surplus che
ogni singolo coltivatore poteva riuscire a ricavare con il suo lavoro dalla sua terra.
Spesso, questo surplus, non seguiva il normale processo di commercializzazione
che oggi conosciamo, ma veniva scambiato attraverso forme di baratto con altri prodotti
alimentari o con prodotti artigianali indispensabili. L’economia, in questo contesto, non
aveva il ruolo che riveste oggi e la moneta stessa rappresentava solo un mezzo per
raggiungere un fine, che era l’acquisizione dei beni indispensabili che mancavano a un
determinato nucleo familiare o sociale. Le uniche componenti imprescindibili per una
persona media in questo periodo erano quelle che permettevano a questo individuo di
lavorare, e per lavoro si intendeva naturalmente lavoro fisico, fosse quello agricolo, la
nascente industria mineraria o quello artigianale. Si pensi che intorno al 1810 il numero
di persone impiegate nell’industria negli Stati Uniti era di 75.000 lavoratori, cifra
destinata in soli cinquant’anni ad arrivare al milione e mezzo (Rifkin, 2002b).
Il settore dei servizi aveva ancora una forma embrionale e i pochi posti di lavoro
esistenti in questo ambito erano riservati a quelle persone che potevano permettersi
un'istruzione decente. Il dato sul numero degli occupati negli Stati Uniti intorno al 1870
nel settore dei servizi è comunque già ragguardevole, raggiungendo tre milioni di unità.
Cifra che appare quasi ridicola però, se paragonata ai 90 milioni di occupati, del 1994,
sempre negli Stati Uniti (Rifkin, 2002b).
Per quanto riguarda i mestieri artigianali, questi erano spesso tramandati per via
familiare e ciò rendeva molto difficile che una persona potesse uscire da quello che
appariva essere il suo inevitabile destino.
Questa società, così fissa e immutabile, si confaceva molto poco ai concetti attuali
di libertà. Era una società dove non esisteva il diritto all’istruzione, dove la
realizzazione personale poteva essere difficilmente perseguita e nella quale
praticamente nessuno la ricercava tanto era inimmaginabile. La mobilità stessa era
qualcosa di difficilmente realizzabile e se una persona riusciva, nell’arco della sua vita,
ad allontanarsi di un centinaio di chilometri dalla sua residenza poteva affermare di aver
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