5
comprensione” e nel teatro un mezzo di comunicazione col padre, un terreno
proficuo di scambio d’idee, un luogo di crescita ed è per questo che affida al figlio
quattordicenne le chiavi di casa affinché possa recarsi da solo al teatro.
Dimostrazione di fiducia ma gesto insolito a quel tempo, come attesta lo stesso
Palazzeschi, tanto da suscitare scandali nel chiuso ambiente famigliare e spingere la
madre a dover giustificare il figlio dinanzi alle amiche:
Mio marito è un appassionato del teatro fino da quando era giovinetto come lui, e sotto sotto
gli piace di vedere il figliolo che viene su con la medesima predilezione. Del resto il teatro
piace anche a me, una bell’opera o un bel dramma, un bravo attore, destano anche in me il
più vivo interesse.
1
Lo scrittore ricorda quanto il padre fosse entusiasta di vedere il figlio uscire
frettolosamente di casa per recarsi al teatro, seguendolo fino al botteghino finché non
trovava posto. La frequentazione notturna dei teatri, spazi antiborghesi attraenti ma
ambigui che dinanzi agli occhi del giovane avevano un duplice aspetto di elevazione
spirituale secondo la visione del padre e di immoralità secondo l’austera madre, in
realtà appariva come l’inizio di un’esistenza autonoma, libera da vincoli famigliari.
Fin da piccolo aveva mostrato grande interesse in modo particolare per i drammi e le
commedie che gli permettevano di fantasticare sulle vicende della vita, e di
conoscere segrete bellezze, insondate e insondabili profondità fino ad affermare che
il palcoscenico gli sembrava un luogo affascinante e misterioso, campo di tutte le
possibilità, di tutte le sorprese.
Nel frattempo però il giovane Giurlani, per compiacere il padre, si iscrive ad un
1
A. PALAZZESCHI, Il piacere della memoria, Milano, Mondatori 1968, p. 269.
6
Istituto Tecnico Commerciale con lo scopo di proseguire l’attività famigliare. In
realtà non fu mai attratto dagli studi commerciali che l’avrebbero confinato ad
un’esistenza borghese. Ancora una volta ci sembrano utili le considerazioni che si
ricavano dalla sua autobiografia:
Seguivo le lezioni pensando al travaglio della sera precedente e alle sorprese che mi
aspettavano la sera di quel giorno. La voce monotona del professore di diritto o di economia
politica cullava il mio pensiero in cui era l’eco di tante voci messaggere di sogni e di poesia.
E sovente, fingendo di prendere appunti scrivevo le scene di un dramma che mi venivano alla
memoria e di cui la mia mente era piena. Durante le lezioni di un pomeriggio scrissi una
commedia in cinque atti brevissimi, sintetici.
2
Da tali affermazioni si può comprendere quanto la frequentazione serale dei teatri,
lungi dall’aver costituito un semplice momento di svago, di evasione da quegli studi
che non lo attraevano, abbia avuto un peso determinante per le successive scelte
tanto che come dichiarò lo scrittore ormai maturo:
Reagivo a tutta la retorica di cui m’avevano imbottito. Avevo la testa piena di poesia lirica,
patriottica. “Il giuramento di Pontida”, la “Rapsodia garibaldina” di Marrani… Via, via
lontano da codeste cose! Io ero stato mandato alle scuole commerciali, perché essendo figlio
unico di un bravo uomo di commercio, avrei dovuto fare la stessa fine. Ma quegli studi non
mi piacevano per nulla e a un bel momento mi stufai. E siccome durante gli anni di scuola io
ero andato a teatro tutte le sere, e era lì che mi ero fatta una cultura, mi venne in mente di fare
l’attore.
3
2
Ivi, p. 280.
3
G. LIVI, Ribelle da sempre, in «Corriere della Sera», 28 marzo 1971.
7
All’alba del Novecento, con il suo diploma di ragioniere, va a vivere a Venezia dove
per breve tempo segue i corsi universitari. All’improvviso, però, torna a Firenze e si
iscrive alla Reale Scuola di Recitazione, accademia d’arte drammatica diretta da
Luigi Rasi.
“Io faccio l’attore, faccio l’attore: ho deciso”, comunica alla sua famiglia, generando
scompiglio e malumore soprattutto nel padre che si rendeva conto della difficoltà a
quel tempo di essere attori. L’attore, infatti, oltre ad una “vita zingaresca e disagiata”,
doveva anche affrontare l’atteggiamento ostile della “normale società borghese” per
la quale
[gli attori] erano i soli uomini, coi sacerdoti, che per le necessità della loro arte non
portassero i baffi, e allorquando si vedeva un borghese senza baffi era segnato a dito e subito
riconosciuto come attore, quasi ci fosse stata una forma di tonsura anche per essi; categoria
per la quale tutti avevano una particolare ammirazione ma alla quale nessuno desiderava
appartenere.
4
Di questo era cosciente il giovane aspirante attore e anche il padre che, pertanto, lo
ammoniva: “In quell’arte bisogna assurgere alle cime, la mediocrità è pietosa, non
tollerabile”. Il suo, però, non è un capriccio: infatti, frequenterà attivamente la scuola
per quattro anni. Qui conosce Marino Moretti e il giovane D’Annunzio, anche loro
aspiranti attori. Soprattutto l’amicizia con Moretti sarà duratura e proprio i due
compagni seguiranno lo stesso destino, che li condurrà verso la poesia. L’esperienza
teatrale segna profondamente i due giovani se proprio a Via Laura, sede della scuola,
Moretti dedica la prima raccolta di memorie. Parlando del compagno dirà:
4
A. PALAZZESCHI, op. cit., p. 283.
8
Alla scuola, seduto in platea o addossato a una quinta, il caro amico non diceva nulla di sé .
Era il “Baronetto” (così lo chiamavamo per la sua distinzione) e si capiva come un baronetto
inglese, stylé, non aprisse il suo cuore alla ragazzaglia declamante e gesticolante in via
Laura.
5
Qui Palazzeschi ha anche la possibilità di avere come insegnante Luigi Rasi, “il
signor Direttore”, com’era solita chiamarlo sua moglie Teresa, lei una volta autrice
drammatica poi insegnante di letteratura alla scuola di recitazione, lui prima attore
poi gran maestro e storico dell’arte drammatica. La scuola del Rasi era nota a quel
tempo per la capacità di “servirsi di teatro, invece che delle Belle Lettere, come
mezzo per introdurre i giovani alla Cultura con la ‘c’ maiuscola” muovendosi tra
“museo” e “galateo”.
6
Lo scrittore ricorda la meticolosità del suo insegnante, la sua
precisione nel correggere la pronunzia e la dizione dei suoi allievi, la sua cura nel
delineare i caratteri psicologici dei personaggi da interpretare e lo paragona ad un
direttore d’orchestra poiché “dal centro della sala alzava ed abbassava le braccia,
regolava i tempi, misurava le pause”.
Un’altra conoscenza è destinata a lasciare un ricordo indelebile nel giovane
Palazzeschi: quella della grande attrice Eleonora Duse giunta inaspettatamente
durante una lezione per sentir recitare gli attori del Rasi. Tra questi proprio il nostro
scrittore è scelto per rappresentare un atto unico “Il peggio passo è quello
dell’uscio”, insieme con una signorina rumena. “Recitavamo col cuore in gola,
dando ogni tanto un’occhiata rapida a quella straordinaria spettatrice…”, spettatrice
5
M. MORETTI, Via Laura, il libro dei sorprendenti vent’anni, Mondadori, Milano 1955, p. 176.
6
Si veda il saggio dedicato da Ferdinando Taviani alla scuola di recitazione del Rasi, nel numero
monografico della rivista «Ariel», VI, 1, 16, gennaio-aprile 1991.
9
delineata come “allegra e loquace, una Duse giovanile e di buonumore”, la quale
“aveva tutta l’aria di guardare più che ascoltare”. Intanto ai ragazzi del Rasi viene
data la possibilità di partecipare come comparse ai due spettacoli che la Duse stava
preparando al teatro della Pergola di Firenze: Monna Vanna di Maeterlinck e
Badessa di Jouarre di Renan. Così, il giovane Palazzeschi può finalmente
sorprendere al lavoro la Duse e ammirarne la forza scenica, capace di trascinare
chiunque a vivere sulla scena ciò che lei stessa viveva. Poi, però, giunti alla prova
generale, la Duse preferì riproporre Moglie di Claudio concedendo ai ragazzi, per le
due ultime recite, alcuni palchetti per poter vedere e udire meglio la straordinaria
attrice.
Dopo quattro anni di scuola d’arte drammatica, Palazzeschi ormai ventenne, sente
maturare dentro di sé una crisi profonda che si accompagna a momenti di riflessione
e lascia affiorare dei dubbi sulla sua reale vocazione artistica. Come già Moretti,
anche lui è ben consapevole che “nascere attori è qualcosa di più del nascere poeti”
per cui “a recitare non s’impara e attori non si diventa”.
7
Ricordando questi giorni dirà l’uomo ormai maturo:
Verso i vent’anni, però, questa cocente passione per il teatro si affievolì, si raffreddò a un
tratto; la grande baracca teatrale che senza tregua aveva fornito cibo alla mia voracità di
adolescente perdé di fascino, di attrazione. Si fece sentire il bisogno di una sosta, di una
tregua dopo un tumulto disordinato e febbrile.
8
I dubbi si dileguano dinanzi ad un evento tanto inatteso quanto eccezionale:
7
Le due citazioni sono di M. MORETTI, op. cit., p. 22.
8
Palazzeschi allo specchio, in «Omnibus», I, 9, 29 maggio 1937, p. 6.
10
Palazzeschi, chiamato dal Rasi per rappresentare dinanzi ad Adolfo Re Riccardi
nuovamente lo spettacolo con la signorina rumena, viene scritturato. Adolfo Re
Riccardi era un grande impresario, “l’arbitro del teatro italiano”, e s’interessava sia al
repertorio straniero che a quello nazionale. Intendeva affidare un gruppo d’attori a
Virgilio Talli per creare una nuova compagnia tutta di giovani, tra i quali emergerà
Lida Borelli, prima donna appena ventenne. Palazzeschi non poté certo rifiutare,
generando ancora una volta malumori nei suoi famigliari che si erano abituati al
piccolo teatro di via Laura.
La stagione 1906-1907 si rivela proficua: la compagnia Talli esordisce al Duse di
Bologna col dramma Dora o le spie di Sardou anche se ciò non basta a fugare i dubbi
e le incertezze del giovane Giurlani che, ancor più messo in difficoltà dai disagi che
una vita girovaga comporta, frustrato da parti di nessun rilievo
9
e da continui
contrasti col capocomico, quando la compagnia si trasferisce a Ferrara decide di
tornare a Firenze.
Come il suo compagno Moretti, aveva alternato la recitazione ai versi pubblicando
nel 1905, a sue spese, la prima raccolta di poesie, I cavalli bianchi. Intanto aveva
cominciato a frequentare il circolo Vieusseux e, nonostante le dichiarazioni
successive, egli si dedicò alla lettura, soprattutto di Pascoli, Verlaine, Carducci, Graf
e dei simbolisti francesi dapprima finalizzata all’attività teatrale per poi rivolgersi
esclusivamente alla poesia. Contemporaneamente rinuncerà al teatro e al cognome
9
“Dopo le tre parti che il Talli mi mandò le altre, almeno sembra per ora, non sono che dei domestici
e certo degli ultimi. In tre giorni me ne ànno affidati tre. Io che al primo sono stato zitto e che al
secondo pure al terzo, […] sono venuto a casa e gli ò indirizzato un bigliettino nel quale dicevo che se
non aveva di meglio da farmi fare io lo salutavo e che ero troppo signore per fare il domestico alla sua
gente”. Così si esprime in una lettera al Rasi del 7 marzo 1906 in Scherzi di gioventù e d’altre età.
Album Palazzeschi (1885-1974), a cura di S. Magherini e G. Vanghetti, prefazione di G. Tellini,
Pagliai Polistampa, Firenze 2001, p. 26, cit. in A. TINTERRI, L’incendiario a teatro in L’opera di
Aldo Palazzeschi, Atti del Convegno Internazionale, Firenze, 22-24 febbraio 2001, a cura di G.
Tellini, Leo S. Olschki, Firenze 2002, p. 445.
11
paterno giustificando così la sua scelta:
Tra i molti dispiaceri che ho dato a mio padre, facoltoso commerciante fiorentino che
sognava per me una carriera seria nel mondo degli affari, uno almeno gliel’ho risparmiato:
quello di vedere il suo onorato cognome finire sui giornali. Quando decisi che non avrei
saputo far altro che scrivere, adottai il cognome della nonna materna che si chiamava Anna
Palazzeschi ed era una donna straordinaria.
10
Per questo esitò a comunicare ai genitori la sua decisione:
Ero stanco di provocare scandali nel chiuso cerchio della famiglia e, soprattutto, di dovermi
vergognare della parte migliore di me. Riscattandomi dalle scienze commerciali, dalla
ragioneria e dall’economia politica, il teatro mi aveva messo sulla buona strada, quella della
poesia, e buona due volte perché di mia esclusiva proprietà.
11
Pertanto, dopo gli anni di intensa frequentazione teatrale e poi di partecipazione
attiva, scatta definitivamente in lui l’esigenza di cimentarsi in un genere nuovo. Da
questo punto di vista si può delineare l’importanza dell’esperienza teatrale: il teatro,
infatti, funge da tramite per approdare alla poesia. La vena teatrale però non
abbandonerà mai lo scrittore e si ritroverà in tutta la sua opera in versi e prosa fino al
romanzo teatralizzato, il Codice di Perelà.
In un’intervista del 1955
12
Palazzeschi dichiarerà: “Il teatro fu la mia scuola e tutto
quello che ho imparato è dal teatro che l’ho imparato”.
10
G. GRIECO, La mia vita, i miei amici, in «Gente», XIII, 19, 7 maggio 1969, p. 68.
11
A. PALAZZESCHI, op. cit., p. 295.
12
Da un’intervista di Mario Picchi a Palazzeschi rilasciata in occasione della riduzione teatrale di
Roma col titolo Il mio giovanissimo esperimento in «Sipario» , 1955, 108, cit. in F. P. MEMMO,
Invito alla lettura di Palazzeschi, Mursia, Milano 1976, p. 21.
12
Date queste premesse e accogliendo la domanda posta da Solmi nel suo articolo del
1937
13
e riproposta da Barenghi,
14
mi chiedo perché Palazzeschi, pur avendo mosso i
primi passi nel teatro, in seguito abbia scritto di tutto: poesie, romanzi, novelle,
manifesti, versi in francese ma non testi teatrali. La risposta potrebbe ricavarsi dalle
stesse parole dell’autore:
Io sono un intuitivo, non un letterato, un teorico. […] Dal palcoscenico mi sono quindi reso
conto che il teatro vero si svolgeva in platea: il teatro della vita in cui ognuno è attore. Così
son divenuto spettatore e ho cominciato a scrivere. Avevo un modesto bagaglio culturale, e
forse debbo l’essere quel che sono, “un caso particolare”, proprio a questo. Sono più debitore
a quel che non ho letto, che a quel che ho letto.
15
(corsivo mio)
Palazzeschi, pertanto, sente che il teatro, pur avendo costituito una parentesi
importante nella sua vita, gli preclude la possibilità di conoscere se stesso, di
rappresentarsi e definirsi, di far emergere dall’inconscio il proprio io, di rispondere
alla domanda Chi sono? e di raffigurarsi “saltimbanco dell’anima” a vantaggio di
una maschera impersonale estranea ai suoi bisogni autoidentificativi. Ancora ne Il
piacere della memoria leggiamo:
(…) non era la mia persona che volevo prestare in tutta la sua integrità ai più svariati
personaggi, dunque, era un unico personaggio che volevo rivelare in tutta la sua integrità e
con parole mie, col gesto che mi è naturale, la personalità che mi apparteneva e non quella di
cento creature della fantasia che nulla avevano a che fare con me non solo, ma quel dovere a
13
Cfr. S. SOLMI, Palazzeschi poeta e romanziere, in Scrittori negli anni. Saggi e note sulla
letteratura italiana del ‘900, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 156.
14
Cfr. M. BARENGHI, Palazzeschi «umorista» sulle soglie del palcoscenico, in «Otto/Novecento»,
VI, 1, 1982, p. 137.
15
Incontro con Aldo Palazzeschi, a cura di P. Petroni in «Ecos», II, 11-12, dicembre 1973-gennaio
1974, p. 98.
13
tale intento speculare sulla mia faccia per la intera vita, esibirla spietatamente per esibirla al
tempo stesso dentro di me, oltre che momenti di riflessione mi davano veri e propri momenti
di dubbio. (p. 292)
A lungo andare il teatro non avrebbe soddisfatto le sue pretese di conoscenza di sé e
degli altri, che solo il “teatro della vita” e il “teatro della strada” avrebbero reso
possibile. “La gente è il mio teatro”, dirà nel 1972.
16
E ancora in una testimonianza postuma:
Non ho mai letto molto né con metodo, e la mia ispirazione letteraria venne suscitata sempre
dall’osservazione diretta della vita e dalla mia naturale fantasia. La mia vera maestra fu la
strada. Rare volte sono andato in biblioteca riportandone sempre un senso di oppressione e di
malinconia.
17
(corsivo mio)
16
F. STORELLI, Il mio Palazzeschi, in L’opera di Aldo Palazzeschi, cit., p. 437.
17
E. F. ACCROCCA, Ritratti su misura di scrittori italiani, Sodalizio del Libro, Venezia 1960, p.
314.
14
1.2 PALAZZESCHI E LE AVANGUARDIE
I primi quindici anni del Novecento, durante i quali Palazzeschi si lasciò
definitivamente irretire dalla nuova sirena artistica, la poesia, sono, senza ombra di
dubbio, i più fervidi dal punto di vista della diffusione di correnti letterarie e
movimenti: dalla Belle Epoque all’art nouveau, dal crepuscolarismo al futurismo, dai
primordi del dadaismo e del surrealismo. I critici, pertanto, si sono interrogati
sull’influenza latente o manifesta di talune correnti, sulle varie parentele letterarie,
sui rapporti di Palazzeschi con gli artisti del tempo, da quelli più immediati come
Corazzini, Govoni, Marinetti e i lacerbiani fino ad allargarsi ad una dimensione
europea, cercandovi dei richiami ad Apollinaire, individuando un Palazzeschi
presago dell’opera di Tzara e Breton, anticipatore della “letteratura dell’assurdo” di
Beckett e dell’èlan vital di Bergson, con influssi di Pirandello e Svevo e rimandi alla
psicopatologia di Freud, alla letteratura carnevalesca di Bachtin, alla psicanalisi del
fuoco di Bachelard e all’ideale del “saltimbanco”di Starobinski.
È certo, però, che “Palazzeschi poeta comincia crepuscolare, e non poteva essere
altrimenti agli inizi del nuovo secolo”.
18
Pullini, al quale si deve un’acuta e attenta
analisi della prima produzione palazzeschiana, vede una parziale influenza degli
autori crepuscolari del tempo quali Govoni, Gozzano, Corazzini e Moretti che,
all’inizio del Novecento, ognuno in maniera del tutto personale, aveva interpretato la
crisi decadentistica orientandosi verso temi dimessi in contrasto con i contenuti aulici
degli autori che li avevano preceduti e l’amore per le piccole cose oltre ai richiami
della memoria. Palazzeschi accoglie questi temi ma se ne appropria in maniera del
18
G. PULLINI, Aldo Palazzeschi, Mursia, Milano 1965, p. 8.
15
tutto personale per cui lo stesso Pullini riconosce in lui la presenza di stili svariati,
non definiti e difficilmente riconoscibili. Il concetto di “stile” viene ripreso, ampliato
e portato a soluzioni che esulano dalla semplice contrapposizione tra due Palazzeschi
distinti, il primo crepuscolare-patetico, il secondo futurista-grottesco da Sanguineti, il
quale riconosce la presenza di un unico “tono” per cui
Palazzeschi, in effetti, non patisce questa opposizione tra patetico e grottesco come
opposizione tra due direzioni di cultura reciprocamente irrelate, ma nell’ambito di una
singola disposizione spirituale, nell’ambito del crepuscolarismo stesso.
19
Sanguineti riconosce come parabola costitutiva di tutta la cultura crepuscolare il
“rovesciamento” non l’opposizione in una dialettica che vede il liberty accettabile
solo nella sua “dimensione rovesciata” al pari dei quadri del pittore Kandinskij, il
quale aveva scorto in un quadro rovesciato una nuova realtà, una nuova normalità
scoprendo “l’inaudito principio della nuova pittura”. Sanguineti aggiunge che non si
può parlare di un Palazzeschi “futurista” poiché se lo scopo perseguito era comunque
la distruzione del sublime, i futuristi intendevano far tabula rasa ma a vantaggio di
un nuovo sublime, “il neo-sublime capitalista”, Palazzeschi, invece, optava per la
scomparsa del sublime tout court. Così “Palazzeschi finiva per essere, se non la sola,
certo la più importante quinta colonna, diciamo così, del crepuscolarismo entro l’area
del futurismo stesso”.
20
Questa attenta e audace osservazione di Sanguineti tendeva, però, a valutare
esclusivamente l’elemento distruttore e corrosivo ma aveva il merito di sanare quella
19
E. SANGUINETI, Palazzeschi tra liberty e crepuscolarismo (1961) in Tra liberty e
crepuscolarismo, Mursia, Milano 1977
2
, p. 82.
20
Ivi, p. 99.
16
frattura tra crepuscolarismo e futurismo che da sempre era stata messa in evidenza
dai critici.
Non è dello stesso parere Curi,
21
il quale, già all’interno della lirica posta all’inizio di
Poemi, Chi sono, individua una duplice prospettiva di lettura che vede la triade
“malinconia, nostalgia, follia” prefigurare due direzioni differenti giacché se la
“malinconia” e la “nostalgia” rimandano ad una realtà crepuscolare, la “follia” e
l’immagine del “saltimbanco” rinviano ad una realtà autre.
Da questo punto di vista, non è possibile considerare in maniera unitaria l’opera
palazzeschiana, che pur valutata nella sua globalità, presuppone un itinerario plurimo
poiché se da una parte si può collocare in una prospettiva liberty-simbolista dall’altra
si pone dialetticamente in rapporto con l’antisublime futurista ravvisabile soprattutto
nell’Incendiario.
Tale rapporto dialettico viene analizzato anche da De Maria, il quale nel suo saggio
22
sul futurismo, analizza anche la poesia di Palazzeschi da lui vista non tanto in
rapporto con il crepuscolarismo quanto con il liberty e il simbolismo: “un
simbolismo nostrano, barbarico, un po’ primitivo e infantilistico, personalissimo
nella tematica e negli esiti formali”.
23
Già in Lanterna e in Poemi, però, si insinua il
nonsense, lo scherzo fino all’Incendiario dove Palazzeschi tende al futurismo, “al
suo particolare futurismo”
24
con accenni di predadaismo e protosurrelismo.
Se tali giudizi critici presuppongono una lettura diacronica dell’avventura poetica
palazzeschiana per cui da un’opera all’altra vi è lo sviluppo di determinati temi, Livi,
21
Cfr. F. CURI, Edipo, Empedocle e il saltimbanco (1974), in «Il Verri», n. 6, marzo-giugno 1974,
ora in Perdita d’aureola, Einaudi, Torino 1977.
22
Cfr. L. DE MARIA, La nascita dell’avanguardia, Marsilio Editori, Venezia 1986.
23
Ivi, pag. 106.
24
Ivi, pag. 127.
17
nella sua analisi sul passaggio dal crepuscolarismo al futurismo,
25
individua tre fasi:
“favola”, “gioco”, “distruzione” che, pur caratterizzando tre momenti distinti, non si
cristallizzano in determinate opere ma, dinamicamente si anticipano e si mescolano a
vicenda. E, in contrasto con l’idea di Sanguineti, si afferma che la poesia
palazzeschiana non si presenta esclusivamente come distruzione pura.
Con Pieri
26
abbiamo una posizione netta di rifiuto di qualsiasi tentativo di annessione
entro l’area crepuscolare di tutta la poesia palazzeschiana e ciò a partire da una
valutazione simile fatta dagli stessi compagni di strada di Palazzeschi da Corazzini a
Govoni. Pieri tutt’al più riconosce un accenno di crepuscolarismo nella negazione
della funzione poetica ravvisabile nella lirica Chi sono.
Tutte queste valutazioni non esauriscono la complessa vicenda letteraria che continua
ad impegnare la critica in nuove e varie interpretazioni.
L’impressione che si ricava è che Palazzeschi abbia attraversato tutta l’avventura
letteraria del Novecento, dal crepuscolarismo al futurismo fino alla neo-avanguardia,
cercando di attingere il meglio, senza mai farsi sopraffare da mode o correnti e
rielaborando le esperienze acquisite in maniera del tutto personale. Col suo carattere
schivo, col suo essere sempre “altrove” ha saputo però auscultare le voci del suo
tempo, offrendoci un’opera di “sconcertante verginità”
27
al pari di un “frammento di
meteora caduto dalla luna”,
28
originalissima e autonoma. Così ha dovuto proteggere
la sua irreprensibilità da critici e amici che volevano etichettarlo e attribuirgli un
gruppo o una corrente. A questo proposito scrisse:
25
Cfr. F. LIVI, Avanguardia e tradizione in Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi,
Istituto Propaganda Libraria, Milano 1980.
26
Cfr. P. PIERI, Ritratto del saltimbanco da giovane: Palazzeschi 1905-1914, Patron Editore,
Bologna 1980.
27
S. SOLMI, op. cit., p. 153.
28
Ibidem.
18
Io mi trovo sovente a figurare in due posti, come Sant’Antonio, coi futuristi e coi
crepuscolari […] e mi trovo benissimo in tutte e due le parti, quando mi mettono coi futuristi
e quando mi mettono coi crepuscolari, dispiacendomi di non potere essere in tre. E ad onore
della giustizia debbo aggiungere che v’è taluno anche che mi mette solo […] anche solo mi
trovo benissimo lo stesso.
29
Potremmo concludere con una definizione di Debenedetti: Palazzeschi riesce a “fare
centro fuori dal centro”.
30
Nel tentativo fatto dalla critica di “inglobare” la sua
multiforme e varia esperienza artistica, Palazzeschi è riuscito a fuggire seguendo
traiettorie che lo hanno condotto lontano da un sistema prestabilito e definito. Sia dal
crepuscolarismo che dal futurismo e dai movimenti d’avanguardia ha colto quel
duplice movimento di “distruzione” e “riprogettazione” che ha dato avvio allo
sperimentalismo, all’inedito, alla “tradizione del nuovo”.
31
29
Vent’anni, in «Pègaso», 6 giugno 1931, p. 730, cit. in G. SAVOCA, Eco e Narciso. La ripetizione
nel primo Palazzeschi, Flaccovio, Palermo 1979.
30
G. DEBENEDETTI, Il “Palio” di Palazzeschi (1938), in Saggi critici. Seconda serie (1945), a cura
di W. Pedullà, Venezia 1999, p. 111.
31
Cfr. L. ANCESCHI, Intervento nel numero doppio de «Il Verri», nn. 5-6, marzo-giugno 1974.