2
Cassazione. Ma ancora più emblematica è il “proclama” fatto da Totò Riina il 25
maggio 1994, nell’aula della Corte d’assise di Reggio Calabria, nel quale si
scagliava contro i pentiti “manovrati”, chiedendo l’abolizione della legge sui
collaboratori di giustizia. Ancora, sintomatico della portata dirompente del
fenomeno, sono i tentativi fatti da mafiosi, inizialmente non pentiti, nell’assenza
di risultati per loro utili in conseguenza delle stragi del 1992, di screditare con
false dichiarazioni l’intera categoria dei collaboratori
2
e di destabilizzare così
alcuni processi e le istituzioni nel loro complesso.
Senza dimenticare che i processi sulle stragi, sono stati resi possibili dal
numero sempre più crescente di collaborazioni in virtù degli interventi normativi
emergenziali che li hanno incentivate.
La rottura della compattezza interna della mafia determinata dal pentitismo
rappresenta dunque la condizione oltre che per combattere anche per conoscere il
fenomeno mafioso
3
.
Dicevamo delle diverse critiche che hanno investito la gestione del
fenomeno del pentitismo, in modo particolare per quanto riguarda la risposta
punitiva dello Stato, ritenuta inadeguata, nei confronti di questi soggetti che
rimangono pur sempre dei criminali della peggiore specie. Innanzitutto il
fenomeno in parola deve essere affrontato con rigore scientifico e approccio laico,
lasciando sentimentalisti ed eticità ad un campo diverso da quello giuridico
4
.
Infatti, sarebbe davvero impensabile una spontanea collaborazione da parte di
questi criminali in assenza di una “ricompensa” adeguata da parte dello stato. Non
bisogna dimenticare che parlare contro la mafia vuol dire spesso mettere in
pericolo la propria vita, quella dei propri familiari e a volte quella dei semplici
conoscenti. E’ quindi indubbio che la scelta di collaborare, in un rapporto costi
benefici, deve essere di gran lunga favorevole al collaboratore, dietro
naturalmente delle rigide garanzie per lo Stato in termini di veridicità e utilità
delle dichiarazioni. Il collaboratore di giustizia deve potersi fidare delle
2
Il caso forse più eclatante è quello di Giovanni Brusca: ammesso allo speciale programma di
protezione con conseguente status di collaboratore di giustizia, dopo aver egli stesso confermato il
suo piano destabilizzante e dopo circa quattro anni dalla sua prima dichiarazione.
3
E’ questo il punto di vista dello storico: LUPO S., Storia della mafia dalle origini ai giorni
nostri, Donzelli, Roma 1996.
4
Sono diversi gli autori che sottolineano l’importanza di questo approccio alla risoluzione dei
problemi inerenti la collaborazione con la giustizia. Tra gli altri: SASSANO F., La nuova
disciplina sulla collaborazione di giustizia. Alla luce della legge 13 febbraio 2001, n. 45, Torino,
Giappichelli, 2002, 3; LAUDI M., I casi di non punibilità dei terroristi pentiti, Milano, Giuffrè,
1983.
3
istituzioni: fiducia che sarà maggiore qualora l’intervento statale si caratterizzi per
determinazione, fermezza e costanza. Solo così il fenomeno del pentitismo potrà
incrementarsi, solo cioè se diventerà la strada più conveniente rispetto alle altre.
Bisogna ricordare che, negli ultimi anni, la strategia di Cosa Nostra per tamponare
l’emorragia dei pentimenti è mutata in maniera radicale: dalle iniziali rappresaglie
contro i collaboratori, a un atteggiamento di comprensione e di sostegno nei
confronti dei familiari rimasti fuori dal carcere.
Quindi, se si vuole effettivamente contrastare il potere criminale della
societas sceleris, anziché accontentarsi della semplice condanna di alcuni
esponenti mafiosi, lo Stato deve quasi per necessità “scendere a patti” con gli
adepti catturati.
L’oggetto del nostro studio è appunto quel rapporto contrattuale, sotto le
sue diverse sfaccettature, che si viene a creare dopo che il pentito decide di
collaborare con la giustizia. Si partirà da un analisi storica del fenomeno del
pentitismo, cercando di comprendere le ragioni della sua origine e del suo
sviluppo fino alle vicende più recenti, per poi passare ad analizzare i contenuti
giuridici della normativa concernente la collaborazione con la giustizia e il peso
che il diritto premiale ha ai fini dell’incentivazione del fenomeno. Si vedrà come
la risposta dello Stato nelle varie legge emanate in periodi emergenziali dal punto
di vista dell’esecuzione penitenziaria, si sia ispirata al principio della
differenziazione trattamentale dei detenuti - principio che oramai permea l’intero
ordinamento penitenziario, al fine di permettere che la pena sia più aderente alla
situazione personale di ogni condannato e semplificare così il percorso verso la
sua rieducazione – e che vale a maggior ragione per i detenuti collaboratori di
giustizia.
Dopo aver analizzato le norme chiave dell’ordinamento penitenziario che
si riferiscono ai condannati per taluni delitti
5
, si vedrà altresì come il nostro
ordinamento offre assistenza e tutela ai “pentiti a rischio”, con la predisposizione
di uno speciale sistema di protezione. Tutto ciò naturalmente alla luce delle
modifiche apportate dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45 alla precedente
legislazione in materia, che oltre a tentare di razionalizzare il sistema frutto di
interventi legislativi frammentati nel tempo, ha avuto il merito di differenziare la
disciplina dei collaboratori da quella dei testimoni di giustizia, vale a dire di quei
5
Artt. 4bis e 58ter della legge 26 luglio 1975, n. 354.
4
soggetti che hanno assistito ad un reato o sono le vittime dello stesso e che hanno
deciso di riferire le loro conoscenze all’autorità giudiziaria. Non bisogna, però,
dimenticare che nonostante quest’ultimo intervento legislativo, manca ancora oggi
una regolamentazione complessiva della collaborazione con la giustizia, il che
giustifica le richieste fatte in tal senso, per lo più da parte di quei magistrati
impegnati attivamente nella lotta alla criminalità organizzata.
Prima di iniziare però, una precisazione sotto il profilo strettamente
terminologico. Nel tempo si è assistito a una proliferazione di espressioni tra loro
diverse, quali delatori, confidente, pentiti, dissociati, collaboratori e testimoni,
utilizzate spesso in modo interscambiabile, contribuendo a creare ulteriore
confusione in una materia alquanto delicata qual è quella in esame. Ebbene, il
termine più appropriato per definire il fenomeno in esame è quello di
collaboratore, che a differenza ad esempio del confidente coperto dall’anonimato,
assume precise vesti pubbliche nel procedimento penale, lo affronta e si espone
direttamente in prima persona, denunciando nelle aule dei tribunali e deponendo
nel corso dei processi.
Il termine pentito, coniato giornalisticamente negli anni ’70, è invece il
meno calzante dal punto di vista giuridico: il pentimento, infatti, è considerato
essenzialmente un concetto che appartiene al mondo religioso e morale. La
collaborazione con la giustizia non esige che vi sia un pentimento sul piano
interiore, in quanto il pentito potrà essere animato anche da una logica
utilitaristica, tuttavia non lo esclude. Sta di fatto che la legge considera l’aspetto
esteriore, il comportamento, e quindi equivale a pentimento ogni condotta
riparatrice del delitto commesso
6
. Nonostante ciò il temine pentito è entrato nel
linguaggio comune, e quindi proprio per questo, sarà utilizzato anche in questo
lavoro. E’ anche vero, però, che più la motivazione del pentimento è vera e
profonda, più saranno le possibilità che le dichiarazioni siano attendibili e reggano
il vaglio processuale.
6
In questi termini NUVOLONE P., Politica criminale e pentimento del reo, in L’indice penale,
Cedam, Padova 1982, 144.
5
Capitolo I
Profili storici del pentitismo
Sommario: 1. Premessa: origini e contesto sociale. – 2. Il fenomeno del
“pentitismo” e della dissociazione nel terrorismo a cavallo degli anni 1970-
1980. – 3. Il “pentitismo” nell’esperienza della mafia siciliana. – 4. Il diritto
premiale come incentivo alla collaborazione. – 4.1 La premialità nel diritto
penale sostanziale. – 4.2 La premialità nel diritto penale processuale. – 4.2.1 Il
giudizio abbreviato. – 4.2.2 Il patteggiamento. – 4.2.3 Il procedimento per
decreto. – 4.3 La premialità nel diritto penitenziario.
1. Premessa: origini e contesto sociale
Il fenomeno del pentitismo può dirsi molto risalente nel tempo e si
intreccia nel corso della storia con quello del pentimento
7
. Nonostante sia
ravvisabile tra i due termini una sostanziale differenza, è possibile individuare un
elemento in comune: l’etimologia della parole sta ad indicare l’intenzione del
soggetto agente al miglioramento, alla crescita, al raggiungimento di una
situazione migliore
8
.
Nella storia della mafia, la figura del pentito è come se fosse sempre
esistita
9
, anche se ha assunto nel tempo caratteristiche e ruoli diversi:
informatore, confidente, testimone e pentito vero e proprio. Tuttavia l’esperienza
che a noi interessa, quella cioè più recente e che costituisce il fondamento della
collaborazione con la giustizia come oggi la intendiamo, prende piede alla fine
7
Le origini storiche del pentimento possono farsi risalire ad Adamo, in quanto esso è sicuramente
una prerogativa umana.
8
SASSANO F., op. cit., 3. L’autore mette in evidenza come ogni tipo di pentimento porta ad una
rinascita e ad una legittimazione agli occhi degli uomini o di un’entità superiore divina.
9
E’ questa la prospettiva dello storico, LUPO S., op. cit., 152 ss.. Le fonti storiche, portano
l’autore ad affermare che, fin dall’ottocento, i più grossi processi di mafia si sono basati su
testimonianze e denunce di mafiosi. L’autorità spesso sa chi sono gli autori dei reati “perché i
mafiosi parlano senza alcun pregiudizio ideologico, anche se non si espongono testimoniando in
tribunale: è da qui che proviene la supercitata voce pubblica”. Senza dimenticare il caso del
mafioso perdente che chiede alla polizia aiuto o protezione , ottenendo magari un passaporto per
l’America in cambio di informazioni che di fatto lo inserivano nell’azione antimafia dello Stato.
6
degli anni settanta del secolo scorso con la dissociazione dalle diverse
organizzazioni terroristiche di matrice extra-parlamentare, sia di destra che di
sinistra.
Le ragioni, anche di ordine morale, che inducono l’imputato a collaborare sono
molteplici e varie e si differenziano da soggetto a soggetto. Tuttavia è opportuno
distinguere tra pentiti della criminalità organizzata e pentiti del terrorismo: mentre
per i primi le ragioni del pentimento sono spesso frutto di fattori interni alla stessa
organizzazione criminale
10
, per i terroristi non può dubitarsi che il fattore
scatenante sia da individuare in una revisione ideologica del proprio operato, vale
a dire in un’analisi critica e nel superamento di una precedente convinzione
politica. Tutto ciò consegue al fatto che, mentre il vincolo associativo dei
terroristi si fondava su un ideologia politica ben precisa e aveva come fine ultimo
il cambiamento della società, quello dei mafiosi, invece, mira esclusivamente al
controllo e alla gestione del potere, in quanto tale e come fonte di accumulo di
ricchezza
11
. Naturalmente non mancano dei punti di contatto tra i due fenomeni.
Basti pensare che lo scopo del pentito è solo da un punto di vista marginale il
ritorno alla legalità, quanto per lo più l’acquisizione di un utilità prefissata con lo
Stato
12
. Inoltre, ciò che caratterizza i due fenomeni è uno stretto legame tra la
decisione di collaborare e il verificarsi di eventi più o meno dirompenti dal punto
di vista sociale. In altri termini, a parte il pentimento di singoli soggetti per motivi
strettamente personali
13
, il numero di collaborazioni è aumentato in maniera
esponenziale, per far un solo esempio riferito all’esperienza di Cosa Nostra, dopo
le stragi del 1992. Certo, a questo risultato ha contribuito la dura risposta dello
Stato, mettendo peraltro in evidenza l’esistenza di un “rapporto particolarmente
intenso tra norme e realtà”
14
. Non è un caso che le disposizioni sul pentimento
10
Si pensi al mancato rispetto di alcune regole interne o alla sconfitta in un guerra tra fazioni
nell’ambito della stessa organizzazione per il controllo delle attività illecite. Ancora, non mancano
motivazioni abiette mosse dal solo proposito di vendetta o dalla prospettiva di vantaggi, sia in
termini di riduzione di pena che di trattamento carcerario.
11
Queste differenze sono state spesso avvertite e sottolineate dall’opinione pubblica, che
nell’ambito di un giudizio di valore, accetta con maggior favore il pentimento dei terroristi che non
quello dei mafiosi, in quanto considerati come persone riprovevoli mossi esclusivamente dall’idea
di un profitto personale.
12
E’ questo il pensiero di SASSANO F., op. cit., 5. Proprio questo aspetto accomunerebbe i
pentiti di mafia e quelli del terrorismo.
13
Si pensi a L. Vitale, primo pentito moderno di mafia non riconosciuto come tale e anzi giudicato
infermo di mente, la cui vicenda è quella che più ricorda un pentimento anche di carattere etico e
religioso.
14
Mette in evidenza questo legame D’AMBROSIO L. – Testimoni e collaboratori di giustizia,
Padova, Cedam, 2002, 3. Per l’autore è necessaria la conoscenza di questo rapporto per poter
7
degli autori di fatti di eversione furono introdotte dopo la scoperta dei primi covi
dei terroristi, responsabili fra l’altro del sequestro e dell’omicidio dell’on. Aldo
Moro.
Le dichiarazioni dei pentiti possono dare vita a tre diverse forme di
collaborazione con la giustizia: la confessione, la testimonianza, la chiamata di
correo. Mentre la prima si ha quando il collaboratore riferisce su fatti per i quali
ammette esclusivamente la propria responsabilità, la testimonianza si caratterizza
per l’indicazione di responsabilità di altri soggetti. Infine, la chiamata di correo
prevede, in ordine ad alcuni fatti costituenti reato, la responsabilità propria in
concorso con altri.
2. Il fenomeno del “pentitismo” e della dissociazione nel
terrorismo a cavallo degli anni 1970- 1980.
La stagione della violenza politica in Italia comincia nel 1969,
proseguendo in maniera sostanzialmente crescente fino al 1980. Sono gli “anni di
piombo”, un periodo della storia italiana ancora oggi di difficile decifrazione
15
,
caratterizzato dal ricorso alla lotta armata per il raggiungimento di fini politici. Al
terrorismo organizzato per lo più secondo modelli cospirativi e clandestini, si
intrecciano le azioni terroristiche spontanee, frutto della situazione destabilizzante
e conflittuale dell’epoca
16
. A questo si aggiunge, alternandosi ad esso, lo
stragismo e il moltiplicarsi di sigle e di organizzazioni che rivendicano questi atti
di cospirazione ed eversione. Una situazione di forte allarme sociale, che ha
sottolineato l’insufficienza e l’inadeguatezza degli strumenti repressivi a
disposizione delle autorità per combattere e debellare il fenomeno terroristico
17
.
Per far fronte a questa situazione, il legislatore ha fatto ricorso al meccanismo
comprendere le effettive ragioni, sia emergenziali che emozionali, che, di volta in volta, hanno
ispirato il legislatore nell’emanazione, integrazione e modifica delle norme in tema di collaboratori
di giustizia.
15
La maggior parte di giornalisti e scrittori che hanno affrontato la questione, concorda nel
ritenere che in quegli anni l’Italia fu interessata da una vera guerra civile.
16
E’ CASELLI G., Considerazioni introduttive su dissociazione ed emergenza, in La
dissociazione dal terrorismo, AA. VV., Milano, Giuffrè, 1989, 7, che distingue tra terrorismo
“maggiore”, e terrorismo “diffuso”.
17
“Qui bisogna agire, non sull’eterno terreno delle misure repressive. Si era detto che bisognava
prosciugare l’acqua intorno ai pesci: a giudicare dai fatti si è prosciugata solo la
legalità…..Dobbiamo cambiare strada e cultura, anche per capire i motivi degli insuccessi
dell’azione di polizia. Così S. Rodotà, Le armi del brigatista, in La Repubblica del 7 agosto 1981.
8
dell’incentivazione, ma in termini del tutto nuovi. Infatti, visto che l’obiettivo
dichiarato era lo smantellamento dall’interno di queste organizzazioni
terroristiche, colpendo il fenomeno alla radice e non solo nelle sue manifestazioni,
non si poteva utilizzare, in quanto inadeguata, la tecnica premiale secondo lo
schema classico mirante all’incoraggiamento di condotte contrarie a quelle
criminose
18
. Lo strumento che venne ritenuto più opportuno fu quello della
collaborazione con le autorità, permettendo a quest’ultime di venire a conoscenza
dei, fin ad allora, inaccessibili segreti inerenti la struttura, l’organizzazione, i
componenti e l’attività delle organizzazioni terroristiche
19
. Ma non solo.
Strumento importantissimo fu la dissociazione dal terrorismo che con il suo
incrementarsi, creò una fuoriuscita esponenziale di terroristi dalle proprie
organizzazioni, provocando il prosciugamento delle stesse e costringendole allo
smantellamento
20
. La dissociazione non prevedeva nessuna forma di
collaborazione attiva con l’Autorità dello Stato, cioè mirava esclusivamente a
incentivare la mera ammissione delle attività svolte senza richiedere alcun
coinvolgimento di altri responsabili. Perlopiù è da considerarsi come un fenomeno
di revisione critica dall’interno dell’area eversiva, di distacco dalla precedente
esperienza terroristica, di abbandono della lotta armata. In altri termini, si poneva
come fenomeno politico a carattere collettivo e non come fenomeno giudiziario
21
.
Inizialmente, alla definizione generale di pentiti, termine coniato proprio
in questi anni, corrispondono diverse posizioni processuali: accanto agli imputati
18
Puntualizza questo aspetto PICCIANI A., La premialità nel sistema penale, in Ripensare la
premialità. Le prospettive giuridiche, politiche e filosofiche della problematica, ARMELLIN S.-
DI GIANDOMENICO A. (a cura di), Torino, Giappichelli, 2002, 245.
19
Valga a tal fine un esempio fatto da un magistrato allora attivamente impegnato nella lotta al
terrorismo. Racconta Caselli G. in AA. VV., Dalla mafia allo Stato, Torino, EGA, 2005, 8, che
“quando Patrizio Peci decise di collaborare, parlò degli assassinii che aveva commesso a Torino
come brigatista regolare(clandestino, militante a tempo pieno nell’organizzazione). Riferì anche
quel che aveva visto in varie città, in particolare a Milano dove aveva operato come irregolare(non
clandestino, con u normale lavoro, brigatista nel tempo libero) e dove perciò aveva contattato solo
irregolari come lui. Ce li descrisse, svelò il segreto dei loro nomi di battaglia. Li convocammo per
interrogarli….Tutti isospettabili sdegnati per quella convocazione”. Caselli, continuando nel
racconto, dice che nel corso degli interrogatori gli imputati sostenevano la loro innocenza, fino al
momento in cui veniva loro posta la seguente domanda: “Le risulta di essere chiamato con questo
nome?” indicando il nome di battaglia riferito da Peci. “Gli interrogati capivano subito che non
c’era più spazio per finte indignazioni…..e ne prendevano atto, uno alla volta, tutti: confessavano,
ammettevano, aggiungevano particolari, aprivano per noi inquirenti nuovi spiragli, nuovi
percorsi”.
20
Il caso più emblematico di questa tendenza è rappresentato dallo scioglimento di Prima Linea.
21
Per queste definizioni si veda: SASSANO F., op. cit., 36; PICCIANI A., op. cit., 245 ss.;
MANCINI T. La premialità nel sistema penale, in Ripensare la premialità. Le prospettive
giuridiche, politiche e filosofiche della problematica, ARMELLIN S.- DI GIANDOMENICO A.
(a cura di), Torino, Giappichelli, 2002, 105.
9
che hanno scelto di riferire tutto in merito alla loro militanza terroristica, si
distinguono coloro che parlano esclusivamente delle proprie responsabilità
22
. La
situazione risulta del tutto eterogenea, e le posizioni dei singoli spesso in contrasto
tra di loro. Ai soggetti che si dichiarano non più associati, si affiancano coloro che
affrontano con piglio critico il proprio passato e che, nello stesso tempo tentano di
essere di esempio ai propri compagni ancora dubbiosi o favorevoli al
proseguimento della lotta armata. Nello stesso tempo, non sono pochi coloro che
rivendicano la legittimità dello loro scelte di lotta, degli strumenti usati e la loro
non riconducibilità nell’area del penalmente rilevante
23
. Si nota, quindi, come
agli inizi l’area di coloro che successivamente verranno raggruppati all’interno
della categoria dei dissociati è molto composita. E’ opportuno, per meglio
comprendere il fenomeno della dissociazione, delineare seppur schematicamente,
le principali tappe del movimento.
La prima fase è dominata da molteplici ambiguità. Prevalgono
atteggiamenti miranti all’auto-giustificazione, alla rivendicazione della propria
diversità giustificata dalle imperfezioni del sistema carico di ingiustizie e incapace
di auto-riformarsi. Così facendo si cercava di far salva l’esperienza dell’uso della
violenza, col il classico ragionamento del fine che giustifica i mezzi. Emerge
quindi una mancanza di maturità nel fenomeno di revisione critica della propria
esperienza. Siamo infatti nel 1981, e non è un caso se la legge sulla dissociazione
vedrà la sua luce nel 1987
24
. E’ normale, quindi, che da più parti si riscontrino
posizioni di forte diffidenza e di cautela. Questo quadro di forte ambiguità,
emerge linearmente dai diversi documenti riferibili alla futura area della
dissociazione, nei quali i detenuti per fatti di terrorismo vengono indicati come
prigionieri politici
25
e i latitanti fuggiti all’estero come esiliati.
La seconda fase si caratterizza per una forma più matura di disponibilità al
dialogo, favorito anche da una parte della società che privilegiava la c.d. “ricerca
di reincontro”
26
. Il procedimento di revisione del proprio passato da parte dei
terroristi diviene più convincente, grazie all’abbandono di quelle posizioni
preconcette sulle quali si attestavano nel precedente periodo e al riconoscimento,
22
In tal senso LAUDI M., op. cit., 1.
23
Chiarisce questo quadro CASELLI G., op. cit, 1989, 10.
24
E’ la legge n. 34 del 1987, preceduta dalla n. 304 del 1982, c.d. legge sui pentiti, caratterizzata
dal ricorso alla tecnica premiale intesa come incentivazione di condotte di ravvedimento.
25
Con questa formula, “i terroristi arrestati volevano negare in radice qualsiasi legittimazione
dello Stato a processarli, e a processare con loro la rivoluzione”. Così, G. CASELLI, op. cit., 13.
26
Per un analisi più approfondita di questo aspetto, si veda CASELLI G., op. cit., 14.
10
come illecite, delle azioni fino ad allora considerate legittimi strumenti di lotta.
C’è di fatto, una nuova coscienza politica, culturale ed etica degli errori del
passato che va oltre la semplice prospettiva del superamento della fase terroristica.
Si vuole, infatti, creare una prospettiva per il futuro “per riconquistare un ruolo
significativo nella democrazia di questo paese”
27
. Nonostante questi indubbi passi
in avanti, i dissociati, anche in maniera implicita, continuano a rivendicare con
orgoglio la funzione “politica” in quegli anni da loro svolta, anche se tale
tendenza è bilanciata da una sincera ammissione dei gravi sbagli commessi.
Nella fase successiva, il distacco dei dissociati dalla loro esperienza si
accentua, fino ad arrivare alla ricerca di quei valori, la cui mancanza aveva
favorito il dilagare della violenza, che rappresentano il vero tramite per il loro
reinserimento nella società.
Considerando nel complesso questo lungo e faticoso cammino verso il
recupero degli strumenti democratici, si può mettere in evidenza come esso sia
servito ai dissociati per un profondo cambiamento, tanto da poterli definire degli
uomini nuovi, diversi rispetto al passato
28
. Sta di fatto che se la dissociazione si è
potuta affermare, un ruolo importante è da riconoscere alla creazione e alla
progressiva diffusione all’interno delle carceri italiane, delle c.d. “aree omogenee”
29
.
Per concludere l’analisi storica della dissociazione, bisogna affrontare
molto velocemente il suo rapporto col pentitismo. Come detto, ciò che caratterizza
la dissociazione è la mancanza di collaborazione con la magistratura e con gli
organi di polizia. E’ facile, quindi, capire l’avversità che i dissociati nutrono nei
confronti dei pentiti che vengono definiti delatori e traditori. Tuttavia è poco utile
questa logica di contrapposizione frontale tra i due “schieramenti”, in quanto è
innegabile il ruolo che i pentiti hanno svolto nella lotta al terrorismo. Senza di
essi, che con le loro dichiarazioni hanno messo in evidenza la crisi latente nei
gruppi eversivi, difficilmente si sarebbe innescato quel processo di revisione
27
E’ un espressione usata dagli stessi dissociati nei documenti di loro emissione.
28
E’ questo il pensiero di CASELLI G., op. cit., 27, che sottolinea come in ogni caso, anche nel
dubbio di un recupero fittizio dei dissociati, il legislatore sia intervenuto per “sanzionare questa
nuova realtà”.
29
Le aree omogenee nascono nel 1982 come collettività informali e come bisogno di riaprire un
dibattito politico dentro il carcere per il superamento degli “anni di piombo”. All’inizio esse
incontrano delle difficoltà, derivanti dalla incomprensione e a volte ostilità delle amministrazioni
carcerarie, ma dopo circa un anno vengono formalizzate a livello ministeriale anche come luoghi
fisici di possibile sperimentazione della riforma penitenziaria del 1975, fino a divenire parte
integrante della politica del ministero di Grazia e Giustizia.
11
critica dell’esperienza passata che culmina nella dissociazione. Anche ai pentiti,
infatti, si deve riconoscere un utilità sociale, perché oltre a procedere a
ricostruzioni storico-politiche, hanno permesso una conoscenza approfondita delle
diverse articolazioni della criminalità organizzata
30
.
Grazie a questi strumenti e alle leggi premiali emanate in quegli anni
31
il
terrorismo è stato sconfitto. Tuttavia è evidente come il fenomeno in parola abbia
incontrato la sua fine anche come conseguenza dell’esaurirsi delle ragioni storiche
e politiche che lo avevano generato
32
.
3. Il “pentitismo” nell’esperienza della mafia siciliana
Sin dalla seconda metà dell’ottocento numerose fonti contengono un
ampia descrizione delle attività di gruppi criminali presenti in diverse aree della
Sicilia
33
. L’omertà rappresenta, anche all’epoca, l’elemento caratterizzante di
queste organizzazioni
34
. La riluttanza dei mafiosi, e non solo, a rispondere alle
domande sull’esistenza della mafia è rimasta immutata nel tempo
35
. Tuttavia,
l’assunto secondo cui i mafiosi non parlano, deve essere smentito
36
, in quanto
30
Nei dissociati è meno marcata ed evidente la componente del calcolo di convenienza personale
per il rifiuto di logiche premiali che li porta appunto a scagliarsi contro ai pentiti. Proprio per
questo motivo, il loro rifiuto della lotta armata è apparso più vero, più significativo.
31
Delle leggi ci occuperemo in maniera più approfondita nel corso del II capitolo nel quale si
affronterà la tematica del l’evoluzione legislativa in tema di collaboratori di giustizia.
32
In tal senso, MANCINI T., op. cit., 104. In altri termini si potrebbe dire che una delle cause
della fine del terrorismo, sia da ravvisare in fattori interni alle stesse organizzazioni, tanto da poter
parlare di implosione.
33
AA. VV., op. cit., 36. Numerosi i processi celebrati all’epoca che hanno portato
all’accertamento dell’esistenza di primitive forme di associazionismo mafioso, grazie all’apporto
fondamentale di testimonianze e confessioni di appartenenti ad associazioni criminose.
34
Due antichi proverbi siciliano affermano: l’omu chi parra assai, cu la sò stissa vucca si disterra
(L’uomo che parla molto si rovina con la sua stessa bocca); a megghiu parola è chidda ca ‘un si
dici (La migliore parola è quella che si tace).
35
Durante il processo, celebrato nei primi anni del 1900, per l’assassinio Notarbartolo,
appartenente di una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane ed esponente della Destra
storica, molti testimoni e imputati alla domanda su cosa fosse la mafia, rispondevano dicendo di
non sapere cosa significasse quella parola. Solo nell’ottobre 1986, vi fu un implicito
riconoscimento dell’esistenza di Cosa Nostra. La mafia fu sospettata dell’uccisione di Claudio
Domino, il figlio undicenne del titolare di un impresa di pulizie dell’aula del maxiprocesso.
Giovanni Bontate, uno degli imputati, si alzò nella gabbia dell’aula e, rivolgendosi alla Corte, fece
una sorprendente dichiarazione: “Presidente, noi vogliamo fugare ogni sospetto…Noi rifiutiamo
l’ipotesi che un simile atto di barbarie ci possa solo sfiorare. Noi siamo uomini: abbiamo figli.
Esterniamo il nostro dolore alla famiglia di Claudio”. Un anno dopo, Bontate fu ucciso con la
moglie. Alla fine del 1989 il pentito Francesco Marino Mannoia affermò che una delle ragioni del
suo assassinio andava ricercata in quella dichiarazione in cui Bontate, violando il giuramento di
Mafia, ne aveva rivelato l’esistenza.
36
Sembra risalire al lontano 1878 la prima figura del “pentito” di mafia: Salvatore D’Amico di
Bagheria, condannato per omicidio, affiliato alla setta degli Stuppagghiari costituita nel 1872.
D’Amico descrisse la cerimonia del giuramento, rivelò quanto sapeva alla polizia e si disse pronto
12
frutto di un idea di una mafia con rigide regole “morali”. La storia del pentitismo,
in senso lato, è quindi lunga e molto varia nel tempo, ma l’esperienza più
interessante per quello che ci riguarda, prende piede dagli eventi che negli anni
settanta vedono protagonista Cosa Nostra. Da qui, cominciano quella serie di
pentimenti, che tanto sono serviti per la conoscenza del fenomeno mafioso e che
solo negli ultimi quindici anni sono stati oggetto di una regolamentazione
legislativa.
Negli anni settanta il potere mafioso iniziò a riemergere lentamente dalla
profonda crisi che lo aveva investito nel corso degli anni precedenti. Venne
formata una commissione regionale che permise la ricomposizione dei conflitti
che avevano contrapposto i principali schieramenti. Questa pacificazione precaria
venne poi travolta dall’ascesa dei Corleonesi, intenzionati a conquistare un ruolo
di prestigio all’interno dell’organizzazione liquidando i vecchi boss mafiosi.
L’operazione fu cruenta e diede luogo ad una nuova guerra che provocò una vera
e propria mattanza, con diverse centinaia di morti. Lo scontro fu la conseguenza di
due diverse strategie criminali. La prima, più moderata, faceva capo ai Bontate e
mirava alla ricerca di complicità e alleanze con gli apparati statali per meglio
sfruttare le risorse pubbliche. L’altra, sostenuta dai Corleonesi, contraria al
tatticismo e alla ricerca di compromessi, non disdegnava lo scontro frontale con lo
Stato per arrivare ad affermare la piena sovranità sul territorio e sugli affari.
Questa strategia egemonica dei Corleonesi, uscita vincente dallo scontro, pur
ottenendo inizialmente il consenso dell’organizzazione, provocherà una profonda
crisi interna che sfocerà, poi, nel cosiddetto pentitismo, alimentato da quei
dissidenti, che contrari a questo modus operandi, decisero di rompere il vincolo
associativo e di diventare collaboratori di giustizia
37
. In particolare, la
caratteristica fondamentale della “politica” dei Corleonesi, è costituita dallo
scatenamento del terrorismo mafioso contro magistrati, funzionari, agenti di
polizia, carabinieri, giornalisti e politici
38
.
In questo contesto, si ha il primo collaboratore di giustizia del dopo guerra,
Leonardo Vitale, un modesto uomo d’onore che, travagliato da una crisi mistica e
a confermare le accuse pubblicamente. Nel corso dello stesso anno, Rosario La Mantia di
Monreale si presentò di ritorno dall’America al console italiano di Saragozza, dichiarandosi
disposto a rivelare importanti notizie nell’ambito del processo Amoroso.
37
AA. VV., op. cit., 63.
38
Oltre naturalmente ai diversi atti di guerra contro i propri oppositori interni, cui fecero seguito
centinaia di morti e casi di lupara bianca, AA. VV., op. cit, 64.
13
di coscienza , il 30 marzo 1973 decide di rivolgersi spontaneamente alla squadra
mobile di Palermo e di raccontare ciò che sapeva su esecutori e mandanti di vari
delitti e sugli assetti di Cosa nostra, di cui ammise di fare parte. Questo di Vitale
può essere definito come un vero pentimento nell’accezione che più è propria al
termine
39
, ma nonostante ciò, egli non fu creduto. Anzi, molte delle persone da
lui accusate vennero poi prosciolte, mentre lui stesso, ritenuto seminfermo di
mente fu l’unico a essere condannato. Vitale non parla per vendetta o perché ha
paura, né perché costretto, ma indotto da un ripudio della mafia e delle sue regole
perverse. Con la sua spontanea e piena collaborazione segna una tappa
fondamentale nella storia del fenomeno del pentitismo, che negli anni successivi
subirà una veloce accelerazione. Le dichiarazioni di Vitale otterranno una duplice
conferma circa la loro attendibilità oltre dieci anni dopo. Innanzitutto con il
linguaggio velato che è proprio dei mafiosi. Infatti, una volta riacquistata la
libertà, egli venne ucciso. In secondo luogo grazie alle dichiarazione di altri e più
“famosi” collaboratori. Giovanni Falcone
40
, con molta amarezza, mette in
evidenza come le dichiarazioni di Vitale siano servite per far capire l’assoluta
inadeguatezza e impreparazione dello Stato dell’epoca, nell’accogliere il nascente
fenomeno del pentitismo.
A distanza di cinque anni dalle prime confessioni di Leonardo Vitale, il
mafioso Giuseppe Di Cristina della famiglia di Riesi, esponente di spicco di Cosa
Nostra nissena, resosi conto che i Corleonesi avevano deciso di eliminarlo, decise
di rivelare informalmente alle autorità
41
quanto sapeva in merito alle attività di
questi. Nessun riferimento ci fu in merito al ruolo da lui svolto
nell’organizzazione, e quindi siamo molto distanti dalla figura del pentito in senso
39
Questo emerge dalle parole dello stesso pentito tratte dal suo memoriale dove può essere
facilmente colto lo stato di profonda crisi che lo aveva portato a questa scelta: “Io sono stato preso
in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le
sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli e, però, uccidere; pazzi!
[...]. Bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato e io ho obbedito […].
La mia colpa è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere
vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono
vengono disprezzati. La mafia in sé stessa è il male; un male che no da scampo per colui che viene
preso in questa morsa […]. Il mafioso non ha via di scelta perché mafioso non si nasce, ma ci si
diventa, glielo fanno diventare.”
40
G. FALCONE, M. PADOVANI, Cose di cosa nostra, Milano, Rizzoli, 1995, 64.
41
Quindi nella veste di confidente.
14
stretto
42
. Tuttavia, ancora una volta, le dichiarazioni di Di Cristina furono
sottovalutate dalla magistratura dell’epoca.
Il decennio successivo si aprì con la seconda guerra di mafia (1981-1982)
che porterà ad un ecatombe, con circa mille uomini tra uccisi e scomparsi. I
Corleonesi, sempre più saldamente ai vertici di Cosa Nostra, con l’enorme
arsenale militare del quale disponevano, fecero un uso indiscriminato e illimitato
della violenza sia nei confronti dei nemici interni, che di quelli esterni. Fu proprio
questa strategia, unita ad atti di barbarie
43
, che costituì la premessa di quella
rottura interna che portò alle prime defezioni da parte di diversi uomini d’onore. I
vecchi esponenti della mafia perdente e non solo, affermarono di non riconoscersi
più in un organizzazione mafiosa stravolta dai Corleonesi. Proprio il ripudio delle
regole da questi imposte, porterà a far lievitare le fila dei collaboratori di giustizia.
Un inversione di tendenza da parte dei magistrati circa l’importanza del
fenomeno del pentitismo, fino a quel momento sottovalutato, si avrà a partire dal
1984 con le confessioni di Tommaso Buscetta, il cosiddetto “boss dei due mondi”.
Le sue dichiarazioni segnarono l’avvio di un nuovo corso e giunsero in un
momento in cui lo Stato stava accentuando gli sforzi per contrastare la criminalità,
acquisendo così una maggiore credibilità agli occhi degli stessi mafiosi e
incentivando indirettamente la loro scelta a favore della collaborazione. Da quel
momento, il pentitismo entra a far parte della storia giudiziaria della mafia,
ponendo così fine a quella serie di processi che fino ad allora si erano sempre
conclusi in maniera più che fallimentare, con l’assoluzione per insufficienza di
prove.
Anche per Buscetta non siamo di fronte ad un pentimento in senso etico o
morale, in quanto egli dirà semplicemente di non riconoscersi più in
un’organizzazione criminale che aveva perso i suoi connotati iniziali nei quali si
identificava. Tuttavia, le sue dichiarazioni giunsero in un contesto in cui la
magistratura era pronta a recepire il fenomeno
44
.
42
Questo non impedì ai magistrati di considerarlo attendibile. Anzi, le sue dichiarazioni furono
ritenute importanti nel corso del maxiprocesso di Palermo e considerate per certi versi più incisive
di quelle di Buscetta.
43
Si pensi al caso del piccolo Giuseppe Di Matteo rapito e ucciso, il cui corpo fu sciolto in una
vasca di acido.
44
Nel sottolineare la rilevanza del contributo offerto da Buscetta, Falcone dirà: “Prima di lui non
avevo- non avevamo- che un idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato
a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di
reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia,