ed Istituzioni o tra pubblico e privato e <<punta al coinvolgimento attivo di tutti i
soggetti rappresentativi di un territorio, valorizzandone le diverse capacità ed
esperienze, in un’ottica di sviluppo territoriale integrato>>
1
. La cooperazione
decentrata estende, in modo del tutto nuovo, i protagonisti dello sviluppo: autorità
locali, associazioni professionali, cooperative, sindacati, università, centri di
ricerca, associazioni e gruppi di quartiere. Tutti vengono riconosciuti come attori
importanti di cooperazione internazionale. Accanto ad essi, promuove anche la
costituzione di forme associative e sedi di dialogo di carattere intermedio:
comitati, centri, conferenze, reti, con lo specifico proposito di sostenere i processi
di sviluppo. Il partenariato non è più inteso tra stati o tra Organizzazioni Non
Governative (ONG), ma tra una molteplicità di attori, costituiti in più casi da
comunità organizzate.
Questi processi rappresentano la dimensione costitutiva di tale logica, che
concepisce lo sviluppo non come un percorso a tappe forzate con tempi rigidi, ma
come un apprendimento che avanza lentamente, individuando e costruendo le
compatibilità possibili. Più precisamente, la ridiscussione dello Stato-Nazione
come forma di organizzazione geopolitica e l’apparente contraddizione tra
tendenze localistiche e globalizzazione, rappresentano i punti di riferimento
essenziali. In questi anni, il ruolo primario che le Autonomie locali hanno svolto
nei processi di sviluppo, trova riconoscimenti importanti in diverse sedi, gran
parte delle volte associati a quelli espressi nei confronti della società civile. Sono,
comunque, gli stessi processi di ridefinizione tra Stato e società a dare forma e
spessore alla spinta al decentramento. La nascita di queste nuove forme d’azione,
che coinvolgono in molti casi ampi settori del tessuto sociale e un numero
rilevante di governi locali, sollecita a guardare alla perdita di credibilità delle
politiche di cooperazione allo sviluppo genericamente intese. Inoltre, l’attuale
questione di trovare nuove forme di rappresentanza verso una pluralizzazione dei
soggetti politici, motiva l’attenzione rivolta al ruolo della società civile e delle
relazioni informali.
Il complesso riorientamento della politica di cooperazione, costituisce
un’occasione importante per la valorizzazione dell’apporto che, in termini di
1
GRECO M., LENCI S., La cooperazione decentrata oltre l’aiuto. Gli attori locali nella definizione
dei rapporti Nord-Sud, Torino, Harmattan, 1999, p. 15.
2
indirizzi, procedure e metodologia, può offrire la modalità decentrata: le cui
potenzialità rimangono ancora in parte latenti. Le sperimentazioni recenti
forniscono indicatori interessanti in tal senso, segnalando come l’applicabilità di
tale approccio comprenda sia i programmi bilaterali che multilaterali.
Nell’esposizione dei capitoli si è voluto seguire il criterio del come dovrebbe
essere e del come è realmente. Funzionale a questo scopo è stata l’analisi del
progetto Human Solidarity Children Village (HSCV) in Sri Lanka, che ha
permesso di analizzare la reale attuazione dei contenuti teorici.
Oltre alla nuova modalità d’azione, un capitolo è stato dedicato ai programmi di
aiuto che rientrano nella tipologia dell’assistenza umanitaria o di relief (soccorso).
Negli ultimi 10-15 anni, hanno infatti conosciuto una notevole espansione per
l’ammontare dei fondi disponibili (relativamente a quelli destinati all’aiuto allo
sviluppo propriamente detto), per le modalità d’azione ed infine per
l’allungamento del raggio geografico dell’intervento. Questo sviluppo, in buona
parte associato alla proliferazione dei conflitti e delle guerre civili in molte parti
del mondo ed alla crescita delle azioni di peace-keeping e peace-enforcing, ha
sollevato fin dal suo inizio un acceso dibattito sullo strumento stesso, sulla sua
funzionalità e sulla sua efficacia.
A questo scopo, non possono essere ignorate la presenza italiana nelle maggiori
Organizzazioni Internazionali e le responsabilità politiche derivanti dagli impegni
conseguenti. Assieme a queste, l’Unione Europea, è chiamata ad essere uno dei
principali attori nel campo della cooperazione allo sviluppo e della lotta alla
povertà. I suoi sforzi in materia di aiuto allo sviluppo sono notevolmente cresciuti
negli ultimi anni e la gamma dei beneficiari degli aiuti si è allargata. Attualmente
l’insieme dell’aiuto dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri rappresenta circa
il 55% dell’ Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) mondiale e più di due terzi degli
aiuti non rimborsabili. Da sola la Commissione Europea, organo esecutivo
dell’Unione, fornisce il 10% dell’APS nel mondo. Ciò la rende un partner
privilegiato dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS). Inoltre, in un contesto mondiale
marcato dalla notevole riduzione del volume degli aiuti, le risorse destinate
dall’Unione alla cooperazione allo sviluppo rimangono apprezzabili. Tracciando
un percorso storico-evolutivo delle azioni di cooperazione internazionale europee,
3
si è voluto descrivere come, nell’ultimo decennio, la politica comunitaria per lo
sviluppo ha acquistato ruolo e fisionomia propri. L’esplicita proclamazione nelle
fonti primarie dei propri principi e contenuti, ne ha preceduto
l’istituzionalizzazione degli assetti e degli strumenti operativi: è un passaggio
importante per le influenze sulla legislazione nazionale e regionale.
Si è cercato anche di smascherare l’atteggiamento ipocrita che tutt’oggi ruota
attorno ai termini di soccorso umanitario e personale volontario. Troppo spesso le
ONG, le agenzie di cooperazione o molti dei protagonisti del settore, hanno
approfittato di questo spazio d’ambiguità. I mezzi di comunicazione che, oggi più
di ieri, forniscono un’informazione spesso distorta, vengono sempre
maggiormente sfruttati per tale scopo. Se la cooperazione italiana sta attualmente
vivendo un momento di crisi, provato dal risibile valore dell’APS italiano in
rapporto al PIL, l’aiuto umanitario è sprofondato invece in uno scenario
paradossale. Tale momento non è imputabile solo alle irrisorie risorse finanziarie
allocate, ma è legato soprattutto ad una drammatica crisi di identità e di contenuti;
certamente funzionale a gravissime e irresponsabili strumentalizzazioni.
Per introdurre qualche dato statistico, secondo il rapporto OCSE del 2005 sulla
cooperazione allo sviluppo dei membri del Development Assistance Committee
(DAC), l’Italia, nel biennio 2003-2004 ha destinato il 7,2% del suo APS bilaterale
agli aiuti d’emergenza, rispetto ad una media dei paesi DAC del 9,1%, con punte
massime del 23,4% della Svizzera e del 20,3% della Norvegia. Dalla lettura delle
più recenti relazioni annuali sull’attuazione della politica di cooperazione allo
sviluppo della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo/Ministero
degli Affari Esteri (DGCS/MAE), relativamente alle attività di emergenza, si
evince che le risorse devolute si sono progressivamente ridotte da 101.300.000 di
Euro del 2002, a 76.432.842 di Euro nel 2003, a 64.151.687 di Euro nel 2004
(72.942.049 di Euro se fossero considerate anche le competenze relative al 2003).
Questo in totale controtendenza rispetto agli altri Paesi donatori e nella totale
indifferenza nei confronti dei vari appelli delle Nazioni Unite per fronteggiare le
sempre più numerose situazioni di crisi nel mondo.
Lo scenario italiano è inoltre caratterizzato da uno “strabismo” delle emergenze,
che vede da un lato la crisi irachena e quella del Sud-Est asiatico (crisi peraltro
4
fortemente mediatiche) e dall’altro crisi ignorate o poco considerate come
l’emergenza alimentare per carestia in Niger. I temi del dibattito che abbiamo qui
cercato di delineare sinteticamente, mostrano l’esistenza di posizioni altamente
polarizzate e cristallizzate, alle quali non sono estranee visioni più ampie e
complessive sia della concezione dello sviluppo, sia e soprattutto della politica
internazionale e delle linee di possibile riorganizzazione dell’ordine globale.
Spetterà al lettore, condividere o meno, le conclusioni che saranno raggiunte.
5
1. L’evoluzione storica della cooperazione allo sviluppo
1.1 Il caso italiano
L’assistenza inter-governativa per la promozione dello sviluppo
economico e sociale dei paesi più arretrati è un fenomeno relativamente recente.
Ciò non significa che in passato non esistessero forme di aiuto tra i governi o nei
confronti delle colonie, ma solo dopo il 1945 si fa strada l’idea che l’aiuto
pubblico è uno strumento per lo sviluppo economico e sociale dei Paesi in Via di
Sviluppo (PVS), che la loro crescita economica possa contribuire al buon
funzionamento del sistema economico internazionale e che la promozione sociale
ed economica dei popoli, nelle zone più arretrate, sia una responsabilità collettiva
della comunità mondiale. L’analisi delle tendenze evolutive della cooperazione
allo sviluppo può evidenziare l’esistenza di un “caso italiano”
2
, vale a dire, di un
processo che, pur configurandosi nel contesto storico e teorico generale, possiede
delle peculiarità che lo caratterizzano. Non si può in ogni caso negare che le
politiche di cooperazione rappresentino una prova indicativa d’incertezze e
tensioni. Esse, infatti, si sono sviluppate attraverso un percorso storico-politico
particolare.
Fino ad un decennio fa, l’attenzione dedicata alla politica di cooperazione
allo sviluppo italiana, sia da parte degli studiosi del nostro paese che di quelli
stranieri, è stata limitata. Solo alla fine degli anni Ottanta si comincia ad
intravvedere un cambiamento di tendenza. La maggioranza degli studi più recenti
si propone essenzialmente di descrivere, in genere con approccio giuridico-
amministrativo, le istituzioni preposte alla cooperazione, i loro poteri, le
reciproche sfere di competenza e l’andamento dei flussi di assistenza nel tempo.
Un più limitato numero di studi cerca invece di chiarire lo stile della cooperazione
italiana e i criteri che ne governano l’allocazione delle risorse. Manca tuttavia un
lavoro che colleghi esplicitamente i criteri d’allocazione e le caratteristiche più
2
ISERNIA P., La cooperazione allo sviluppo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 17.
6
generali dei processi decisionali con l’evoluzione storica. Per eliminare questa
difficoltà, si è utilizzato lo strumento più ricorrente in tutte le pubblicazioni sul
tema: la suddivisione temporale, in 5 fasi, dell’evoluzione storica della
cooperazione allo sviluppo italiana proposta da Isernia. La conferma della validità
di questo criterio, è il suo utilizzo ricorrente nei documenti del Ministero degli
Affari Esteri (MAE) e nella “Relazione revisionale e programmatica sulle attività
di cooperazione allo sviluppo nell’anno 2007 ai sensi dell’art. 2, comma 2, della
legge n. 49/87” presentata in Parlamento. Le 5 fasi, sono di seguito indicate:
l’ultima è stata modificata per sottolineare i cambianti e l’instabilità attuali:
1°. Fase della “non politica” (1950-1971).
2°. Fase di “gestazione” (1971-1979).
3°. Fase di “politicizzazione” (1979-1987).
4°. Fase “d’istituzionalizzazione” (1987-inizi 1990).
5°. Fase di “instabilità” (dalla prima metà anni Novanta ad oggi).
Dal punto di vista istituzionale, all’interno della prima fase della “non
politica” (1959-1971), comincia a delinearsi una linea d’indirizzo. Fino al 1971
però, non si potrà mai parlare di una vera e propria politica strutturata. Infatti, è
dal momento in cui l’Italia ha cessato di essere un Paese beneficiario dei flussi di
cooperazione internazionale (come lo era stato nel corso degli anni ’50 e ’60), per
diventare gradualmente sempre più importante nel club dei Paesi ricchi del mondo
(a partire cioè dagli anni ’70), che il ruolo della politica di cooperazione allo
sviluppo è divenuta una componente stabile nelle relazioni internazionali del
nostro Paese. Non esistendo un sistema centralizzato e specializzato in materia,
l’autorità era condivisa tra diverse istituzioni ed uffici, al centro delle quali vi era
il MAE, ed accanto ad esso, il Ministero del Tesoro, il Ministero della Pubblica
Istruzione, la Banca d’Italia ed il Ministero della Difesa. Nonostante vi fossero
importanti motivi per la realizzazione di politiche cooperative quali: l’ esistenza
di un passato coloniale, consolidato soprattutto con il protettorato italiano in
7
Somalia durato dieci anni
3
, le istanze e le richieste indirette a livello
internazionale, a fronte della partecipazione italiana alla Risoluzione ONU n. 72
del 1962 che dichiarava gli anni ’60-’70 “Decennio per lo sviluppo”, la pressione
del volontariato cattolico e sociale e l’interesse economico dei gruppi
imprenditoriali emergenti, il mondo politico restò sostanzialmente indifferente.
Ciò è dimostrato dall’atteggiamento del MAE che considerava costantemente la
cooperazione solo dal punto di vista tecnico, separandola da quello finanziario.
Questa separazione, secondo Isernia, è spiegabile con due motivazioni.
La prima riguarda la questione già citata dell’impegno dell’Italia alle Nazioni
Unite. L’Italia, tenendo separati i due campi dell’aiuto finanziario e tecnico,
poteva giustificare l’impegno dei privati come contributi al decennio dello
sviluppo. La seconda invece, era relativa alla questione politica e sociale di
migliore e naturale predisposizione italiana per l’assistenza tecnica, rispetto agli
investimenti finanziari, che riteneva di competenza europea. Solo alla fine degli
anni ’60 i risultati delle politiche del decennio dello sviluppo rivelano
l’inefficienza dell’impegno italiano, facendone scaturire un ampio dibattito sulla
regolazione del volontariato civile. Il 1 Dicembre del 1971 si approva la legge n.
1222 dal titolo “Cooperazione tecnica con i paese in via di sviluppo”.
Conoscendo l’eccessiva frammentazione legislativa della materia, tale legge,
diede al MAE la competenza in materia di cooperazione allo sviluppo. Tale scelta
fu però frutto di un compromesso tra <<posizioni divergenti>>
4
e in particolare
tra quelle della burocrazia ministeriale, che ribadiva la centralità del MAE, e
quelle delle organizzazioni di volontariato sostenute dai politici, i quali
proponevano la creazione di un’Agenzia. La volontà di non separare la fase
decisionale da quella esecutiva e la lontananza e l’estraneità del modello
“Agenzia” al sistema amministrativo pubblico italiano, furono le motivazioni
vincenti che fecero optare per il MAE.
3
La Somalia rappresenta secondo Isernia, la principale motivazione italiana per l’instaurazione di
politiche di sviluppo. La Somalia era stata infatti sotto amministrazione fiduciaria italiana per 10
anni, fino alla cessazione nel 1960. La Somalia sarà motivo di legislazione ed inoltre l’Italia
investirà 59 miliardi di Lire tra sostegno al pareggio del bilancio somalo e aiuti tra il 1961 e il
1971.
4
ISERNIA P., op. cit.,Bologna, Il Mulino, 1995, p. 84.
8
Fu, pertanto, istituito un Servizio Autonomo, con competenze tecniche,
rapidità procedurale ed efficienza, più aperto verso la società civile grazie alla
costituzione di un comitato consultivo misto. La fase della “non politica” conserva
una concezione in chiave tecnica, sviluppandosi all’interno di compromessi
partitici con una natura multicefala della gestione, ma aprì le porte all’esigenza di
coordinamento tra i vari modelli di cooperazione. Emerse però la volontà del
MAE di difendere la sua posizione predominante.
Nel 1971 si apre la seconda fase detta “di gestazione” (1971-1979). La
cooperazione degli anni ’70 si esaurisce anch’essa nell’invio di esperti e volontari
e nella partecipazione ai programmi degli organismi internazionali. Due sono i
principali elementi di continuità con il passato. Il primo è l’adozione di una
nozione limitata di cooperazione, intesa come assistenza tecnica che escluda dal
suo campo quella finanziaria. Il secondo elemento, di conseguenza, è
rappresentato dall’irrisorietà degli impegni finanziari previsti dalla legge.
Non mancano comunque le differenze con il passato. Una più avvertita
esigenza di coordinamento della politica di cooperazione tecnica con quella
economica nazionale e l’esplicito riconoscimento della centralità del MAE,
consentiranno un temporaneo equilibrio tra i gruppi d’interesse coinvolti nel
dibattito. L’istituzione del Comitato Consultivo misto con funzione consultiva e di
proposta, precederà la sistemazione della normativa relativa al personale in
servizio di cooperazione tecnica e di volontariato civile (rispettivamente Titolo II
e III, l. 1222/71). Infine viene creato il Comitato Direzionale (presieduto dal
Ministro), che approva i programmi operativi del Servizio tecnico e ripartisce i
finanziamenti. Passando ad esaminare il funzionamento della legge nel decennio
degli anni ’70, si distinguono due sottofasi
5
:
¾ La sottofase della “fondazione della politica di cooperazione” (1971-
1974).
¾ La sottofase del “dibattito critico” (1975-1979).
La prima, emblematica della crescente attenzione della classe politica e
della comunità scientifica per i problemi della cooperazione, porta alla creazione,
5
ALESSANDRINI S., La politica italiana di cooperazione allo sviluppo, Milano, Giuffrè, 1983.
9
nel 1971, dell’Ipalmo (Istituto per le Relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa,
America Latina, Medio ed Estremo Oriente). In questo istituto si ritrovano i
rappresentanti delle principali forze politiche di centro-sinistra (soprattutto sinistra
Dc, Pci con qualche rappresentante del Psi), più attenti ai problemi legati allo
sviluppo. L’istituto viene utilizzato in quegli anni quale sede di riflessione teorica
della ristretta comunità di esperti e politici interessati alla cooperazione. A fronte
di ciò, dal punto di vista delle risorse organizzative, umane e finanziarie, i
cambiamenti sono modestissimi. Vi è anzi un peggioramento quantitativo del
bilaterale ed il sorpasso degli aiuti multilaterali.
A fronte della lentezza del servizio precedentemente creato, della
complessità burocratica, del peggioramento quantitativo dell’ APS bilaterale
(Aiuto Pubblico allo Sviluppo), del basso livello d’interesse del MAE per la
cooperazione allo sviluppo, ci si rende conto che è necessario un ripensamento
delle politiche. L’occasione si ha nel 1975, sotto la pressione di un’esigenza
contingente: la legge n. 1222/71 aveva una copertura finanziaria quinquennale di
50 miliardi di Lire. Venuta a scadere si poneva l’esigenza di varare una nuova
legge.
La seconda sottofase del “dibattito critico”, è guidata sostanzialmente da
due proposte. Una, d’origine ministeriale e governativa, propendeva per il
mantenimento dell’organizzazione istituzionale o comunque per la realizzazione
di modifiche minime; l’altra proveniente dall’Ipalmo propendeva per
l’ampliamento della concezione della cooperazione allo sviluppo, non più solo
tecnica e prevedeva la costituzione di un’Agenzia. Solo nel 1977, dopo un anno di
lavoro di una comitato ristretto, si arrivò ad un testo unificato, che portò
all’istituzione di un dipartimento unico, gestore della cooperazione tecnica e
finanziaria all’interno del MAE
6
. <<Se questa era la macchina costruita per
condurre la politica di cooperazione allo sviluppo negli anni ’80, bisognava
trovare il guidatore e la benzina>>
7
.
6
Al MAE fu inoltre affidata anche la Presidenza del CIPES (Comitato interministeriale per la
politica economica estera). La presidenza, infatti, era contesa tra MAE e Ministero del bilancio.
Ad averla vinta fu il MAE. L’obiettivo del CIPES era quello di coordinare la cooperazione tecnica,
con quella economica nazionale e con quella delle organizzazioni internazionali.
7
ISERNIA P., op. cit.,Bologna, Il Mulino, 1995, p. 96.
10
La terza fase detta “di politicizzazione” (1979-1987), la più interessante e
dibattuta, si apre con la legge 9 Febbraio 1979 n. 38, sulla “Cooperazione
dell’Italia con i Paesi in Via di Sviluppo”. In linea con il passato si riafferma la
centralità del ruolo di coordinamento del MAE, il collegamento implicito tra
politica di cooperazione e politica estera, il mantenimento del Comitato
Consultivo e quello Direzionale
8
e la distinzione tra fondi bilaterali e multilaterali.
Le novità sono rappresentate da una più ampia definizione di cooperazione.
Dall’assistenza tecnica si passa alla “cooperazione allo sviluppo” comprendente
<<le iniziative pubbliche e private….dirette a favorire il progresso economico,
sociale, tecnico e culturale di tali paesi, in armonia con i loro programmi di
sviluppo>>
9
. Tale politica, viene ancorata da un lato ai principi di solidarietà
ispirati dalle Nazioni Unite, dall’altro alle relazioni economiche internazionali che
l’Italia promuove. Nato dal compromesso tra i sostenitori dell’Agenzia e coloro
che volevano mantenere le competenze del MAE, è la creazione di un
Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, equipollente ad una Direzione
Generale. Questa fase può essere anch’essa suddivisa in 3 sottofasi:
¾ “La politicizzazione del tema” (1979-1983).
¾ “La creazione del FAI” (1984-1985).
¾ “L’azione del Fondo Aiuti Italiano (FAI) e l’approvazione della legge n.49
del 1987 (1985-1987).
La prima sottofase fu dominata da due dinamiche. La prima era la
lentezza d’applicazione della legge n. 38/79. La necessita di creare le nuove
strutture organizzative della legge, produsse l’arresto delle attività di quelle pre-
esistenti. Inoltre i conflitti burocratici, il cattivo funzionamento del CIPES
10
e i
problemi di coordinamento interministeriale fecero il resto. La seconda dinamica
riguardò una crescita dell’attenzione per il tema della cooperazione, sia a livello
politico che di opinione pubblica, in seguito, soprattutto, alle azioni del Partito
8
Il comitato direzionale assicura il coordinamento di tutte le attività del MAE con quelle della
cooperazione allo sviluppo. Inoltre, possiede forti capacità gestionali, tra cui l’approvazione di
convenzioni e l’indirizzo delle attività del dipartimento.
9
Art. 1 legge 38/79.
10
Il ruolo propulsivo e di coordinamento del CIPES non ha mai funzionato, a tal punto che Isernia
lo definisce “latitante”. Inoltre, la prima riunione del CIPES si è tenuta direttamente nel 1979
adottando un aumento dell’APS in rapporto al PNL fino allo 0,7% entro il 1990.
11
Radicale, che iniziò una campagna nel paese e al Parlamento Europeo contro la
morte per fame nel mondo.
Prendendo spunto da un rapporto dell’Unicef, secondo il quale entro la
fine del 1979 17 milioni di bambini sarebbero morti per malattie ed infezioni
legate alla malnutrizione, i Radicali avviarono nel 1979 una campagna di
mobilitazione, a diversi livelli, che porterà in tre anni ad un aumento consistente
di APS dell’Italia ed alla formazione di una coalizione di forze politiche
intenzionate a creare gli strumenti con cui spenderli. La loro convinzione era che
il problema della fame e del sottosviluppo non nasceva tanto dalla carenza di
soluzioni economiche, quanto piuttosto dalla mancanza di volontà politica. Per
questo la campagna radicale si concentrò su un obiettivo di ampia visibilità, di
immediata rilevanza e di facile comprensione. Il problema della cooperazione allo
sviluppo è, per i radicali, innanzitutto e soprattutto il problema della fame e della
denutrizione nel mondo. Infatti se Marco Pannella, segretario del Partito Radicale,
riuscirà, a livello nazionale, ad ottenere la prima riunione del CIPES (1979) e lo
stanziamento di 200 miliardi di lire entro il 1980 per raggiungere la media DAC
dello 0,34% del PNL, e se, a livello internazionale, riuscirà a raggiungere
l’elezione di tre rappresentanti radicali al Parlamento europeo, la presenza italiana
alla conferenza del 1979 dell’UNCTAD, al vertice di Venezia del 1980,
all’assemblea delle Nazioni Unite, a Ottawa (luglio 1981) e a Parigi (Settembre
1981), è anche grazie alla strategia adottata nella realizzazione dalla campagna di
sensibilizzazione.
La semplificazione del tema, la tangibilità della questione della fame nel
mondo, l’affermazione della natura politica del problema, la possibilità di
valutazione immediata del risultato dell’azione, il collegamento immediato tra il
problema, salvare tre milioni di vite umane, e la soluzione finanziaria prospettata,
4.000 miliardi di Lire, l’urgenza e la necessità della tempestività dell’intervento e
“l’uso della pressione internazionale” furono i punti di forza e di successo della
campagna. In sede europea, venne, infatti, approvata la risoluzione che impegna i
paesi membri dell’UE a raggiungere una quota di APS pari allo 0,7% del PNL.
Viene inoltre istituita dai radicali l’associazione “Food and Disarmament”, e
viene stilato il “Manifesto dei Premi Nobel” firmato da 53 Premi Nobel nel
12
Giugno del 1981, contenente un appello all’impegno di lotta contro la fame nel
mondo. La fase di proposta, mirava all’effettiva realizzazione dell’aumento dei
fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo ed alla raccolta di firme per una
proposta di legge d’iniziativa popolare dal titolo “Contro lo Sterminio per la fame
e per una conseguente nuova organica politica di sviluppo”. Il prolungamento in
Parlamento del dibattito fino al 1983, porterà i radicali ad attuare una dura critica
nei confronti della politica di cooperazione allo sviluppo italiana, anche a fronte
dei ritardi d’attuazione della legge n. 38 del 1979.
Pertanto, si giungerà alla seconda sottofase detta “la creazione del Fai”
(1984 – 1985), caratterizzata dall’aumento della sensibilità dell’opinione pubblica
sul tema della fame nel mondo e delle potenziali risorse disponibili. Il governo
decise di affrontare il problema in due momenti. In relazione all’intervento
emergenziale, nominava un commissario straordinario, e istituiva un Servizio
speciale nell’ambito del MAE alle dirette dipendenze del commissario e lo
stanziamento di 1.500 miliardi di lire da spendere in 3 anni. Rimandava, invece, la
decisione in materia di riforma della cooperazione allo sviluppo.
Veniva così emanata l’8 marzo del 1985 la legge n. 73 dal titolo
“Realizzazione di programmi integrati plurisettoriali in una o più aree
sottosviluppate caratterizzate da emergenza endemica e da alti tassi di mortalità”,
che prevedeva la nomina di un Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri con
l’attribuzione di poteri straordinari esercitati con il supporto del FAI. Con questa
legge si istituiva, infatti, un Fondo finanziario destinato all’aiuto italiano ai PVS,
gestito dal MAE, attraverso un organismo ad hoc che realizzava provvedimenti
d’urgenza ed emergenza. Il lavoro del FAI, guidato da motivazioni di carattere
emergenziale, agendo nell’ottica del breve periodo, ha destinato i fondi sulla base
dell’urgenza delle necessità dell’intervento. Si assistette, pertanto, all’aumento del
volume di spesa, fissata a 1.900 miliardi di lire in un periodo di 18 mesi.
Il FAI è passato alla storia soprattutto per le sue modalità di impiego (a
pioggia e poco trasparenti) dei fondi messi a disposizione. Pertanto, i dirigenti del
FAI, incaricarono il Centro di Studi e Piani Economici (con convenzione del
1986), di studiare e proporre un sistema di permanente valutazione dei programmi
del FAI e di informare il pubblico in generale e gli operatori del FAI, sugli esiti di
13
detti programmi. Numerose sono state le critiche rivolte alla sua gestione,
sostenute anche da un’indagine parlamentare. Per esempio non si è fatta chiarezza
fino al 2004 circa gli investimenti effettuati in Somalia. I Giudici di ultimo grado
hanno riformato la condanna inflitta ad un Sottosegretario del Ministero degli
Esteri per l’erogazione di fondi finalizzati alla costruzione di una imponente
infrastruttura in Somalia (tratto stradale di 450 KM)
11
.
Fanciullacci, partendo dalla valutazione dell’aiuto italiano in Somalia
(1981-1990) critica profondamente l’operato del FAI, che oltre ad essere
caratterizzato da una serie di debolezze tipiche della <<gestione all’italiana,
attraverso la cui gestione si alimentano e mantengono interessi illegittimi
12
>>, si
distingue per una serie di errori, determinanti il fallimento di questa istituzione
quali: non equilibrando gli investimenti di sviluppo sociale a quelli economici,
trascurò completamente i bisogni di base come sanità, istruzione, servizi e
istituzioni. Il Fondo, produsse progetti non sostenibili, privi di qualsiasi
fondamento logico, senza sviluppo. Non attivando un processo di creazione e/o
rafforzamento di competenze e capacità istituzionali locali, l’intervento del FAI
non produsse né sviluppo né ownership, ma producendo oggetti, finì col
deteriorare le istituzioni locali, arricchendo pochi imprenditori italiani. Gli
interventi del FAI furono guidati da logiche scoordinate e incoerenti tra loro;
logiche in cui mancava un minimo di programmazione. L’Italia ha instaurato solo
con la controparte governativa un dialogo diretto, ignorando gli altri attori del
territorio. Ha subito a livello nazionale le pressioni di una lobby economico-
industriale, per nulla interessata allo sviluppo umano, alimentando così corruzione
e insostenibilità.
La terza sottofase (1985-1987), rilevò non solo le difficoltà e la lentezza
del processo di riforma dell’assetto complessivo della cooperazione, dovuto alla
separazione del dibattito sulla riforma della legge 38/79 da quello per la lotta
11
FRESA M., Tesi di Laurea, L’intreccio tra cooperazione decentrata e paradiplomacy. Il caso
della Regione Emilia Romagna e delle sue politiche verso il popolo Saharawi, Università di
Napoli “L’Orientale”, 2003-2004.
12
FANCIULLACCI D., Corno d’africa: Quale Cooperazione?, da Rhi-Sausi J.L. (a cura di), La crisi
della cooperazione italiana, Rapporto CeSPI sull’aiuto pubblico allo sviluppo, Centro Studi di
Politica Internazionale, Edizione Associate, editrice internazionale, 1994, p. 127.
14