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Da parte sua il neonato, che non ha ancora raggiunto un senso di
integrazione, va cercando una realtà che lo contenga e che lo faccia
sentire di più che solo una voce o qualcosa che si avverte con i sensi, e gli
restituisca il senso di continuità. L’odore della madre, i suoi ritmi di vita,
la sua postura, la sua maniera di muoversi e di comunicare anche solo con
il corpo, contribuiscono in qualche misura a restituirgli il senso di
continuità che ha smarrito con la cesura della nascita (Kumar, 1984). Ciò
che consente, ordinariamente, al neonato di ristabilire la continuità
perduta con la resezione del cordone ombelicale è il seno della madre, e
in particolare il capezzolo che funziona quasi come un secondo cordone
ombelicale.
Nel puerperio la partoriente avverte non di rado il senso di essersi
«finalmente svuotata» e, al tempo stesso, di aver perduto parti importanti
di sé. Solo attraverso un graduale processo di elaborazione di queste
sensazioni, e non senza alternanza tra momenti di fiducia e di
depressione, ella giunge ordinariamente a operare il naturale passaggio
verso la sua nuova condizione materna (Marshall, 2001).
Dopo il parto, attraverso stati d’animo ora fiduciosi e promettenti, ora
negativi, la donna si incontra con la nuova condizione del figlio, e, per
gradi, ha luogo il riconoscimento del medesimo in questa nuova
condizione, successiva a mesi di fantasie le più diverse (Finotti Report,
2003).
Il passaggio dal parto al puerperio può avere uno svolgimento normale,
ma si verificano anche situazioni che assumono connotati di difficile
adattamento alla nuova condizione di madre, tanto da determinare stati di
sofferenza e anche di angoscia, fino a condizioni decisamente
patologiche.
La rilevanza delle situazioni riscontrabili nel post parto non si limita al
disagio e alla sofferenza della madre ma ha una diretta ripercussione sul
neonato e sulla famiglia. Fin dalla nascita il neonato riflette, quasi come
in uno specchio, lo stato d’animo della madre, creando con essa un corto
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circuito che impronta non solo il loro reciproco rapporto, ma che inciderà
anche sul rapporto futuro con il mondo esterno.
Le variazioni che si possono presentare nelle modalità di adattamento
alla nuova condizione materna presentano un’ampia gamma di situazioni
talvolta non sempre felici: queste ultime si diversificano per l’intensità e
la gravità dei disturbi dell’umore. Si tratta di situazioni che possono
sfumare l’una nell’altra come in un continuum, ma che per
semplificazione nosografica sono indicate, in crescendo di gravità, come
baby blues, depressione post parto e psicosi puerperale.
Lo scopo di questa ricerca è stato quello di una revisione sistematica di
quanto oggi sia conosciuto riguardo alla depressione post parto, un
disturbo del tono dell’umore che è noto alle donne nella cultura popolare
praticamente da sempre ma che ha ricevuto attenzione da parte della
comunità scientifica e medica soltanto in tempi relativamente recenti. In
particolare, in questo lavoro, l’attenzione è stata rivolta all’analisi dei
fattori scatenanti di questo disturbo e quello che emerge dagli studi
esaminati è la natura multifattoriale della depressione post parto, i cui
meccanismi eziopatogenetici non sono chiari ma sembrano affondare le
radici in ambiti di natura psicologica, biologica e sociale. Particolare
attenzione è stata dedicata agli studi che hanno indagato il ruolo dei
fattori biologici della malattia, al fine di poter identificare l’esistenza o
meno di parametri facilmente misurabili in grado di prevenire
l’insorgenza della depressione post parto, così deleteria per la madre ed il
bambino.
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Capitolo 1
La depressione post parto
Durante la gravidanza la futura madre è al centro dell’attenzione: tutti si
interessano della sua salute e le raccomandano di riposarsi. Subito dopo il
parto, invece, quando si sente esausta e dolorante, ed ha davvero bisogno
di attenzioni, l’interesse è completamente rivolto al nuovo arrivato. Ma il
cambiamento di prospettiva, che si sposta dalla madre al figlio, è qualcosa
di più profondo: avere un bambino significa perdere una parte di se stessi,
dire addio alla propria infanzia ed assumere una serie di comportamenti
legati al nuovo ruolo.
Avere un figlio rappresenta un enorme cambiamento di vita, oltre che di
identità, ed è impossibile evitare una rivoluzione altrettanto imponente
nell’ambito delle proprie emozioni. Non è azzardato dire che la madre
rinasce con il proprio figlio: il parto è una delle iniziazioni della vita
(Marshall, 2001). La gravidanza, il parto e la cura della prole comportano
un tremendo sconvolgimento fisico ed emozionale: un evento cui il corso
di preparazione al parto non prepara affatto. La gravidanza costituisce per
la donna un banco di prova tra i più impegnativi, dato l’impegno
biologico e di elaborazione psichica che l’evento, pur racchiuso entro
limiti cronologici ben precisi, comporta. Costituisce, altresì, un banco di
prova nel progetto di vita della coppia, quale naturale evoluzione
maturativa di quest’ultima (Heron et al., 2004).
Si tratta di un evento che, pur accadendo in un tempo preciso, prende le
mosse da molto lontano, riassumendo in sé l’incidenza di varie
componenti, quali le famiglie di origine dei due partner, la loro storia
biologica e psichica, l’ambiente socio-culturale in cui sono cresciuti: tale
evento assume, pertanto, una complessità e una singolarità del tutto
peculiari, che rimandano a molti possibili punti fragili.
Tutto in gravidanza avviene all’insegna di modificazioni vistose, non
paragonabili, per la loro portata, a quelle caratterizzanti altre epoche di
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passaggio della vita femminile quali, ad esempio, l’adolescenza e la
menopausa, che si dipanano in tempi più lunghi. Da un punto di vista
biologico l’organismo diventa un laboratorio che si attiva in modo
eccezionale per garantire lo sviluppo del nuovo individuo, per realizzare
una serie di aggiustamenti alle nuove esigenze, per creare, tra l’altro, lo
spazio fisico necessario alla gravidanza medesima, attraverso una
trasformazione corporea veramente importante. A tale intenso lavoro
biologico fa riscontro una mobilitazione psichica molto impegnativa, che
deve affrontare la nuova realtà, ma anche fronteggiare il riapparire di
conflitti del passato, in una situazione di aumentata permeabilità tra la
sfera somatica e l’aspetto mentale, con riverberazioni e interferenze
reciproche fra tali piani (Finotti Report, 2003). La struttura personale
della donna è, dunque, coinvolta a tutti i livelli nell’esperienza della
gravidanza: a livello biologico e fisiologico, a livello psicologico e
psicodinamico, ma anche a livello relazionale e spirituale. La gravidanza,
infatti, incide su tutte le relazioni che la madre vive: su quella con se
stessa e col partner, ma pure su quelle attinenti alla famiglia, alle
amicizie, al lavoro; soprattutto, peraltro, essa investe la relazione col
figlio che la madre ha in sé, e non semplicemente davanti a sé: caso –
unico – in cui un individuo contiene in sé un altro individuo; dunque, caso
degno di specialissima attenzione e sostegno da parte della società, anche
in quanto prototipo di ogni relazione intima o di cura. Per questi aspetti la
gravidanza rimanda a ciò che supera il vedere, il toccare, il sentire
emotivamente, vale a dire a una realtà (la si potrebbe definire misterica)
che non è possibile possedere, delimitare, dominare in modo pieno. La
gravidanza e con essa il puerperio e l’allattamento rappresentano, quindi,
una sequenza di eventi che sono fin dall’inizio biologici, psicologici e
relazionali. Ora, mentre gli eventi biologici hanno una sequenza per lo più
prevedibile e relativamente omogenea, gli eventi psicologici e relazionali
si inseriscono nella vicenda esistenziale della persona coinvolta,
configurandosi in tal modo secondo una variabilità assai estesa. Date
queste premesse, si è soliti considerare la gravidanza, specie la prima
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gravidanza e la gravidanza nella sua prima fase, come momento di crisi,
intendendosi per crisi l’insieme dei cambiamenti che si verificano in
concomitanza con alcuni eventi nodali della vita. Sotto l’influenza di fatti
biologici e psicologici, tra loro complementari e interattivi, si realizzano,
durante la gravidanza, trasformazioni sostanziali proprio rispetto ai fattori
strutturanti l’organizzazione della personalità. La gravidanza, pertanto,
costituisce una fase critica della vita, nella quale lo sviluppo psicologico è
chiamato, in certa misura, a mutare direzione, il che comporta una sorta di
ripresa nella crescita individuale: si tratta, conseguentemente, di una fase
ricca di innumerevoli potenzialità evolutive, ma nel contempo aperta a
rischi che non vanno sottovalutati (Kumar et al., 1984).
Per la donna la gravidanza non è sempre un periodo felice: infatti la
labilità emozionale che ne è caratteristica, costituisce un rischio per lo
sviluppo di disturbi psichiatrici in questo periodo (Boidi, 2003). Oltre ai
cambiamenti fisici bisogna tener conto dei cambiamenti psicologici e
sociali relativi a questo periodo; a cominciare dal rapporto con la propria
madre. Secondo Bibring (1961) la gravidanza rappresenta una crisi
maturativa che porta ad una posizione nuova, non identica a quella vissuta
in precedenza. Come crisi maturativa (simile alla crisi adolescenziale e
alla menopausa) la gravidanza implicherebbe regressione, allentamento
delle difese, modifiche nell’organizzazione del senso di sé, nuove
identificazioni, disponendosi la donna a vivere “nel figlio”, visto come
oggetto/sé poi come oggetto separato da sé. L’autrice ritiene cruciale il
momento in cui la donna comincia ad avvertire i movimenti fetali, che
coincide con quella che Winnicott indicava come la fase della
“preoccupazione materna primaria”, e che vedeva estesa anche ai primi
mesi della vita del figlio (Llewellyn et al., 1997).
Pines (1990), accettando la tesi di Bibring secondo cui alla gravidanza
corrisponderebbe una crisi maturativa della donna, sottolinea che, specie
nella prima gravidanza, verrebbe rivissuto e completato il processo di
separazione-individuazione dalla propria madre. Se il rapporto con la
propria madre non è stato buono si riaccendono antichi dolori. Non conta
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tanto se l’infanzia è stata buona o cattiva, ma se è stato portato a termine
il processo di riconciliazione.
La nascita di un bambino può costituire un processo di crescita ma anche
un processo di illusoria riparazione o, peggio ancora, di coazione a
ripetere magari situazioni penose, che si ritengono adatte ma che, invece,
sono solo ripetizioni di situazioni passate vissute con la propria madre.
Ogni parto porta con sé illusione e disillusione: il feto muove speranze e
paure, come le paure tipiche di una neo mamma riguardo alla salute del
neonato e le speranze di riuscire ad essere un buon genitore (Ferroni,
2003).
Poiché la nascita è socialmente considerata come un evento portatore di
gioia e come la prima realizzazione del ruolo femminile tradizionale, a
volte una donna si sente confusa, imbarazzata e colpevole se non si
conforma allo stereotipo della mamma felice e può, così, accadere che
tenga per se stessa oscuri sentimenti (Unterman, Posner & Williams,
1990). “Lo amo veramente ma ho immaginato di gettarlo fuori dalla
finestra”. Questo tipo di pensieri sembrano non essere atipici nel caso di
neo mamme depresse. Anche la paura, talvolta, di rimanere da sole con il
neonato sembra derivi proprio da un più grande carico di responsabilità
da assumersi e dalla paura di poter fare del male all’infante (Jennings et
al., 1999).
Durante il periodo post parto, le norme socioculturali dei Paesi
occidentali si aspettano che le nuove madri si conformino alla maternità
attraverso una serie di “scalini”, dall’interdipendenza all’indipendenza
(Unterman et al., 1990). Purtroppo non tutte le madri sono abili in ciò e
così questo periodo richiede adattamenti psicologici, fisiologici e sociali.
Infatti molte madri percepiscono la loro esperienza del parto come
traumatica e questo sembra incrementare il rischio di disordini psicologici
inclusi disordini da stress.