5
giornalismo e alla letteratura, come Richard Rorty di La filosofia dopo la filosofia
1
non
si stanca di ripetere. È questo eclettismo interdisciplinare che Dennett intende seguire
quando attinge gli esempi delle sue riflessioni dai campi delle scienze naturali fino a
quelli delle scienze umane. È suo proposito compiere un’utile trasposizione di termini e
concetti dalle une alle altre e viceversa poiché ritiene che una soddisfacente teoria
filosofica della mente debba, con risposte coerenti, fungere da base e completamento
delle teorie neurofisiologiche o psicologiche.
I suoi diretti antagonisti, quelli con i quali apre un esplicito dibattito, sono
principalmente Searle e Penrose
2
. Il primo difende un’intenzionalità umana intrinseca e
non riproducibile, il secondo ritiene possibile una spiegazione scientifica della mente
ma non nei termini che ci vengono offerti dalla scienza attuale. Entrambi sostengono, in
ogni caso, che la mente non sia computabile, che non sia un algoritmo.
Lo sfondo in cui collocare un autore come Dennett è dunque il dibattito fra coloro che
ritengono la mente computabile e riproducibile, almeno in linea di principio, e coloro
che affermano invece il contrario: che vi sia un aspetto irriducibile a contrassegnare
un’intelligenza considerata autenticamente umana. Dennett si schiera nettamente con i
primi, ma le due posizioni non sono ovviamente omogenee al loro interno; si tratterà
quindi di comprendere il senso peculiare che l’autore assegna alla propria tesi.
Dennett si dichiara profano sostenitore dell’ Intelligenza Artificiale e convinto
assertore dell’origine evolutiva della mente. Ritiene che gli stati mentali siano
suscettibili di una spiegazione meccanicistica e che il flusso di coscienza, lineare e
continuo, sia solo un’illusione, una costruzione mentale priva di un referente.
1
Richard Rorty, Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge, 1989, Cambridge University Press; trad.
It. La filosofia dopo la filosofia – contingenza, ironia e solidarietà, Roma, 1989, ed. cons. 1998, Laterza.
2
John Searle, The Rediscovery of the Mind, Cambridge, Mass., 1992, MIT Press; trad. It. La riscoperta
della mente, Torino, 1994, Bollati Boringhieri.
Roger Penrose, The Emperor’s New Mind: Concerning Computers, Minds and the Laws of Phisycs;
Oxford, 1989, Oxford University Press; trad. It. La mente nuova dell’imperatore, Milano, 1992, Rizzoli;
The Shadows of the Mind, Oxford, 1994, Oxford University Press; trad. It. Ombre della mente, Milano,
1996, Rizzoli.
6
L’atipico fisicalismo di Dennett spazia dal cognitivismo al funzionalismo al
materialismo. Sono molti gli aspetti cognitivisti: la visione della mente umana come un
elaboratore attivo d’informazioni trasmesse tramite gli organi sensoriali; la rivalutazione
di un certo tipo di introspezione (vedremo a riguardo il suo metodo
dell’eterofenomenologia); la tipica predilezione per i modelli nell’interpretare aspetti
circoscritti del funzionamento mentale. Ciò che Dennett non condivide con il
cognitivismo è l’innatismo proprio della sua corrente maggioritaria, il cui esponente più
insigne è Noam Chomsky
3
. In risposta Dennett sostiene una tesi più vicina al
funzionalismo, che vede nei processi mentali coscienti la massima espressione
dell’adattamento biologico. Funzionalista è anche il suo riconoscimento di una qualche
realtà per gli stati mentali, almeno ad un certo livello.
Il suo materialismo infine si qualifica di un tipo diverso rispetto a quello della Identity
Theory, che affermava una stretta identità fra stati fisici e stati mentali, privando
quest’ultimi di qualunque statuto ontologico
4
. Dennett si dice non soddisfatto da un tale
tipo di monismo e nota come tale teoria abbia dalla sua soltanto il merito di evitare
rigonfiamenti ontici e l’implausibilità delle ipotesi alternative. Per questo motivo tenta
di tenere i piedi su più staffe dichiarandosi, all’occorrenza, un funzionalista delle
repliche, un intenzionalista dei tipi e, alle volte, un materialista eliminativo.
Il funzionalismo fondato sulle Macchine di Turing proponeva una riduzione dei
predicati mentali dapprima a predicati fisici e poi a predicati di una Macchina di Turing.
In altre parole sosteneva l’identità delle repliche (ogni particolare evento mentale è
identico ad un particolare evento fisico) e il funzionalismo dei tipi (ogni tipo mentale è
identificabile con un tipo funzionale nel linguaggio della Macchina di Turing)
5
. Non si
3
Noam Chomsky, Language and Problems of Knowledge: The Managua Lectures, Cambridge, Mass.,
1988, MIT Press; trad. It. Linguaggio e problemi della conoscenza, Bologna, 1991, il Mulino.
4
Esponenti della Identity Theory sono U. T. Place, H. Feigl e J. J. C. Smart.
5
Tipo – Type: “Nel senso di modello, forma o schema o insieme collegato di caratteristiche che può
essere ripetuto da un numero indefinito di esemplari >… ≅ Pierce ha inteso per type una parola o un segno
7
trattava dunque di un’identità type-type ma di una token-token: non si considera ogni
tipo di stato mentale identico ad un determinato tipo di stato fisico, bensì una particolare
occorrenza o replica mentale identica ad una particolare occorrenza fisica.
La variante che Dennett suggerisce è il funzionalismo delle repliche: ogni singolo
evento mentale, ogni occorrenza, è un evento sia fisico che funzionale. I tipi mentali
però non sono definibili come tipi di una Macchina di Turing a causa del loro aspetto
intenzionale. Caratterizzare come intenzionale ogni tipo di evento mentale è ridurlo in
un dominio ben definito di entità, operazione che Dennett definisce intenzionalismo dei
tipi.
Con ciò Dennett ammette che gli stati mentali abbiano influenze fisiche (rifiuto
dell'epifenomenalismo), ma ritiene che da questo a proporre una loro totale riduzione a
stati fisici il passo sia grande. La riduzione è un obbiettivo sbagliato.
2. LE GRU DELL’EVOLUZIONE
La regola guida della sua indagine è espressa dalla metafora delle gru contro ganci
appesi al cielo. Dennett spiega così la distinzione:
Con gancio appeso al cielo si intende un processo, un potere o una forza che
sottintendono la presenza iniziale di una mente, un’ eccezione al principio che ogni
progetto, e tutto quanto appare come un progetto, sia in ultima analisi il risultato di una
meccanicità in cui non entrano in gioco né menti né motivi. Una gru, di contro, è un
sottoprocesso o una particolare caratteristica di un processo di progettazione, di cui si può
che non è una cosa singola o un singolo evento ma una ‘forma definitivamente significante’ che per
essere usata deve prender corpo in un token che deve essere il segno di un type e perciò dell’oggetto che il
type significa.” (Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1993, Tea, pag. 876).
Replica - Token: Così Pierce ha chiamato “un singolo evento il quale accade una volta sola e la cui
identità è limitata a quell’unico accadimento o al singolo oggetto o cosa che è in un singolo spazio in un
unico istante di tempo”. (Ivi pag. 431). Per esempio quando si dice che la parola ‘il’ ricorre venti volte
nella data pagina di un dato libro si intende per ‘il’ il token; ma quando si parla dell’articolo ‘il’ nella
lingua italiana si parla di un tipo.
8
dimostrare sia che permette l’accelerazione locale del lento processo di base della
selezione naturale, sia che è esso stesso il prodotto prevedibile (o spiegabile a posteriori)
del processo di base.
6
Siamo di fronte ad una distinzione che ricorda la differenza fra metodo filosofico e
metodo religioso. Con gancio appeso al cielo Dennett intende il deus ex machina, una
soluzione ad hoc escogitata apposta per sciogliere dilemmi che paiono insolubili.
Assumere un gancio appeso al cielo come un dato di fatto è lo stratagemma attraverso il
quale risolvono questioni filosofiche i fautori della creazione e di una verità rivelata,
contrariamente ad ogni teoria evolutiva.
Dennett, al contrario, dice di volersi attenere ad un rigore filosofico deduttivo: le gru
sono piedistalli che segnano un punto di arrivo e, al tempo stesso, una base dalla quale
derivare gli elementi futuri, come risultati che fungono da basi per altri risultati. Le
storie di Dennett vogliono essere quindi lunghe catene di tali collegamenti, interminabili
sovrapposizioni di gru senza salti o interruzioni, all’interno delle quali ogni passo derivi
dal precedente e preceda il successivo in modo evidente.
Etica, arte e scienza sono delle gru, strutture evolutive che mettono l’uomo in grado di
far fronte alle circostanze poste dall’ambiente; Dennett dice che alcune di esse, come ad
esempio la legge o l’ingegneria genetica, sono edificate appositamente per avere la
funzione di gru, altre, come l’erotismo, pur avendo agli effetti la stessa funzione, non ne
sono stati dotati di proposito, non vi si esauriscono, non trovano in essa la loro ragion
d’essere. Riguardo gli stati mentali prescrivere di fare affidamento esclusivamente su
delle gru, equivale, per lui, ad assumere un atteggiamento di neutralità ontologica, ossia
quello di non fare presupposizioni circa lo statuto ontologico degli stati mentali, né circa
la loro identità con stati fisici. Intende trattare gli stati mentali come significanti, ovvero
6
Daniel Clement Dennett, Darwin’s Dangerous Idea. Evolution and the Meanings of Life, New York,
1995, Simon and Schuster; trad. It. L’idea pericolosa di Darwin, Torino, 1997, Bollati Boringhieri, pagg.
94-95.
9
come dotati di contenuto, senza concedere loro, fin dall’inizio, un’esistenza a se stante,
dello stesso grado di quelli fisici.
Il problema ontologico è per lui il primo passo nel tentativo di comprendere la mente.
Ritiene che nel compierlo, sia utile e onesto porsi di partenza in modo neutrale e, prima
di asserirne una qualunque caratteristica, vedere se questa è evidentemente derivabile da
risultati più certi di altre analisi. Nel caso della coscienza, secondo Dennett, si tratterà di
non partire da quello che per noi è un dato di fatto, il senso del suo flusso, ma di
cominciare ad analizzarla sulla base di conoscenze meno incerte riguardo altri fenomeni
più noti, come i meccanismi della percezione e dell’apprendimento. Nessuna ontologia
della mente può essere postulata o assunta, ma dovrà emergere solo a seguito dei
risultati evidenti che saranno ottenuti. Si tratta insomma di non porre la mente, quanto,
casomai, di derivarla. Con un tale disimpegno ontologico l’analisi si sposta dal piano
delle cose a quello del linguaggio con il quale parliamo delle cose. Proposta di neutralità
ontologica e metafora delle gru contro i ganci appesi al cielo possono essere considerate
un invito di Dennett a frenare quanto più possibile le illazioni gratuite e a basarci solo
sui dati in nostro possesso.
I dati meno opinabili sono per lui quelli offerti dall’idea di selezione naturale,
principio meccanicistico e indipendente da scopi e significati. Darwin è il riferimento
principale di Dennett. Nonostante abbia ben presenti le insensatezze alle quali ha dato
origine una trasposizione delle idee darwiniane circa l’origine della specie in ambito
sociopolitico, l’analisi alla quale Dennett sottopone i suoi argomenti è sempre di tipo
evolutivo (inteso per selezione naturale). L’aspetto più pericoloso dell’idea di Darwin
infatti è che sembra adattarsi bene a qualunque tipo di esempio anche non strettamente
attinente all’origine della vita, bensì più umano, come l’origine di società, cultura, etica,
rischiando di dar luogo a fraintendimenti semplificazionistici o ricostruzioni a
posteriori elaborate ad hoc. Dennett vuole usare il darwinismo solo come filtro
10
demistificatore di molte nostre convinzioni, che non devono essere per forza scardinate,
ma ripulite da molteplici illazioni gratuite. Secondo Dennett l’idea di Darwin, come un
solvente universale, ha inciso a fondo su ogni cosa. Ciò che ci rimane sono le nostre
idee più importanti su basi meglio fondate.
…anche le conquiste della cultura umana - il linguaggio, l’arte, la religione, l’etica, la
scienza stessa- sono tutte il prodotto (del prodotto del prodotto…) dello stesso processo
fondamentale che ha fatto sviluppare i batteri, i mammiferi e l’Homo sapiens.
7
Ciò che più gli preme sottolineare è come l’ idea di selezione naturale sia all’opera in
più livelli dell’esistenza, ovvero come sia riscontrabile il medesimo meccanismo sia
nella competizione fra specie che in quella fra geni, fra messaggi neuronali e perfino fra
eventi mentali comunemente intesi. In altri termini Dennett asserisce che ogni volta che
una specie, un gene, un messaggio neuronale o perfino uno stato mentale emerge e si
afferma sugli altri deve essere intervenuto quel medesimo principio che prevede la
sopravvivenza del più adatto: tramite rinforzi si selezionano le coppie stimolo-risposta
adattative, mentre le altre si estinguono non riuscendo a riprodursi. Dunque anche la
coscienza è un prodotto evolutivo di un progetto di sviluppo privo di una mente.
Ci troviamo dichiaratamente su posizioni riduzioniste, ma di un tipo relativamente
blando. Così lo definisce Dennett:
Il riduzionista avido pensa che sia possibile spiegare qualsiasi cosa senza aver bisogno di
gru; il buon riduzionista pensa che sia possibile spiegare qualsiasi cosa senza aver
bisogno di ganci appesi al cielo.
8
Per comprendere la sua posizione dovremo approfondire i suoi presupposti, la sua
interpretazione darwiniana, il suo concetto di sistema intenzionale e cosa intenda per
intenzionalità umana derivata, quali modelli decisionali e di apprendimento fornisca e
7
D. C. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin cit., pag. 182.
8
Ivi pag. 102.
11
quale sia il significato dell’introduzione di entità ipotetiche dette memi per spiegare
l’evoluzione della cultura.
Dopo aver approfondito il senso della sua naturalizzazione della coscienza vedremo
quali risvolti etici questa comporti. Chiariremo perché, secondo Dennett, l’etica non sia
naturalizzabile allo stesso modo e, per quanto tale sfera sia marginale nella sua
argomentazione, noteremo come la soluzione che propone ai problemi etici, il Manuale
di Pronto Soccorso Morale, contraddica tale non riducibilità.
3. NEUTRALITA’ ONTOLOGICA E CONTESTI REFERENZIALI DEL
VOCABOLARIO MENTALE
Dennett si propone di affrontare ogni argomento da un punto di vista quanto più
possibile neutrale, evitando di presupporre ciò che si propone di spiegare; non intende
fare assunzioni circa la realtà prima di averne delineato alcuni tratti. La sua bandiera è il
non dare per scontato alcunché, pena un circolarità che descrive l’oggetto su misura di
ciò che ci si aspetta, o di ciò che si spera, o di ciò che si crede.
All’interno del dibattito sul Mind Body Problem Dennett vuol mettere in discussione
l’ovvietà dell’assunzione iniziale che esistano corpi ed eventi fisici da un lato e menti ed
eventi mentali dall’altro. Ciò non significa che dopo attenta analisi tale assunzione non
possa rivelarsi giustificata, si tratta solo di applicare anche ad essa il metodico dubbio
cartesiano.
Considerando mente e corpo due ontologie diverse sorge la questione di come sia
possibile che interagiscano: come può qualcosa di non corporeo avere influenze fisiche?
L’unico sistema per sfuggire al dualismo sembra quello di accordare priorità ontologica
ad una delle due parti. Ma tale priorità, secondo Dennett, conduce dritto dritto ad un
12
riduzionismo che le confonde. Dennett dunque non intende sottoscrivere una teoria
dell’identità, ma soltanto suggerire l’opportunità di iniziare l’analisi da una posizione di
neutralità ontologica.
Questa posizione è paragonata all’epochè dei fenomenologi, ossia la messa tra
parentesi delle implicazioni esterne del mondo reale. Con essa non si opera una
divisione ontologica tra fenomeni o entità, ma si intende solamente classificare le cose
che diciamo in differenti categorie, permettendo di rinviare temporaneamente la
decisione su quale configurazione ontologica debba assumere una teoria della mente
9
.
Sotto questa luce parlare di mente e corpo significa semplicemente riferirsi a due
vocabolari diversi, per cui qualunque tentativo di identificazione risulta un errore di
categoria
10
.
La distinzione fra mente e corpo come una distinzione di categorie logiche e
l’identificazione dei due come errore categoriale erano già state considerate da Gilbert
Ryle
11
; l’analisi di Dennett intende compiere un passo ulteriore. Ritiene che il parlare di
9
Vedremo meglio in seguito come tale divisione coincida, per Dennett, con la distinzione fra enunciati
intensionali ed estensionali – in proposito si veda: R. Carnap, la teoria dell’estensione (pragmatica,
analitica) e la teoria dell’intensione (semantica, di significato) - in Meaning and Synonymy in Natural
Languages, 1955, in “Philosophical studies”, vol. 6, n. 3, pagg. 33-47; ristampato in appendice a R.
Carnap, Meaning and Necessity, II ed. Chicago, 1956, University of Chicago Press; trad. It. Significato e
sinonimia nei linguaggi naturali, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano,
1973, ed. cons. 1978, Bompiani. W. V. O. Quine, la teoria del riferimento e la teoria del significato - in
Meaning and Translation, in R. A. Brower (a cura di), On Translation, Cambridge, Mass., 1959, Harvard
University Press; trad. It. Significato e traduzione, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del
linguaggio cit.
10
Per quanto riguarda i termini comuni dell’inglese è chiaro cosa significhi errore di categoria poiché è
facile distinguere i contesti in cui tali termini possono comparire significativamente da quelli in cui ciò
non è possibile.Vi sono poi termini la cui portata contestuale è ristretta ad una sola possibilità e che
figurano in locuzioni non scindibili nei loro singoli elementi. Dennett riporta sake in ‘for the sake of’ (per
amore di) o behalf in ‘on my behalf’ (nel mio interesse) o ancora dint in ‘by dint of’ (a furia di) -alcuni di
questi esempi sono ripresi da Quine-. In questi casi sottoporre tali locuzioni alla stessa analisi
grammaticale alla quale sottoponiamo strutture sintatticamente simili, come ad esempio ‘per la madre di’
o ‘nel mio ufficio’, è un errore di categoria che dimostra niente più che una poca familiarità con un
determinato linguaggio. W. V. O. Quine (Word and Object, Cambridge, Mass., 1960, MIT Press; trad. it.
Parola e oggetto, Milano, Il Saggiatore, 1970) ritiene che anche termini teorici come i nomi per le unità
di misura (miglio o grado Fahrenheit) vadano intesi come parti di locuzioni idiomatiche piuttosto che
nomi che individuano entità fisiche. Dennett si chiede se sia possibile evidenziare errori di categoria in
modo analogo a quanto fatto con i termini comuni anche con i termini mentali, corroborando la Identity
Theory.
11
Gilbert Ryle, The Concept of Mind, Londra, 1949, Hutchinson; trad. It. Lo spirito come
comportamento, Torino, 1955, ed. cons. 1982, Einaudi.
13
due diverse categorie, non evidenziando la loro correlazione e tacendo gli ambiti in
comune, non riesca a eludere la questione dell’identità. Piuttosto che fra categorie, una
referenziale e una no, Dennett preferisce sottolineare la distinzione fra contesti
referenziali o meno nei quali uno stesso termine del vocabolario mentale può ricorrere
con funzione diversa
12
.
Stabilire l’esistenza di qualcosa, per Dennett, significa essere in grado di porre
determinate domande a riguardo e di aspettarsi un certo tipo di risposte: dire che x esiste
significa avere la capacità di inserirlo in una categoria o in un determinato contesto e
quindi poterlo individuare, distinguere da qualche altra cosa, farlo emergere da uno
sfondo indistinto.
Dennett nota come, generalmente, i termini che denotano oggetti concreti godano di
una maggiore portata contestuale rispetto a quelli che denotano oggetti astratti, ovvero i
primi si adattano a contesti dei più svariati, mentre i secondi sono soggetti a forti
restrizioni. Mentre ad esempio una mela può essere colta, mangiata, sbucciata, odorata,
ma anche sognata o dipinta, un oggetto astratto come una speranza può al limite essere
nutrita o espressa.
Secondo Dennett deriva probabilmente da questa distinzione la nostra tendenza a
concedere uno statuto ontologico più solido e indubbio al concreto piuttosto che
all’astratto. In altre parole: a quanti più contesti un nome si adatta tanto più l’entità
corrispondente ci apparirà reale. Lo status ontologico degli oggetti fisici risulta essere il
criterio in base al quale valutiamo il grado di realtà di tutti gli altri.
12
Il problema è che Dennett sembra avere dati per scontati quali siano i termini che caratterizzano il suo
vocabolario mentale. Non si trova una distinzione chiara e non equivocabile dei termini sui quali vuol
concentrare l’attenzione. All’inizio parla di termini come pensiero, desiderio, dolore, poi tirerà in ballo
termini quasi–mentali come le voci per giungere a termini che non sono termini, come quando,
distinguendoli dai termini teorici astratti come miglio o da quelli ovviamente non referenziali come
centauro. Dennett dice solo di assumere che tutti i termini del vocabolario mentale sono non referenziali e
che fra di essi concentra l’attenzione non su quelli denotanti cose mitiche o estinte, ma su quelli che
possono trovarsi sia in contesti referenziali che non.
14
Dennett ritiene che la linea di confine fra esistente e non esistente sia arbitraria, non si
tratterà dunque di trovare il criterio per compiere la distinzione, ma di assumerne uno.
Solo in seguito a tale assunzione l’arbitrarietà cede il passo ad un confine ben definito
da rispettare. Il criterio scelto da Dennett corrisponde alla dicotomia fisico/non fisico,
referenziale/non referenziale, ovvero assume un senso restrittivo per il concetto di
esistenza: un termine si riferisce a qualcosa di realmente esistente se denota un oggetto
fisico. Dice:
Chiamerò referenziali i nomi o le forme nominali che denotano o nominano o si
riferiscono a cose esistenti (nel senso forte indicato sopra) e non referenziali altri nomi o
forme nominali come amore (sake), miglio e voce.
13
I termini non referenziali, secondo Dennett, sono quelli che dipendono da contesti
limitati, che non possono legittimamente comparire in contesti d’identità e che non
hanno forza ontica. Ciò significa che non è necessario che la loro occorrenza all’interno
di un enunciato implichi l’esistenza di un corrispettivo fisico denotato attraverso il
termine.
L’ostacolo incontrato con questo tipo di classificazione è costituito da quei termini non
così immediatamente inseribili in una delle due categorie (referenziale/ fisico/esistente
o non-referenziale /non-fisico/non esistente). L’esempio approfondito da Dennett, per
chiarire questo ostacolo, è quello del termine ‘voce’: come si può individuare
fisicamente cos’è una voce se vi sono difficoltà perfino nel decidere in quale senso la
13 D. C. Dennett, Content & Consciousness, Londra, 1969, Routledge & Kegan Paul; trad. It. Contenuto e
coscienza, Bologna, 1992, il Mulino, pag. 29. Poco dopo Dennett dice:
“Così, ‘in attesa’ è sincategorematico (non referenziale) in ‘madre in attesa’, poiché la classe delle madri
in attesa non è la sottoclasse delle madri che attendono. La distinzione che cerco di sottolineare non è
quella fra ‘cavallo’ e ‘centauro’ (ci sono i cavalli ma non ci sono i centauri; in questo caso centauro è non
referenziale); bensì quella tra ‘cavallo’ e ‘quando’. Quando è non referenziale nel mio senso; il che non
significa che i quando siano mitici o estinti; Quine direbbe che quando non è un termine.” (Ivi pag. 30)
Secondo Dennett l’analisi fisica di quando non è pertinente per i contesti in cui tale termine ricorre.
Dennett preferisce adottare la dicitura non referenziale piuttosto che sincategorematico, poiché
quest’ultimo, come mostra la citazione, si riferisce ad aggettivi più che a nomi; il senso delle due diciture
può comunque essere considerato analogo.
15
mia voce nel momento in cui parlo e la mia stessa voce incisa su un nastro siano
considerabili la medesima?
Da una parte l’applicazione del termine ‘voce’ a più contesti diversi
14
ne fa un termine
concreto e reale (esistente); eppure, da un’altra, non appena tentiamo di identificare
‘voce’ con qualcosa di fisico, di individuarne un referente, come la laringe o le corde
vocali, dobbiamo constatare che lo scambio dei due termini, che si presuppongono
codesignanti, non preserva l’identità del significato (ad esempio parlare di una ‘voce da
tenore’ e di ‘corde vocali da tenore’ non è la stessa cosa, come pure parafrasare “John
sforzava la sua voce” con “x sforzava y”). In questi casi, secondo Dennett, ad essere
ambiguo non è il termine in questione, ma ciò che vogliamo derivarne: una sua
identificazione fisica. Se in un determinato contesto un termine non ha referente
sottoporlo ad analisi fisica è una mossa scorretta. Chiedere a quale cosa fisica è identica
una voce è una domanda fisicamente malformata, cioè incapace di avere risposte, una
confusione di contesti
15
. Una volta definiti i limiti di significatività non vi è necessità di
aspettarsi un corrispettivo fisico per concedere realtà al termine.
Ma, dunque, se il termine ‘voce’, soddisfacendo diverse funzioni, si adatta a più
contesti e non alla dicotomia fisico/non fisico, in che senso si dice che l’oggetto al quale
si riferisce esiste, di quanti tipi di esistenza gode?
Quali distinzioni ontologiche dobbiamo associare alle distinzioni della funzione verbale
che abbiamo esaminato? In breve: esistono voci?
16
Ciò equivale a chiedersi se quello che rimane fuori dalle spiegazioni scientifiche esista
davvero. Secondo Dennett rispondere di sì ci rigetta nel dualismo, mentre rispondere di
14
Si pensi a casi come ‘perdere la voce’ o ‘affaticare la voce’ in cui il termine sembra riferirsi a una parte
del corpo, oppure a casi come ‘udire una voce’ o ‘riconoscere una voce’ in cui sembra più un complesso
di vibrazioni, dice Dennett.
15
Dennett si chiede se un enunciato come ‘posso sedermi su un’opportunità’ sia logicamente falso (e
dunque è vera la sua negazione) o solo malformato (e quindi né vero né falso). Secondo Dennett finché
continuo a parlare di mente e corpo come di due categorie distinte considererò tale enunciato
logicamente falso. Solo parlando di contesti diversi posso interpretarlo come malformato, ovvero con
disarmonie contestuali. Tale risposta, per quanto controintuitiva, è per lui più fruttuosa dell’altra.
16
Ivi pag. 25.
16
no, per quanto controintuitivo, ha il vantaggio di scartare le domande della fisica che
richiedono identità: se ammetto che non esistono voci assolvo il fisico dal doverle
identificare con qualcosa del suo dominio; la non referenzialità esclude il termine dal
cadere sotto la consueta classificazione fisicalista.
Grazie all’assunzione di non referenzialità di tutto il vocabolario mentale Dennett
ritiene di poter sfuggire alla morsa costituita dall’alternativa fra dualismo e identità,
poiché se il termine ‘voce’ è ritenuto referenziale, cioè se si ammette l’esistenza fisica
delle voci, dovrò scegliere se considerarlo identico ad un corrispettivo fisico (teoria
dell’identità) o qualcosa di irriducibilmente diverso (dualismo).
Assumendo che tutti i termini del vocabolario mentale siano referenziali ci ritroviamo
al bivio costituito da identità o dualismo e assumendo che si tratti di termini in parte
referenziali e in parte no rimarranno ancora da indagare i corrispettivi fisici dei primi.
Solo assumendo la non referenzialità di tutti i termini mentali si evita il rigonfiamento
ontico e ci si trova in una posizione, almeno in questo primo momento, più semplice. La
non referenzialità è dunque assunta da Dennett poiché le alternative sembrano peggiori:
più che proporre la non referenzialità intende rifiutare la referenzialità.
Non si tratterà di costringere i termini all’interno della categoria mentale o all’interno
della categoria fisica, bensì di definire i diversi contesti nei quali lo stesso termine
assolve funzioni diverse, e, in virtù di tale definizione, dichiararlo referenziale in uno e
non in un altro; in altre parole si considereranno i contesti referenziali in cui tale termine
compare.
Per stabilire la referenzialità o meno di un contesto in cui figura un termine del
vocabolario mentale il metodo suggerito da Dennett è la saldatura a titolo di prova.
Con essa tutti i termini di un enunciato, mentali e non, vengono saldati, a titolo di
prova, fino a costituire un tutto indivisibile; si suppone cioè che un enunciato che
contiene termini mentali sia significante nella sua totalità, ossia vero o falso, senza che
17
sia necessario, per ora, indagare la significanza delle sue singole parti. Il compito sarà
proprio vedere se tali parti siano riconducibili alla semantica standard, ovvero se la
saldatura che le tiene insieme possa essere attenuata (nel caso in cui vi sia la possibilità
di una soddisfacente analisi fisica, e referenziale, delle parti) oppure mantenuta (nel
caso in cui l’analisi delle singole parti non facesse chiarezza adeguata sul senso
dell’enunciato conducendo a confusioni concettuali).
In nota Dennett spiega così la sua operazione:
…partiamo col trattare gli enunciati al modo dei p e q del calcolo proposizionale; il punto
che ci troviamo ad affrontare è quindi se le loro parti possono essere portate sotto i
quantificatoti del calcolo dei predicati (concepito, alla maniera di Quine, vincolante
all’impegno ontologico)
17
.
Se ad esempio dico “x sforzava la sua voce”, considererò ‘sforzare la voce’ un unico
contesto, una locuzione indivisibile che impedisce un’ulteriore analisi delle parti. Da
notare che il tipo di analisi qui proibito è solo quello fisico: la saldatura limita gli
approcci solo da un punto di vista, quello referenziale. Ciò significa che non si esclude
la possibilità di costruire una logica o una semantica per le locuzioni saldate, ma non
saranno considerabili estensioni della logica e della semantica standard, bensì di tipo
diverso, nel migliore dei casi parallelo. Ciò su cui Dennett insiste è che trattare come
unità minima analizzabile un intero enunciato ci permette di sospendere la questione
della referenzialità dei termini mentali, il che, a sua volta, ci evita di dover scegliere fra
dualismo o identità, dal momento che garantisce a Dennett l’assoluzione ontologica
evitando una conseguente classificazione in fisico e mentale.
La teoria fisicalista cui Dennett vuol pervenire, dunque, ammette l’identità solo per
determinati contesti di alcuni termini mentali: non c’è alcun bisogno per una teoria
fisica che la voce abbia un corrispettivo fisico. Ciò che un fisicalismo plausibile deve
pretendere non è l’identità del termine ‘voce’ con un costituente fisico, ma solo la
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possibilità “di spiegare, parafrasare o correlare, in qualche altro modo, tutto quanto si
può dire sulle voci con enunciati che vertono solo su cose fisiche”
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Dennett ricerca quindi la possibilità di correlare in modo esplicativo enunciati del
vocabolario mentale con enunciati tratti esclusivamente dal dominio referenziale delle
cose fisiche al fine di poter considerare diversi enunciati del vocabolario mentale come
veri o falsi. In una tale correlazione gli enunciati fisici associati a quelli mentali
varieranno sistematicamente in corrispondenza delle distinzioni che sono riconoscibili
in quegli stessi enunciati mentali. Con tale tipo di analisi Dennett vuol ottenere
spiegazioni scientifiche della parte più fisica e meno opinabile del vocabolario mentale,
riducendo al minimo i rischi di contaminazioni intenzionali all’interno della
spiegazione. Solo evidenziando il legame e non la frattura fra i due vocabolari Dennett
spera di estendere l’analisi fino a coprire ambiti sempre più vasti e meno osservativi
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.
Il suo esempio spiega meglio:
Il nostro compito non è quello di identificare il pensiero della Spagna che è proprio di
Tom con qualche stato fisico del suo cervello, bensì quello di determinare con precisione
le condizioni su cui si può fare assegnamento per rendere l’intero enunciato ‘Tom sta
pensando alla Spagna’ vero o falso. Questo modo di procedere caratterizza anche il
compito di trovare una spiegazione della mente che sia unificata e coerente con la scienza
come un tutto unico- che anzi sia una parte della scienza- ma rifugga, almeno
inizialmente, dall’obbligo di trovare tra le cose della scienza qualche referente per i
termini del vocabolario mentale. Questo obbligo verrà assunto soltanto nel caso in cui
alcuni o tutti i termini mentali resistano a ogni sforzo di trattarli come non referenziali.
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Si vedano in proposito le analogie con il tentativo di Carnap di trovare una pragmatica per i termini
intensionali. Carnap definisce l’intensione del predicato Q per il parlante X al tempo t come la
condizione generale che un oggetto y deve soddisfare perché X sia disposto ad assegnare il predicato Q a
y nel tempo t. È possibile ottenere così un manuale per la determinazione delle intensioni o meglio per il
vaglio delle ipotesi concernenti le intensioni. Per C. I. Lewis l’intensione di un predicato è la classe degli
oggetti possibili che cadono sotto quel predicato; Carnap preferisce applicare le modalità non a oggetti ma
solo a intensioni (proposizioni o proprietà) poiché vuol sottolineare come i test concernenti le intensioni
siano indipendenti da problemi di esistenza.
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