delle Comunità Europee, che ha reso possibile un ampliamento ed una
evoluzione delle competenze della Comunità Europea in materia. Ogni
passaggio cruciale del presente lavoro, di conseguenza, terrà conto di
come la giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo abbia favorito il
funzionamento degli “ingranaggi” comunitari, al fine di rendere
maggiormente fluido il cammino verso una effettiva integrazione dei
ventisette Stati europei.
Da questa analisi, in via del tutto preliminare, è emerso come, molto
spesso, le decisioni prese dai giudici della Corte, siano state sorrette –
certamente – da motivazioni squisitamente giuridiche, ma anche –
palesemente – caratterizzate da connotati politici, in quanto rivolte a
dettare una “linea di condotta” alle istituzioni comunitarie.
Come noto, a partire dal 1° gennaio 2009, entrerà in vigore il Trattato
di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, che modifica il trattato
sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea.
Nelle conclusioni è stato doveroso affrontare proprio le principali
novità introdotte dal Trattato di Lisbona, perché dopo la bocciatura del
Trattato Costituzionale ad opera di Francia e Paesi Bassi, ci si è
interrogati sul futuro dell’Unione.
Infatti il Trattato di Lisbona, ha risolto quei problemi ed ha colmato
la distanza tra cittadini ed Unione causa dell’interruzione, nel 2005, del
processo di integrazione comunitaria?
È di palmare evidenza che la soluzione all’ impasse comunitario,
trovata dal Consiglio europeo del 21 e 22 giugno 2007 che, attraverso un
mandato negoziale molto dettagliato ai sensi dell’art. 48 TUE, ha
conferito ad una nuova Conferenza Intergovernativa (CIG) l’incarico di
elaborare un Trattato di riforma dei Trattati esistenti (incarico che ha
dato come frutto ultimo il Trattato di Lisbona), allo scopo di rafforzare
"l'efficienza e la legittimità democratica dell'Unione allargata, nonché la
coerenza della sua azione esterna", potrebbe avere riflessi anche sulla
materia del d.i.p.p.
X
Infatti, circa la materia de qua, bisognerà attendere i sicuri, quanto
inevitabili, interventi della Corte di Giustizia delle Comunità Europee
per capire in che modo, quel lento ma inesorabile processo di
integrazione comunitaria, possa svilupparsi.
XI
INTRODUZIONE
L’espressione diritto internazionale privato indica il complesso di
norme giuridiche statali che disciplina i rapporti (ossia fatti della vita
reale) che coinvolgono privati (persone fisiche e giuridiche) e che
presentano elementi di estraneità, ovvero punti di contatto
(cittadinanza, luogo di svolgimento del rapporto, luogo in cui si
trovano i beni, etc.) con ordinamenti giuridici stranieri.
Infatti, sfogliando un qualsiasi Codice Civile, nella sezione
riguardante le leggi complementari, è agevole trovare la legge
riguardante il sistema nazionale di diritto internazionale privato. Per il
fatto stesso che esiste una pluralità di Stati, ognuno dei quali ha un
proprio ordinamento giuridico, e per la mobilità stessa delle persone, e
con esse, dei rapporti giuridici (determinando così un coordinamento
tra i vari ordinamenti al fine di reperire la legge applicabile a seconda
delle varie fattispecie), che esistono le norme di diritto internazionale
privato.
Ma l’espressione diritto internazionale privato non viene sempre
usata con il medesimo significato, o meglio con la medesima portata. In
una prima, più ampia accezione essa riguarda tutti quanti i settori
dell’ordinamento giuridico. Vi sono infatti, norme di diritto penale e di
diritto processuale penale internazionale, di diritto tributario
internazionale riconducibili, al pari di quelle di diritto processuale
civile internazionale e di diritto privato internazionale, alla nozione lata
di diritto internazionale privato. È invece soltanto a queste due ultime
categorie di norme, che riguardano i profili sia processuali che materiali
dei rapporti privatistici che in un’accezione intermedia si parla di
diritto internazionale privato. Infine nel suo significato più ristretto, che
è forse quello maggiormente radicato nella tradizione didattica italiana,
l’espressione diritto internazionale privato esclude anche i profili
processuali. Del resto è proprio rispetto alle relazioni interindividuali,
XII
cioè di diritto privato, che si è storicamente avvertito il problema della
disciplina delle situazioni non totalmente interne.
Infatti le norme di diritto internazionale privato utilizzano la tecnica
della scelta di una determinata legge, risolvendo quello che, dal punto
di vista dei soggetti interessati al rapporto in questione, è un potenziale
concorso di leggi. E’ questo il motivo per cui si parla di norme di
conflitto o anche norma di collisione (choice of laws rules, conflict rules,
Kollisionsnormen), così come si parla di conflitti di leggi (conflicts of
laws, conflits de lois) sulla scia delle formule «de collisione statutorum»
e «de conflictu legum» impiegate negli scritti dei giureconsulti e nelle
legislazioni municipali del medioevo italiano.
La locuzione “diritto internazionale privato” fu coniata nel secolo XIX
dal giurista nordamericano Joseph Story (giudice della Corte Suprema
degli Stati Uniti e professore di diritto) e soltanto successivamente
rimbalzato in Europa, fino a divenire corrente. È alle opere di
quest’ultimo e, a quelle di Savigny e di Mancini, infatti, che si fa risalire
il concetto moderno di diritto internazionale privato (v. amplius Cap. I,
§ 1).
Questi “fondatori” ebbero non soltanto il merito di aver introdotto
una nuova metodologia, ma – salvo Mancini che non scrisse mai veri e
propri libri, preferendo esprimere le proprie idee attraverso la
legislazione e la partecipazione ai consessi scientifici – anche quello di
presentare esposizioni manualistiche autonome e non solamente
capitoli inseriti nelle trattazioni generali del diritto civile. Si osserva,
tuttavia, soffermandoci sulla locuzione stessa, come quest’ultima sia
fuorviante, per il fatto che fa pensare ad un’entità simmetrica rispetto al
diritto internazionale pubblico - ossia la disciplina che studia le norme
regolatrici dei rapporti tra Stati nell’ambito della comunità
internazionale (PS. norme che si formano al di sopra e non all’interno
degli Stati: v. art. 10 Cost. italiana) - mentre è un punto fermo che le
norme di diritto internazionale privato sono norme interne costituenti
un settore dell’ordinamento giuridico statale.
XIII
Le norme di diritto internazionale privato, pertanto, si caratterizzano
rispetto alle altre dell’ordinamento statuale non per l’origine o la
natura, quanto per l’oggetto e la funzione (v. amplius Cap. I, § 2) :
• l’oggetto, si è detto, è la regolamentazione di fatti che presentano,
rispetto allo Stato, elementi di estraneità;
• la funzione, secondo l’orientamento oggi prevalente (Vitta;
Ballarino) è duplice, in quanto le norme di diritto internazionale privato
consentono (cd. concezione bilaterale): 1. di delimitare l’ambito di
applicazione del diritto interno; 2. di richiamare, se ne ricorrono i
presupposti, le norme di diritto straniero.
La struttura tipica della norma di diritto internazionale privato si
articola in due elementi distinti:
a) in primo luogo, la norma descrive in maniera astratta, cioè per
categorie, i fatti che intende disciplinare (ambito di operatività): così, ad
esempio, l’art. 56 della legge 218/1995 (legge di riforma del sistema di
diritto internazionale privato italiano), individua nelle donazioni le
fattispecie che intende regolare;
b) il secondo elemento caratteristico della struttura della norma di
diritto internazionale privato è il criterio di collegamento (v. amplius
Cap. I, § 2.1) ovvero quell’aspetto del rapporto che conferisce allo
stesso, carattere di estraneità rispetto all’ordinamento interno e che il
legislatore prende in considerazione ai fini della individuazione
dell’ordinamento straniero da richiamare (ad esempio, cittadinanza,
luogo in cui le cose si trovano, il luogo in cui deve essere eseguita la
prestazione, la volontà manifestata dalle parti).
L’analisi del primo dei due elementi della struttura tipica della norma
di diritto internazionale privato, ovvero l’indicazione per categorie dei
rapporti che si intendono disciplinare con quella norma, pone il
problema che rappresenta una delle più tradizionali problematiche
internazional-privatistiche, e cioè il problema delle qualificazioni (v.
amplius Cap. I, § 3).
XIV
La sostanza del problema può essere posto in questi termini: poiché le
norme di diritto internazionale privato, nel descrivere la fattispecie che
intendono regolare, utilizzano categorie tecnico-giuridiche (ad esempio,
obbligazione, successione, diritti reali), ci si domanda se il significato di
tali categorie debba essere interpretato alla luce dell’ordinamento
interno, cui appartengono le norme di diritto internazionale privato o
alla stregua degli ordinamenti stranieri cui si fa rinvio. Così, ad
esempio, nella categoria delle successioni, che rappresenta l’ambito di
operatività dell’art. 46 della legge 218/1995, si ricomprende, secondo il
nostro ordinamento, anche il diritto della moglie ad ottenere la parte
dei beni del coniuge defunto, mentre in altri sistemi giuridici tale
questione potrebbe essere ricompresa nella categoria dei rapporti
patrimoniali tra i coniugi (che, nel nostro sistema di diritto
internazionale privato, è disciplinata da una disposizione diversa: l’art.
30 della legge 218/1995).
Il problema delle qualificazioni è risolto in dottrina in modo diverso:
- secondo un primo orientamento, sicuramente maggioritario (Vitta;
Morelli; Ballarino), le espressioni tecnico-giuridiche utilizzate dalle
norme di diritto internazionale privato vanno interpretate alla stregua
della lex fori, ovvero dell’ordinamento cui appartengono le stesse
norme di diritto internazionale privato (trattandosi di norme italiane,
deve determinarsi in base alle regole della lex fori il luogo dove si è
verificato l’evento da cui ha avuto origine l’obbligazione ex delicto);
- di diverso avviso sono coloro per i quali tali espressioni vanno
interpretate alla stregua della lex causa, ovvero dell’ordinamento
straniero al quale la norma di diritto internazionale privato rinvia.
Sennonché quest’ultimo orientamento finisce per cadere in una sorta
di circolo vizioso in quanto l’individuazione dell’ordinamento straniero
non precede l’interpretazione e l’applicazione della norma di diritto
internazionale privato, ma ne costituisce, al contrario, il risultato (si è
osservato, inoltre, che le norme interne di diritto internazionale privato
sono pur sempre norme interne dello Stato).
XV
La teoria della lex fori è oggi, anche in giurisprudenza, prevalente.
Essa, tuttavia, tende ad essere applicata con alcuni correttivi. In
particolare, secondo la teoria della doppia qualificazione, una volta
individuata alla stregua della lex fori, la norma di diritto internazionale
privato cui fare riferimento, le successive interpretazioni ed
applicazioni (c.d. seconda qualificazione) andranno svolte alla luce
della lex causae. La teoria della doppia qualificazione sembra trovare
fondamento positivo nell’art. 15 della legge 218/1995, in base al quale:
“la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione
e di applicazione nel tempo ”.
Per quanto concerne il secondo elemento caratteristico della norma di
diritto internazionale privato, ovvero sia il criterio di collegamento, esso
rappresenta, per dirla con le parole di Ballarino “la vera sostanza della
norma di diritto internazionale privato ”. Si identifica nella circostanza
(espressa attraverso un concetto giuridico, come la cittadinanza, oppure
un puro fatto, come il luogo in cui la res è situata) che conferisce al
rapporto carattere di estraneità e che il legislatore prende in
considerazione ai fini dell’individuazione dell’ordinamento straniero
da richiamare.
In alcuni casi, fungono da criteri di collegamento elementi empirici o
naturalistici, in altri, invece, concetti giuridici: si distingue allora tra
criteri di fatto (ad esempio, il luogo in cui si è verificato l’evento da cui
ha avuto origine l’obbligazione ex delicto; il luogo in cui la res oggetto
del rapporto è situata, cd. locus rei sitae) e criteri giuridici (ad esempio
la cittadinanza, come indice del rapporto che esiste tra un individuo ed
uno Stato; il domicilio).
In un’altra prospettiva, si distingue tra criteri costanti (che fanno
riferimento a circostanze destinate a rimanere immutate, ad esempio il
luogo in cui è collocato un bene immobile) e criteri variabili (che fanno
riferimento a circostanze suscettibili di mutare nel tempo, ad esempio,
la cittadinanza ed il domicilio).
XVI
Non è infrequente che nell’ambito di una stessa norma di diritto
internazionale privato siano indicati più criteri di collegamento. In
questi casi si parla di cumulo o concorso di criteri di collegamento che,
a sua volta, può essere:
a) concorso successivo, ha luogo quando il rapporto tra i diversi
criteri di collegamento è di sussidiarietà, per cui soltanto quando quello
indicato per primo non può funzionare ci si rivolge al secondo (ad es.,
ex art. 28 della legge 218/1995: la promessa di matrimonio è regolata
dalla legge nazionale comune ai nubendi o, in mancanza, dalla legge
italiana);
b) concorso alternativo, ha luogo quando i criteri di collegamento,
posti sullo stesso piano, sono offerti a scelta (l’art. 48, in materia di
forma del testamento, individua tre criteri di collegamento alternativi,
nell’ambito dei quali, in omaggio al principio di conservazione degli
effetti giuridici, la scelta cadrà su quello che richiama la legge che
consentirà di considerare l’atto di ultima volontà valido; ergo la scelta
avverrà in funzione dei risultati pratici cui essa conduce).
In linea di principio, quando la norma di diritto internazionale
privato rinvia (sulla tematica del rinvio v. amplius Cap. I, § 3) ad un
ordinamento straniero, questo deve intendersi richiamato nel suo
complesso in virtù del principio della globalità o integrità del richiamo.
Significativamente, a questo proposito il giurista tedesco Rudolf
Stamler diceva che “ogni volta che si utilizza l’articolo di un codice, si
utilizza l’intero codice” e quindi, mutatis mutandis, quando si utilizza
un articolo di un ordinamento giuridico, si utilizza l’intero
ordinamento.
Ci si chiede, però, se questo principio debba valere anche in
riferimento alle norme di diritto internazionale privato
dell’ordinamento richiamato. Non si tratta di una questione meramente
XVII
teorica (destinata ad affollare l’arena delle discussioni infeconde), ma di
una questione di grande rilevanza pratica.
In applicazione dell’art. 46 della legge 218/1995, ad esempio, la
successione mortis causa del cittadino argentino deceduto in Italia, deve
essere regolata dalla legge nazionale del de cuius anche se i beni
dall’asse ereditario si trovano in Italia; supponiamo, però, che
l’ordinamento argentino contenga una norma di diritto internazionale
privato che, in materia di successione, adotti il criterio di collegamento
del luogo di situazione della cosa.
In questo caso, dal momento che - si è detto - i beni dell’asse
ereditario si trovano nel territorio italiano, se non si escludono dal
richiamo le norme di diritto internazionale privato dell’ordinamento
richiamato, si avrà un’ipotesi di rinvio indietro o di primo grado della
lex fori; se, invece, i beni dell’asse ereditario fossero, per ipotesi, situati
in un paese terzo (come ad. es. in Germania), ci troveremmo di fronte
ad un caso di rinvio oltre o di secondo grado.
Il dibattito pro e contro rinvio ha avuto un’intensità che non ha
riscontro in nessun altro problema della disciplina.
Un argomento frequentemente apposto all’accettazione del rinvio era
che esso conduce ad un circulus inestricabilis, ad una camera degli
specchi o, se si preferisce, ad un pellegrinaggio senza fine. In realtà,
questo argomento cadeva una volta che l’ordinamento avesse elaborato
una propria norma di concretizzazione idonea a porre fine a questo
eterno moto pendolare.
Nel sistema italiano vigente anteriormente al 1995 la soluzione “anti-
rinviistica” veniva accolta dall’art. 30 delle disp. prel. cod. civ. (articolo
oggi abrogato) che sanciva un vero e proprio divieto di rinvio.
La prospettiva è radicalmente cambiata in seguito alla riforma del
diritto internazionale privato. L’art. 13 della legge 218/1995, da un lato
ha ammesso il rinvio indietro alla lex fori e, dall’altro, ha ammesso il
rinvio oltre solo se definitivo, cioè se non porta ad un ulteriore rinvio da
XVIII
parte dell’ordinamento rinviato. Ciò avviene quando il diritto dello
stato rinviato accetta il rinvio.
Non v’è dubbio che il risultato pratico di maggior rilievo
dell’applicazione delle norme di diritto internazionale privato è il rinvio
ad un ordinamento straniero per la regolamentazione di fattispecie che
presentano elementi di estraneità.
Quanto alla natura giuridica del rinvio operato dalla norma di diritto
internazionale privato la dottrina più recente (Ballarino) ha elaborato la
tesi detta del rinvio di produzione: il nucleo fondamentale di questa
teoria è che il rinvio ad un ordinamento straniero conferisce alle norme
di diritto internazionale privato il carattere di norme sulla produzione
giuridica (di fonti sulla produzione).
Considerate come norme sulla produzione giuridica, le norme di
diritto internazionale privato si distinguono dalle altre norme di questo
tipo per la caratteristica di agire in connessione con ordinamenti
stranieri (e con la mediazione, decisiva, di un criterio di collegamento),
provocando l’inserzione nell’ordinamento di cui fanno parte di norme
identiche a quelle che esistono negli ordinamenti stranieri richiamati.
Questa inserzione di norme straniere è continua (in quanto segue
strettamente ogni modificazione dell’ordinamento richiamato) ed
automatica (perché avviene senza bisogno di ulteriori specifiche di
disposizioni).
Accertamento del diritto straniero e l’eventuale mancata
individuazione dello stesso.
Per lungo tempo, la nostra giurisprudenza ha affermato che la parte
che invoca l’applicazione della legge straniera ha l’onere di provarne
l’esistenza ed il contenuto, come se si trattasse di fatti di causa
(principio dispositivo).
Alla base di questo atteggiamento, non stavano argomenti teorici, ma
semplici esigenze politiche (o di comodo), come dimostra la palese
XIX
contraddizione con altre affermazioni giurisprudenziali. In particolare,
quella per cui l’errata applicazione del diritto straniero può costituire
motivo di ricorso per Cassazione per violazione o falsa applicazione di
norme di legge. Di fatti, se l’accertamento del diritto straniero fosse
stata una quaestio facti, si sarebbe dovuto coerentemente concludere
per l’incensurabilità in sede di legittimità.
L’art. 14 della legge 218/1995 ha affermato che anche per le norme di
diritto internazionale privato vale il principio iura novit curia, nel senso
che spetta al giudice, come dovere d’ufficio conoscere o procurarsi la
conoscenza del diritto straniero. Nell’adempiere tale dovere è previsto
che il giudice possa avvalersi di esperti o di istituzioni specializzate; se,
nonostante ciò il contenuto del diritto straniero non può essere
accertato (art. 14, 2° comma), questi potrà applicare quello
eventualmente richiamato da altri criteri di collegamento previsti dalle
norme di diritto internazionale privato; e se infine, neppure questo è
possibile, allora si potrà fare riferimento alla lex fori ovvero si
applicherà il diritto italiano.
Inoltre, è necessario, ancora in via del tutto preliminare, richiamare i
limiti all’applicazione del diritto straniero richiamato dalle norme di
diritto internazionale privato
Un primo limite al normale funzionamento delle norme di diritto
internazionale privato è rappresentato dalla presenza di norme
cosiddette ad applicazione necessaria (v. amplius Cap. I, § 3). Quelle
norme, cioè, che, perseguendo scopi particolarmente importanti per lo
Stato che le ha emanate, trovano applicazione anche quando, in base
alle norme di diritto internazionale privato, (non il diritto della lex fori,
ma) il diritto straniero avrebbe dovuto essere applicato.
Un esempio “classico” può essere utile a chiarire i termini della
questione.
L’art. 27 della legge 218/95 stabilisce che la capacità matrimoniale e le
altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge
XX
nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio. L’art. 116, 2°
comma codice civile, tuttavia, dispone che una serie di impedimenti
matrimoniali italiani (quali quelli previsti dall’art. 86 come la libertà di
stato) sono necessariamente applicabili quando uno straniero intende
sposarsi in Italia (anche, quindi, se la legge nazionale dello straniero
consente la poligamia).
Per effetto della riforma del 1995 la categoria delle norme ad
applicazione necessaria, di origine puramente dottrinale, ha trovato un
solido fondamento normativo. L’art. 17 della legge 218/95 dispone in
proposito: “è fatta salva la prevalenza sulle disposizioni di diritto
internazionale privato, delle norme italiane che, in considerazione del
loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il
richiamo alla legge straniera”.
La giurisprudenza ha qualificato come norme ad applicazione
necessaria ad esempio, le norme della legislazione antitrust che vietano
certi accordi restrittivi della concorrenza; le norme che subordinano
l’esercizio di un’attività professionale all’iscrizione all’albo; le norme
che regolano imperativamente certi aspetti del contratto di lavoro (es.
diritto alla tredicesima) etc.
Altro limite tradizionale all’applicazione della legge richiamata dalle
norme di diritto internazionale privato, è costituito dall’ordine pubblico
(v. amplius Cap. I, § 3). Esso ha lo scopo di evitare l’inserimento nel
diritto interno di leggi straniere contrastanti con i principi fondamentali
del nostro ordinamento.
Si è detto che il rinvio al diritto straniero operato dalle norme di
diritto internazionale privato costituisce un “salto nel buio”; mentre
l’ordine pubblico costituisce, per così dire, “il paracadute” o la “rete di
sicurezza”.
La nozione di ordine pubblico e l’individuazione dei principi che lo
costituiscono hanno sempre rappresentato un problema per la teoria del
diritto internazionale privato. La sua relatività storica, unitamente
XXI
all’assenza di una qualsiasi, seppure implicita, definizione normativa,
rende la norma in esame tra le più inquisite sotto il profilo della
determinatezza.
L’ordine pubblico, ad esempio, di cui all’art. 16 della legge 218/95 è
quello che si suole tradizionalmente definire come ordine pubblico
“internazionale” per distinguerlo dall’ordine pubblico “interno”. La
distinzione tra l’uno e l’altro è posta, in primo luogo, con riferimento
alla funzione. Infatti, l’ordine pubblico internazionale ha carattere
eccezionale; esso costituisce una eccezione al normale funzionamento
delle norme di diritto internazionale privato e consiste in un insieme di
principi universali comuni a nazioni di cultura e tradizioni affini, volti
alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, che vengono riconosciuti
e tutelati da convenzioni internazionali e carte costituzionali che si
pongono come limite all’efficacia interna di norme straniere.
L’ordine pubblico interno, invece, non ha nulla di eccezionale,
costituendo (insieme al buon costume ed alle norme imperative ex art.
1343 cod. civ.) un limite normale alla libertà negoziale, ovvero alla
facoltà dei privati di autoregolamentare i propri interessi. Infatti, esso
costituisce quell’insieme di principi inderogabili dell’ordinamento
giuridico, che si pone come limite all’autonomia privata
nell’ordinamento giuridico che li recepisce.
E’ osservazione comune, inoltre, che l’ordine pubblico internazionale
ha un contenuto più ristretto dell’ordine pubblico interno. Si pensi a
due cerchi concentrici: quello più largo racchiude i principi dell’ordine
pubblico interno, quello dal raggio più corto racchiude i principi
dell’ordine pubblico internazionale.
Così, ad esempio, la norma italiana che fissa il limite della maggiore
età (18 anni) per l’acquisto della capacità di agire, mentre è una norma
di ordine pubblico interno (tant’è che non può essere derogata per
volontà privata), non esprime un principio di ordine pubblico
internazionale, il quale ostacoli l’inserzione di norme straniere che
dispongano diversamente.
XXII
Un ulteriore limite all’applicazione della legge straniera richiamata
dalle norme di diritto internazionale privato, può derivare dal contrasto
con norme di rango costituzionale. A questo proposito ci si chiede: se
sia consentito al giudice italiano di rilevare il contrasto tra la norma
straniera e la Costituzione italiana; e, se sia consentito al giudice italiano
di rilevare il contrasto tra la norma straniera ed i principi costituzionali
di provenienza.
Quanto alla prima questione, il potere del giudice italiano di non
applicare norme straniere contrastanti con la Costituzione italiana trova
fondamento normativo nella disposizione dell’art. 16 legge 218/1995
che esclude – come già si è detto - l’applicazione di norme straniere i cui
effetti si rivelino contrari all’ordine pubblico. Quest’ultimo, infatti, deve
senz’altro ritenersi comprensivo dei principi fondamentali sanciti dalla
Carta costituzionale. In questo caso, tuttavia, il sindacato di legittimità
costituzionale delle norme straniere, invece che accentrato (com’è per le
leggi e gli atti aventi forza di legge dell’ordinamento italiano ex art. 134
Cost. e ss.), finisce per essere esercitato in modo diffuso.
Più problematica si presenta la seconda questione, ovvero se sia
consentito al giudice italiano esercitare il controllo di costituzionalità
della norma straniera secondo i principi costituzionali dell’ordinamento
di provenienza. Per quanto controverso, tale possibilità è generalmente
ammessa se nell’ordinamento straniero è previsto un controllo di
legittimità costituzionale diffuso (cioè rimesso ai vari organi del potere
giudiziario e con effetti limitati inter partes); invece, se il controllo è
accentrato (cioè affidato ad un giudice ad hoc, qual è in Italia la Corte
Costituzionale), si ritiene preclusa al giudice italiano la possibilità di
esercitare un potere non previsto nell’ordinamento straniero richiamato
(solo che in questo caso il giudice italiano non potrà neppure sollevare
la questione di legittimità dinanzi al giudice delle leggi straniero in
qualità di giudice a quo) (Quadri, De Nova).
Merita osservare, tuttavia, che non mancano voci autorevoli
(Ballarino) che negano in ogni caso la possibilità del giudice italiano di
XXIII
sindacare la legittimità costituzionale del diritto straniero secondo i
principi costituzionali dell’ordinamento di provenienza.
Scorporando il concetto di diritto internazionale processuale, da
quello di diritto internazionale privato, in linea generale, si può dire che
lo svolgimento del processo, anche quando questo presenta elementi di
estraneità o di collegamento con altri ordinamenti, resta disciplinato
dalla lex fori, dalla legge dello Stato in cui il processo si svolge. Tale
principio è specificatamente confermato dall’art. 12 legge 218/95, che
stabilisce che il processo civile che si svolge in Italia è regolato (a
prescindere dalle norme sostanziali che vengono applicate) dalla legge
italiana.
Il criterio fondamentale alla stregua del quale veniva risolto, nel
previgente sistema di diritto internazionale privato (prima del 1995), il
problema della sussistenza o meno della giurisdizione del giudice
italiano, nel caso di controversie caratterizzate da elementi di estraneità,
era quello della cittadinanza del convenuto. La cosiddetta giurisdizione
internazionale del giudice italiano sussisteva sempre quando il
convenuto era un cittadino italiano.
Nel sistema attuale, invece, la cittadinanza del convenuto è
scomparsa come criterio generale di giurisdizione internazionale
(sopravvive, però, come criterio speciale in alcune particolari materie
quali, ad es., la filiazione, l’adozione).
Ai sensi dell’art. 3 della legge 218/95, il legislatore italiano ha
individuato tre criteri alternativi, affinché la giurisdizione italiana possa
sussistere:
a) quando il convenuto è domiciliato in Italia;
b) quando il convenuto è residente in Italia;
c) quando vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in
giudizio (es. institore, procuratore generale) ai sensi dell’art. 77 c.p.c. e
negli altri casi previsti dalla legge.
XXIV
Ex art. 4 della legge di riforma, quando non vi sia giurisdizione in
base all’art. 3, essa nondimeno sussiste se le parti l’abbiano
convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto,
ovvero il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di
giurisdizione. Ex art. 5 la giurisdizione italiana non sussiste rispetto ad
azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero.
Occorre, peraltro, fissare in maniera elementare due punti e cioè la non
universalità della giurisdizione italiana e la differenza tra le nozioni di
giurisdizione e competenza.
Infatti, il processo di integrazione europea (in particolare) ha portato
nel corso degli anni alla stipula di varie convenzioni cioè accordi su
specifiche materie che poi sono diventati parte del nostro ordinamento
attraverso la loro conversione in legge. La riforma del diritto
internazionale privato, tra l’altro, era divenuta necessaria anche per il
fatto che tutti questi accordi di carattere internazionale, entrando nel
nostro ordinamento, si innestavano sul vecchio diritto internazionale
privato. Di guisa che quest’ultimo si presentava, in parte
incostituzionale e, in parte inadeguato alle nuove esigenze. Ecco allora
che l'art. 2 della legge 218/95 ribadisce questo concetto quando afferma
che "le disposizioni della presente legge non pregiudicano
l'applicazione delle convenzioni internazionali”. Anche in questo caso
la logica è stringente: sulle materie sulle quali i vari Paesi hanno già
trovato un accordo si applicano le norme dell'accordo, ciò rispondendo
alla duplice esigenza dell'omogeneizzazione dei vari ordinamenti e
della semplificazione in materia di diritto applicabile.
Allo strumento convenzionale, in ambito comunitario, si è affiancato,
a seguito delle assunte competenze nella materia, lo strumento del
Regolamento. Ebbene, questo passaggio nella storia dell’integrazione
europea ha dispiegato i suoi effetti anche sul tema della non
universalità della giurisdizione (italiana). Infatti, per citarne alcuni, i
regolamenti comunitari del 2000 (regolamento CE, n. 44/2001,
concernente la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle
XXV
decisioni in materia civile e commerciale; al riguardo v. amplius Cap. II)
e del 2003 (regolamento CE, n. 2201/2003, concernente la competenza, il
riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e
di responsabilità genitoriale), così come la Convenzione di Bruxelles e
la legge di riforma del sistema di diritto internazionale privato italiano
del 1995, partono dall’assunto che l’autorità giudiziaria italiana può
esercitare il proprio compito di ius dicere solo in ordine ad una serie di
situazioni che presentino un significativo attacco con il nostro
ordinamento. Attacco che si configura come un titolo di giurisdizione,
facendo sì che il giudice italiano abbia il poter-dovere di giudicare.
Questo compito, non è affidato a un unico giudice ma è ripartito tra
una pluralità di giudici, la cui competenza è determinata in ragione
della materia e del territorio. Tradizionalmente la determinazione della
competenza di ciascun giudice all’interno dello Stato, avveniva (e
avviene) ad opera del legislatore nazionale. Le Convenzioni
internazionali provvedevano invece a delimitare l’ambito della
giurisdizione degli Stati contraenti in ragione della maggiore o minore
intensità dell’attacco, del contatto della questione da giudicare con
l’ordinamento dell’uno o dell’altro Stato. Diversa è la prospettiva
attuale che emerge dalla combinazione delle norme dei citati
regolamenti comunitari con quelle della legge 218/1995: infatti
quest’ultima fa dipendere, in talune materie, la giurisdizione dalla
circostanza che sia dato rinvenire un giudice italiano competente per
territorio (art. 3 ultima frase). I regolamenti comunitari, d’altra parte,
non si limitano ad individuare le rispettive sfere di giurisdizione degli
Stati, bensì talvolta determinano anche il singolo giudice competente
(ad esempio, v. art. 5, 1° e 2° comma, regolamento n. 44/2001).
Infine, c’è da osservare che i regolamenti comunitari utilizzano
l’espressione competenza anche per individuare la nozione che nel
linguaggio giuridico italiano si identifica con il termine di giurisdizione.
Questa terminologia riflette l’usuale terminologia francese (lingua nella
quale era stata negoziata la Convenzione di Bruxelles). È peraltro
XXVI
importante altresì notare che, nel redigere i regolamenti, il legislatore
comunitario si è posto dinanzi allo spazio giuridico-giudiziario
comunitario (unitario), ossia nella stessa ottica del legislatore nazionale
allorché debba ripartire per territori la competenza tra i propri giudici.
Si deve inoltre sottolineare che l’attribuzione di giurisdizione operata
da regolamenti ha carattere esclusivo, nel senso che sostituisce, in
principio, l’attribuzione di giurisdizione operata dai singoli legislatori
nazionali a favore dei propri giudici: quest’ultima sopravvive con
carattere residuale potendo esplicarsi solo qualora nessuno dei titoli di
giurisdizione stabiliti dai regolamenti medesimi operi a favore di uno
Stato comunitario.
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