Lo scopo del presente lavoro è, in prima istanza, studiare l’italiano
scritto a scuola attraverso l’analisi linguistica di un corpo di temi svolti
da studenti di una scuola secondaria di primo grado situata nel borgo
antico della città di Taranto (il quartiere comunemente noto come “Città
Vecchia”). È importante sottolineare il contesto ambientale e
socioculturale di provenienza per poter delineare con precisione il profilo
dei ragazzi, autori dei temi considerati e verificare in che modo il
“background” culturale sia capace di influenzare il loro linguaggio e – in
particolare per la mia indagine – le loro produzioni scritte. Grazie alla
disponibilità che mi è stata concessa prima di tutto dal Dirigente
scolastico e poi da alcune docenti di Lettere dell’Istituto a cui mi sono
rivolta, ho potuto non solo reperire il materiale che è divenuto l’oggetto
del presente lavoro di tesi ma anche assistere personalmente ad alcune
lezioni in classe. Ho ricavato, così, un breve quadro della situazione e del
livello cognitivo degli alunni, che in generale si rivela piuttosto
mediocre: tutti provengono da un contesto culturale medio-basso e hanno
come lingua madre il dialetto. Ho osservato, infatti, che con i compagni
di classe si esprimono costantemente in dialetto. Soltanto quando devono
rivolgersi agli insegnanti o cimentarsi nei compiti scritti, cercano di
utilizzare l’italiano ma le interferenze dialettali risultano evidenti. Il loro
primo e unico contatto con l’italiano come lingua nazionale, in effetti, è
avvenuto a scuola. Pertanto il tipo di italiano che hanno appreso è prima
di tutto quello parlato dai loro insegnanti. Si tratta di un italiano che non
si può certamente definire “standard”. Questi insegnanti, infatti, lavorano
con alunni che parlano fortemente il dialetto: perciò si adeguano
necessariamente al difficile contesto in cui operano, utilizzando un
lessico e una morfosintassi piuttosto semplificati. È interessante notare
come nel periodo postunitario, «l’uso del dialetto nell’aula scolastica,
prima ancora che come necessità didattica, è un dato di fatto – non
II
sempre derivato da una scelta volontaria – piuttosto costante» (De Blasi
1994, p. 404). I vari studiosi sottolineano l’impreparazione linguistica dei
maestri dell’epoca, «incapaci di usare un italiano che non fosse in tutto o
in parte condizionato dal dialetto» (De Blasi 1994, p. 404), per farsi
intendere dai bambini che arrivavano a scuola avendo il dialetto come
idioma materno. Oggi il livello di preparazione di un insegnante,
obbligato a un preciso e lungo iter di formazione nonché a continui
aggiornamenti, è notevolmente migliorato. Tuttavia ciò non elimina le
difficoltà che un insegnante incontra quando deve interagire con studenti
dialettofoni. In una società postalfabetizzata come quella attuale, questi
ragazzi dovrebbero costituire delle eccezioni, tanto che a riguardo si parla
di ragazzi, scuole e contesti “difficili”. Eppure esistono ancora fasce
sociali in cui il dialetto rappresenta la principale se non l’unica varietà
posseduta e parlata. Le difficoltà lavorative legate a questi ambienti,
inoltre, sono spesso dovute alla «insufficiente informazione di tipo
dialettologico nel curriculum della maggior parte degli insegnanti»
(Romanello-Bramato in Cortelazzo 1993, p. 104).
Occorre ricordare che questi alunni si sono imbattuti anche nell’italiano
presente nei loro testi di studio, come il libro di grammatica o di lettura,
ovvero in una varietà che si potrebbe definire “standard” o “letteraria”.
Tuttavia essi leggono poco o non leggono affatto e si servono dei propri
testi scolastici quasi esclusivamente in classe, guidati dall’insegnante.
Perciò, non si può ipotizzare una larga influenza di questo tipo di italiano
sulla lingua che i ragazzi hanno appreso e cercano di utilizzare al di fuori
del dialetto.
Tra gli alunni delle classi prese in esame, alcuni presentano disabilità
relative al comportamento e all’apprendimento: hanno difficoltà
nell’attenzione, nella concentrazione e nella partecipazione alle lezioni,
pertanto necessitano di una semplificazione marcata dei contenuti e di
III
esercitazioni mirate. Tuttavia ho ritenuto opportuno riportare e analizzare
ugualmente i loro elaborati (temi V, IX, X, XI e XIII) poiché, da un
punto di vista linguistico, non si discostano molto dai temi degli altri
compagni e hanno costituito, anzi, una importante e ulteriore fonte per la
mia analisi: in essi, infatti, ho riscontrato i requisiti utili per il mio lavoro
di tesi, ovvero quei tratti che rientrano sotto la denominazione di
“italiano popolare”.
Il lavoro si articola in quattro sezioni. Si apre con un’Introduzione, in cui
vengono descritte le caratteristiche fondamentali del tipo di italiano
considerato, gli errori linguistici più notevoli e vengono presentate alcune
nozioni basilari per l’interpretazione dei dati ricavati, come il rapporto
scritto-parlato e il problema della correzione-autocorrezione.
La prima parte contiene i testi in trascrizione: a ciascun tema ho
assegnato un numero romano progressivo e ho indicato tra parentesi la
classe del corso di studi di appartenenza dell’allievo (prima o terza)..
Ho cercato di trascrivere ogni termine nella maniera più fedele e puntuale
possibile, dal momento che sui testi trascritti si è basata l’intera mia
analisi. Ho introdotto solo alcuni necessari segni convenzionali come la
barra obliqua / al termine di ogni parola collocata al margine del rigo, per
segnalare il cosiddetto “a capo”; la doppia barra obliqua //, invece, in
corrispondenza della parola conclusiva di una pagina; le parentesi quadre
con i puntini di sospensione […] per segnalare quei termini graficamente
non decifrabili o i nomi degli insegnanti, che sono stati omessi
volutamente per il rispetto della privacy.
Ogni tema trascritto è stato corredato di un opportuno apparato di note,
contenente precisazioni riguardanti cancellature, omissioni e aggiunte
riscontrate nelle righe dei testi. Occorre precisare che, laddove ricorre, ho
utilizzato il soggetto generico alunno unificato al maschile, senza
distinzioni di sesso, per ragioni di comodità ma soprattutto nel rispetto
IV
delle norme relative alla privacy, dal momento che si tratta di
un’indagine assolutamente anonima. Per lo stesso motivo, nei temi XIII e
XIV ho omesso il nome di alcuni insegnanti citati espressamente dagli
alunni nel corso del tema.
Nella seconda parte della tesi (Analisi linguistica), ho esaminato nello
specifico tutti i possibili fenomeni, con i relativi esempi, riscontrati negli
elaborati. Ho considerato i vari ambiti della grammatica: la grafia e
l’interpunzione, la fonetica, la morfologia, la sintassi, il lessico e lo stile.
In appendice, infine, ho riportato tutte le copie dei testi considerati.
Alcuni temi degli alunni della prima classe consistono in rielaborazioni
personali di una fiaba, letta e commentata prima con l’insegnante: La
sposa sirena, tratta dal libro Fiabe italiane: raccolte dalla tradizione
popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari
dialetti di Italo Calvino. Prima delle copie dei temi, perciò, ho inserito la
versione originale della fiaba, ricavata dall’edizione delle Fiabe Italiane,
con la prefazione di Mario Lavagetto (Milano 1993, Mondadori I
Meridiani). Lo scrittore italoamericano ha tratto la fiaba dal racconto
Storia d’una sirena, proveniente da Taranto e tradotta in italiano da
Giuseppe Gigli. Nella sua rielaborazione, Calvino riprende i «caratteri
insoliti» della fiaba che lo avevano attratto sin dall’inizio, come «il rifarsi
alla tradizione classica delle Sirene» e «il motivo della riabilitazione
dell’adultera» ma utilizza un «linguaggio più semplice». Egli ha
introdotto, però, alcune varianti come i versi delle canzoni, tutti inventati,
e l’aquila al posto della scopa come mezzo su cui far volare la fata e la
sposa alla fine della storia. Sulla “popolarità” della fiaba, tuttavia,
Calvino ha espresso le sue riserve, in quanto il testo di Gigli è scritto in
un italiano lirico «da cui nulla si può intravedere dello spirito» con cui le
fiabe da lui raccolte erano narrate, perciò è giudicato dallo scrittore «il
meno adatto per servire a un lavoro» come il suo, perché «se all’origine
V
c’è veramente stata una tradizione popolare, queste successive e opposte
sovrapposizioni di gusto ci portano chissà quanto lontano da essa»
(Calvino 1993, pp. 1142-1143).
L’obiettivo finale del mio lavoro è quello di delineare il profilo di un tipo
di italiano che è stato definito “popolare”, derivante, cioè, almeno ad una
prima analisi, dall’interferenza fra il dialetto, che è la lingua posseduta in
origine da questi studenti, e l’italiano standard, letterario, secondo il
modello proposto prevalentemente dalla scuola, ma anche dai mezzi di
comunicazione. Dall’analisi linguistica è emerso, infatti, che gli errori
individuati sono ad una prima istanza interpretabili come “deviazioni
dalla norma” dovute essenzialmente all’influenza del dialetto, lingua-
madre della maggior parte degli studenti considerati, e possono essere
ricondotti, dunque, alla «sovrapposizione dell’italiano su una lingua già
esistente» (Vanelli 1976, p. 299).
Si è potuto verificare, infine, come i compiti scolastici possano costituire
una delle possibili fonti di conoscenza dell’italiano popolare, secondo la
linea già tracciata da Cortelazzo, seguito da studiosi come Berruto e
Bruni, ma in contrasto con altri come D’Achille, che considera i temi
scolastici una categoria a parte rispetto a quelli che sono citati come
esemplari della “produzione semicolta” (cfr. D’Achille 1994, pp. 53-54).
VI
II. L’italiano “popolare” degli elaborati scolastici
L’italiano popolare rappresenta una delle varietà della nostra lingua. Per
la sociolinguistica, infatti, una lingua non è qualcosa di fisso e monolitico
ma è costituita dalla somma di più varietà che possono essere, sul piano
sincronico, di tipo diatopico o geografico, diastratico o sociale, diafasico
o contestuale, diamesico ovvero legate al mezzo comunicativo. L’italiano
popolare è una varietà di tipo diastratico poiché è legata allo status
sociale dei parlanti e degli scriventi e in particolare al loro livello di
istruzione che è decisamente basso. .
A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso è stato
teorizzato da Decamp il concetto di continuum in riferimento alla lingua,
che ha trovato grande applicazione anche nella situazione linguistica
italiana: secondo tale modello, una realtà linguistica è costituita da più
varietà, ciascuna delle quali comprende tratti comuni ad alcune varietà e
tratti specifici di quella determinata varietà (Berruto 1993a, p. 16). Ciò ha
permesso di superare la staticità del concetto di sistema che si basava
sulla tradizionale opposizione tra lingua parlata e lingua scritta. «Il
concetto di continuum permette di affrontare le varietà del repertorio non
come entità separate nettamente l’una dall’altra ma in base alla presenza
graduale dei tratti e alla loro sovrapposizione all’interno dello spazio tra
le due estremità» (Coveri-Benucci-Diadori 1998, pp. 133-134).
Pertanto alcuni tratti dell’italiano popolare, come la ridondanza
pronominale (a me mi piace) o l’uso del che polivalente, si possono
ritrovare anche in altre varietà linguistiche di tipo diafasico come
l’italiano colloquiale e l’italiano dell’uso medio, anche se l’italiano
popolare è una varietà più marcata da tratti substandard nella
morfosintassi (Coveri-Benucci-Diadori 1998, p. 96). .
Tale varietà linguistica è stata individuata per la prima volta nella
VII
raccolta di lettere di soldati italiani della Prima Guerra Mondiale di Leo
Spitzer (1921) che rappresenta, quindi, «la prima e più imponente
documentazione di italiano scritto di matrice popolare» (Vanelli 1976, p.
296) e si può considerare «una pietra miliare nello studio dell’italiano dei
semicolti» (D’Achille 1994, p. 64). La Prima Guerra Mondiale, infatti,
costituisce il primo evento cruciale nella storia linguistica italiana che ha
portato – insieme all’inurbamento, al movimento migratorio, alla
scolarizzazione di massa con l’obbligatorietà della scuola elementare e
all’avvento della televisione – all’esigenza di uno strumento linguistico
unitario, un «idioma sovradialettale», l’italiano (Cfr. De Mauro 1994, pp.
119 e Vanelli 1976, p. 295). .
Il primo studio sistematico di questo tipo di italiano, però, risale a Tullio
De Mauro che, nel 1970, nella sua nota linguistica alla raccolta di
Annabella Rossi Lettere da una tarantata, lo ha definito come il «modo
di esprimersi d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza
addestramento, maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama lingua
nazionale» e ha parlato di «una modalità, d’una norma d’uso della lingua
italiana che può denominarsi ‘italiano popolare unitario’» (De Mauro
1994, p. 115). L’unitarietà dell’italiano popolare è stata sottolineata con
vigore poi da Manlio Cortelazzo nel 1972, che lo ha definito come «il
tipo di italiano imperfettamente acquisito a scuola da chi ha per
madrelingua il dialetto» (Cortelazzo 1986, p. 11). Egli è stato il primo a
dedicare, «nel vuoto bibliografico», una specifica grammatica a «una
realtà linguistica, che si pone nella larga fascia […] interposta fra le due
altre realtà […]: da una parte il dialetto, che la coscienza collettiva
sempre più accomuna ad una condizione sociale ingrata, dall’altra la
lingua letteraria, […] irrimediabilmente separata dall’esperienza e dalla
pratica di milioni di italiani, che perdono il dialetto senza riuscire ad
acquistarla perfettamente» (Cortelazzo 1986, p. 7). .
VIII
A rendere unitario l’italiano popolare – continua lo studioso – hanno
contribuito due importanti componenti nazionali: la scuola e la cultura
popolare. Sul ruolo della scuola nell’insegnamento dell’italiano
elementare e medio nell’Italia del secondo dopoguerra, gli studiosi
concordano nel riconoscere le lacune e le debolezze sia delle strutture
scolastiche sia del personale insegnante, unite ad un insegnamento
«nozionistico, retrivo, ottuso, avulso dalla realtà sociale, retorico e
antistorico» (Cortelazzo 1986, p. 13), ma soprattutto “dialettofobo”.
De Mauro e Cortelazzo, in particolare, sottolineano la pedanteria del
sistema scolastico dell’epoca che anziché «educare al pieno e libero
possesso della lingua italiana», ha svolto «un’azione di repressione del
parlato» (De Mauro 1994, p. 136). De Mauro, infatti, si compiace del
fatto che Anna del Salento, la “tarantata” della raccolta di Rossi, sia
sfuggita al «greve rullo dell’italiano scolastico» e non ne sia rimasta,
così, «soffocata» (De Mauro 1994, pp. 134-135). Nonostante ciò, i due
studiosi non negano che la scuola abbia «avviato alla conoscenza e
all’uso dell’italiano milioni di persone» (Cortelazzo 1986, p. 13). .
Prima di passare alla descrizione dei tipi di testi che gli studiosi
collocano sotto l’etichetta di italiano popolare e in particolare al dibattito
concernente il rapporto “semicolti-scuola”, è opportuno precisare che
esistono due posizioni diverse, tra gli stessi studiosi, sulla considerazione
della modalità di manifestazione dell’italiano popolare (cfr. Coluccia
2002, p. 708). Alcuni, come Lepschy e Berruto, ritengono che si tratta di
un fenomeno essenzialmente parlato: secondo Berruto, infatti, l’italiano
popolare è il risultato dell’influsso esercitato dai dialetti sull’italiano. Il
rapporto di reciproco contatto e influenza tra lingua e dialetto, tuttavia,
non deve essere inteso come «convergenza», cioè come «tendenza
inarrestabile dell’italiano e dei dialetti a congiungersi in un punto ideale
del tempo futuro», ma come un ampliamento delle varietà a disposizione
IX
dei parlanti (cfr. Grassi 1993, pp. 306-307). La presenza di numerose
varietà, tuttavia, può suscitare nel parlante attuale dubbi su quale italiano
utilizzare quando scrive. Nel passato, quando l’Italia non aveva ancora
raggiunto l’unità politica e linguistica, si discuteva con accanimento sulla
ricerca di una norma linguistica. Oggi «la maggiore scolarizzazione e la
televisione hanno contribuito a diffondere una lingua italiana
comprensibile in ogni parte della penisola» ma, nonostante ciò, esistono
competenze e gradi linguistici differenti da parlante a parlante (Serafini
1997, p. 209). Altri studiosi, invece, affermano che l’italiano popolare sia
scritto o prevalentemente scritto, come Bruni che, nel 1984, in uno studio
su due volgarizzamenti trecenteschi, ha parlato per la prima volta di
«italiano dei semicolti»: i semicolti, rispetto ai semianalfabeti o ai
semincolti che fanno un uso limitatissimo della scrittura, «sono capaci di
servirsi dello scritto sia per usi funzionali e pratici […], sia anche per fini
latamente espressivi» (D’Achille 1994, pp. 42-43). «L’italiano dei
semicolti è dunque spesso scritto e ancor più lo è stato in passato», ma «il
fatto di sapere scrivere materialmente […], non consente ai semicolti di
dominare gli aspetti grafici e testuali della scrittura» (D’Achille 2006, p.
220). La loro produzione, pertanto, presenta un forte legame con la sfera
dell’oralità e una non piena padronanza del mezzo scrittorio: non
mancano, infatti, esempi in cui lo scrivente chiede espressamente scusa
per i possibili errori grammaticali del suo testo, quasi spinto dal «senso
del disagio che gli uomini semplici provano di fronte al foglio di carta
ancora bianco» (Spitzer 1976, p. 13). Anche Cardona considera l’italiano
popolare «una resa tipica della lingua standard scritta», di cui quella
parlata ne è soltanto il riflesso. Secondo lo studioso, si tratta di un tipo di
produzione propria di «chi non ha consuetudine con le tecniche dello
scritto» e «non può che appoggiarsi al proprio testo interiore»:
«disponendo della struttura argomentativa ed espositiva propria del solo
X
parlato dialettale e substandard, unica modalità espressiva veramente
posseduta», lo scrivente, trovandosi di fronte a un pubblico che «richiede
immediatamente l’innalzamento del livello», ricorre a quello che «sente
più corretto e preciso» (Cardona 1984, pp. 151-152). D’Achille considera
l’italiano popolare come una sorta di “interlingua”, di “varietà di
apprendimento” o di “lingua in contatto” tra il dialetto e l’italiano, che
manifesta i suoi tratti peculiari soprattutto nel confronto con lo standard
scritto (D’Achille 1994, pp. 48-49). Secondo lo studioso, infatti, «quando
si parla di lingua dei semicolti si fa prevalentemente riferimento alla
modalità scritta» e «mentre le manifestazioni orali dell’italiano popolare
sfuggono a una categorizzazione precisa, […] nello scritto si possono
meglio individuare tipi testuali ben determinati e caratteri comuni»
(D’Achille 1994, p. 52).
Sulla tipologia di fonti e documenti che sono stati o possono essere
utilizzati nella stesura del profilo dell’italiano popolare, le interpretazioni
degli studiosi sono diverse. De Mauro annovera tra i primi documenti in
cui si è manifestata una lingua unitaria in Italia, i canti politici e sindacali
di protesta, le canzoni di guerra, la corrispondenza della truppa e la
diaristica di incolti o semicolti. Cortelazzo, invece, trascura i canti
popolari e annovera tra i documenti di italiano popolare i compiti
scolastici, accanto alle lettere di soldati e di emigranti, memorie
autobiografiche, testimonianze di lettori o contadini di varia provenienza.
Anche D’Achille esclude, nella sua classificazione, i canti popolari
annoverati da De Mauro e tiene distinto il filone della letteratura popolare
o popolareggiante. Include lettere, diari, autobiografie e le cosiddette
“scritture esposte” come cartelli, manifesti, tavolette ex voto, graffiti. I
temi scolastici sono da lui considerati una categoria a parte: egli ritiene
che la lingua della produzione scolastica sia piuttosto una «“varietà di
apprendimento” non ancora fossilizzata ma transitoria, suscettibile cioè
XI
di essere superata nel proseguio degli studi da un pieno possesso
dell’italiano» (D’Achille 1994, p. 54). Inoltre, egli insiste sul fatto che
testi del genere non nascono da un’«esigenza propria del soggetto, da un
bisogno, esteriore o interiore, di veicolare nello scritto un qualsivoglia
contenuto che appartiene al personale vissuto, ma da una “imposizione”
esterna» (D’Achille 1994, p. 54). È un “rischio” che anche Michele
Cortelazzo ha ben evidenziato a proposito degli scritti scolastici: «appare
difficile, se non in casi particolari ed eccezionali, motivare lo scrivere
riferendolo ad un destinatario reale (in genere a scuola si scrive per se
stessi o per l’insegnante)». Per questo motivo, Cortelazzo ritiene
necessario che la scuola agisca sullo scrivente stesso rendendogli la
scrittura un’attività significativa in quanto « gli risulta piacevole, oppure
utile, oppure gli serve per ricordare qualcosa» (Cortelazzo 1993, p. 5).
D’Achille, inoltre, insiste sul fatto che l’italiano popolare, sin dalle sue
manifestazioni più antiche, sembra nascere da percorsi diversi
dall’istituzione scolastica, come l’apprendimento privato, parziale e a
volte forse perfino casuale, della scrittura e, con Berruto, riconosce alla
scuola un ruolo di rilievo nella produzione dell’italiano popolare solo
«nel senso che è il luogo in cui i parlanti che non lo possiedono vengono
in contatto con l’italiano standard» (Berruto 1978, p. 178).
L’insegnamento scolastico, comunque, è stato da sempre «oggetto di
requisitorie da parte dei linguisti: prima per il suo eccessivo
conservatorismo, poi per il suo lassismo» (D’Achille 1994, p. 78).
La posizione di D’Achille sull’italiano “popolare” degli elaborati
scolastici si scontra, però, non solo con la realtà dei fatti, che dimostra
ampiamente come errori uguali o simili ai tratti riscontrati nei testi dei
semicolti siano presenti ancora oggi perfino nelle produzioni degli
studenti universitari (cfr. Rubano 2007, pp. 73-84), ma è contrastata
anche da due ‘eventi’: la recente tesi di un italiano popolare rappresentato
XII
attualmente anche dalla lingua degli studenti italiani, che è stata avanzata
da Bruni, per il quale «il luogo principale di produzione dell’italiano
popolare è oggi proprio la scuola» (Bruni 1984, pp.183 e 184); la
fioritura di studi sulla lingua degli studenti divisi per ordine e grado
scolastico. Degli studenti della scuola d’obbligo si è occupato Cortelazzo
(1990); sulla scuola superiore ha indagato Lo Duca (1991) e della lingua
degli studenti universitari si sono interessati Lavinio e Sobrero 1991
(Coveri-Benucci-Diadori 1998, p. 98). .
Gli errori e le lacune che si riscontrano tuttora nei compiti e negli esercizi
degli studenti, anche universitari, sono da ricondurre generalmente alla
formazione scolastica di base. Nel caso di studenti dialettofoni, tali errori
sono spesso considerati come il risultato di un’interferenza, determinata
dal contatto italiano/dialetto, e rivelano negli allievi «un grado assai
ridotto di coscienza del bilinguismo in un particolare segmento del
continuum italiano/dialetto» e «una provenienza sociale inequivocabile:
quella, per intenderci, dei gruppi in cui il dialetto non è recupero
consapevole, o una delle varietà a disposizione, ma il codice consueto di
una vita di relazione troppo ristretta». Lo studente dialettofono «oltre a
dover apprendere l’italiano, deve pure imparare come si scrive la lingua
nazionale, e non ha altri riferimenti se non la propria esperienza di
parlato» (Romanello-Bramato in Cortelazzo 1993, p. 109). .
I compiti, oggetto del mio lavoro di tesi, in realtà, non presentano puri
dialettismi, segno che gli allievi «assegnano a dialetto e lingua livelli
diversi di prestigio e di accettabilità sociale» (Romanello-Bramato in
Cortelazzo 1993, p. 109). Sanno, cioè, che a scuola e nelle loro
produzioni scritte devono usare l’italiano e si sforzano di sostituire i
vocaboli delle frasi pensate in dialetto con quelli in italiano. La matrice
dialettale, dunque, si manifesta in modo molto debole o quasi assente sul
piano lessicale, ma emerge in modo massiccio su quello morfosintattico.
XIII
La scuola ha un ruolo fondamentale nell’educazione linguistica di questi
studenti: sarebbero necessari, infatti, itinerari didattici specifici che
conducano a una piena consapevolezza della «diversità di regole tra i
codici in contatto» (Romanello-Bramato in Cortelazzo 1993, pp. 109-
110). Secondo D’Achille, inoltre, oggi da una parte siamo di fronte a una
società postalfabetizzata, dall’altra si assiste a un analfabetismo di
ritorno. Sul piano culturale, l’immagine riveste una maggiore importanza
rispetto alla scrittura. In questo contesto, bisognerebbe insistere
sull’innalzamento dell’obbligo scolastico e sul «concetto di educazione
permanente», che deve condurre a una «padronanza della lingua in tutti i
suoi aspetti, compreso quello della scrittura» (D’Achille 1994, p. 79). È
necessario, poi, «riflettere sulla formazione delle capacità di scrittura che
né la scuola né altre sedi istituzionali di formazione come l’università
sembrano tuttora in grado di affrontare efficacemente». Perché si arrivi a
una concezione della scrittura (e della lettura) non come «strumento», ma
come «oggetto di apprendimento» e, quindi, «di insegnamento» (M.E.
Piemontese in Cortelazzo 1993, p. 154-155), sarebbe opportuno, infine,
recuperare l’insegnamento di Lorenzo Milani che, nella sua Lettera a una
professoressa – opera collettiva della Scuola di Barbiana – ha parlato
dello scrivere come di una vera e propria arte che va inserita – usando le
parole dello stesso sacerdote – come «una materia che non avete
nemmeno nel programma» e non «avete mai insegnato», eppure una vera
e propria «arte» (Milani 1967, pp. 124-126).
XIV
III. I fatti linguistici più notevoli
Il termine “grammatica” racchiude in sé significati diversi. Il parlante
comune, ad esempio, quando parla di grammatica intende spesso il
manuale contenente la “grammatica”, al pari di altre materie come la
matematica o la geometria, oppure una disciplina che stabilisce cosa è
“giusto” o è “sbagliato”: si tratta di punti di vista fuorvianti poiché la
grammatica stabilisce soltanto cosa è grammaticale e cosa non lo è, cioè
cosa «funziona bene in dati contesti» (Cfr. Bertocchi-Brasca 2000, p.
178). Dall’antichità ai nostri giorni è prevalsa una concezione della
grammatica come «prescrizione dell’uso di una lingua, cioè l’insieme di
norme che andrebbero seguite per parlare correttamente una lingua»
(Bertocchi-Brasca 2000, p. 175). Per questo motivo, spesso, la
grammatica è stata riferita esclusivamente alla morfologia o alla sintassi,
dal momento che «lo studio della sintassi è più una prescrizione di come
bisogna esprimersi che una descrizione di cosa in realtà si dice» (Nespor-
Napoli 2007, p. 77). Tuttavia Nespor e Napoli sottolineano come «dal
punto di vista della linguistica una grammatica è una descrizione, e non
una prescrizione, dell’intero sistema di regolarità della lingua. […]
include perciò: fonetica, fonologia, morfologia, sintassi e semantica, che
vengono dette componenti della grammatica» (2007, p. 77).
Procedere per livelli linguistici è il modo più tradizionale e opportuno per
analizzare da vicino i fenomeni, le caratteristiche e gli errori presenti
nella scrittura degli studenti. Il presente capitolo, pertanto, intende
proporre una sintesi dei principali tratti emersi dall’analisi dei quattordici
temi degli alunni della scuola secondaria di primo grado considerati,
classificati, appunto, per tipologia linguistica, in base cioè ai vari settori
della grammatica: grafia e interpunzione, fonetica, morfologia, sintassi,
XV