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Nel secondo capitolo si affronta il tema del knowledge management ossia la conoscenza
organizzativa. Si segue l’evoluzione di tale costrutto dalla nascita alla trasformazione della
teoria nella pratica e di come tutte le teorie affini ad esso: la spirale della conoscenza,
l’apprendimento organizzativo e le comunità di pratiche, si tramutano in strumenti che
favoriscono il cambiamento e l’innovazione.
Nel terzo capitolo ci si addentra nella ricerca vera e propria, partendo dalla descrizione
delle procedure, passando a quella dei soggetti e del contesto lavorativo in cui è stata
svolta la ricerca. Infine si spiega dettagliatamente lo strumento utilizzato nella ricerca
evidenziando tutte le scale presenti all’interno del questionario.
In questo capitolo sono inoltre esplicitate le ipotesi di partenza della ricerca e di ciò che ci
aspettiamo dall’analisi dei dati.
Nel quarto capitolo vengono esposti i risultati ottenuti attraverso la ricerca.
Vengono analizzate le diverse scale che risultano funzionare meglio nel contesto
lavorativo di riferimento e le analisi statistiche effettuate su di esse. Le discussioni sui dati
emersi vertono sulle motivazioni che ci hanno spinto a correlare queste scale piuttosto che
altre e quali sono le conclusioni alle quali è possibile giungere dopo questa analisi.
Quello che ci aspettiamo di trovare è quanto il knowledge management risulta influire su
diverse scale da noi prese in considerazione, ossia la scala dei comportamenti innovativi,
la scala sulla percezione dell’innovazione di Tang e la scala sulla vision.
Infine seguirò una breve discussione sui risultati ottenuti grazie a questa ricerca.
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Capitolo 1
Il concetto di innovazione
1.1 L’innovazione in Europa e in Italia
Uno dei risultati più fermi dell’analisi economica è il nesso che corre tra gli investimenti in
ricerca e innovazione di un’economia e la sua capacità di accrescere il livello di benessere
nel tempo. Non è dunque un caso se il nostro Paese arretra sempre più nelle classifiche
internazionali della competitività e il suo ritmo di sviluppo si è ridotto significativamente
negli ultimi due decenni. L’Italia (Annunziato e Schlitzer. Confindustria, 2003) spende in
R&S una cifra pari ad appena l’1,1% del suo PIL, uno dei valori più bassi tra le economie
avanzate. È basso sia l’investimento pubblico che quello privato, quest’ultimo anche a
riflesso della ridotta dimensione delle imprese che caratterizza la nostra struttura
produttiva. Le cause di questo ritardo sono molteplici e non tutte presentano soluzioni
immediate, ma molto si può e si deve fare.
Durante gli anni novanta l’Europa ha perso terreno in termini di competitività nei confronti
degli Stati Uniti. C’è stata una minore crescita del PIL e della produttività del lavoro, così
che è aumentato il differenziale di produttività già favorevole agli Stati Uniti.
Nel 2001 la produttività totale dei fattori ha registrato un aumento molto marcato per gli
Stati Uniti, una sostanziale tenuta nel 2000 per l’Europa e, invece, una tendenza negativa
per l’Italia. È ampio il consenso tra gli analisti che a determinare tali tendenze abbia
contributo in maniera rilevante la debolezza relativa dell’Europa in termini di ricerca e
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innovazione tecnologica. In special modo la diffusione ritardata delle tecnologie di
comunicazione e la minore capacità di tradurre la ricerca di frontiera in competitività nei
mercati dei prodotti ad alta tecnologia.
Indicative sono inoltre le scelte di aumentare gli investimenti nei settori tecnologici,
soprattutto legati al settore della difesa, che hanno naturalmente ricadute considerevoli
nelle applicazioni civili di settori hi-tech.
Dalle analisi dell’OCSE (Annunziato e Schlitzer, Confindustria 2003) emerge un ulteriore
rischio per l’Europa: se da un lato infatti essa può vedere aumentare il gap che la separa
dagli Stati Uniti e Giappone, nel contempo potrebbe diventare ancora più pressante la
concorrenza di economie emergenti come India, Cina e Malesia, che grazie a politiche
mirate di valorizzazione delle competenze e di attrazione di investimenti hi-tech
internazionali si stanno molto rafforzando nei settori a media ed alta tecnologia Nel
valutare il gap europeo va sottolineata la minore capacità di valorizzare le competenze
esistenti e l’utilizzo industriale dei trovati della ricerca.
Il quadro della ricerca in Italia che emerge dal confronto internazionale rivela una
situazione di forte ritardo sia rispetto ai principali paesi industriali che ad alcune economie
europee di minori dimensioni come quelle svedese e finlandese.
Per quanto riguarda l’intensità di R&S, in termini di investimenti in percentuale del Pil,
l’Italia mostra un ritardo rispetto ai paesi europei ed a Giappone e Stati Uniti; valori
inferiori a quelli italiani si riscontrano solo per Spagna, Portogallo e Grecia.
Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad una riduzione degli investimenti pubblici
realmente destinati alla ricerca.
Possono inoltre intervenire fattori più legati alle caratteristiche dimensionali del nostro
sistema produttivo che, contribuiscono a rendere meno evidente come “ricerca
formalizzata” l’attività di innovazione che pure viene effettuata dalle imprese italiane.
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Se i livelli sono ancora bassi, è però vero che le imprese italiane, soprattutto a partire dalla
seconda metà del decennio scorso, hanno mostrato una accelerazione dell’impegno
nell’attività di ricerca.
L’aumento delle attività di R&S viene confermato anche dal maggiore numero di progetti
di ricerca presentati dalla imprese italiane sia a livello europeo che nazionale.
Nella letteratura economica il ruolo degli investimenti in ricerca e sviluppo è generalmente
riconosciuto come molto rilevante.
La definizione di ricerca utilizzata nelle statistiche ufficiali non coglie pienamente l’attività
di innovazione svolta dalle imprese italiane. Questa attività di innovazione sta alla base sia
della presenza delle imprese italiane in molti settori a media ed alta tecnologia, sia della
qualità dei nostri prodotti in molti settori tradizionali.
L’innovazione può assumere forme diverse dalla ricerca svolta nei laboratori, in molti casi
si tratta di tecnologie incorporate in nuovi materiali, nell’integrazione tra design e nuovi
materiali, nell’applicazione di tecnologie avanzate, in prodotti personalizzati sulla base
delle esigenze del cliente, anche attraverso un processo d’imitazione dei propri concorrenti.
Del resto se è vero che siamo poco presenti nei settori ad alta tecnologia siamo invece
competitivi in molti settori ad alta intensità di innovazione.
L’Italia presenta un valore aggiunto nelle imprese a medio-alta tecnologia in linea con la
media europea e superiore a Stati Uniti, Francia, Finlandia e Spagna. Ciò si spiega con la
grande specializzazione delle nostre imprese, ad esempio, nel settore dei macchinari.
Quindi “se parliamo di innovazione tecnologica nel senso più forte del termine, allora
dobbiamo riferirci agli Stati Uniti. Un paese in cui la possibilità di fare ricerca pura, di
attrarre investimenti tecnologici è stata tradizionalmente più forte, per ragioni economiche
e strutturali. Quando parliamo di innovazione nel made in Italy, si apre uno scenario
diverso basato non tanto su grandi presidi di carattere tecnologico, quanto sulle risorse e
sui giacimenti di Creatività che caratterizzano da sempre il nostro tessuto produttivo. Il
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caso italiano, soprattutto se visto all’interno della vecchia Europa, ha saputo mantenere una
sua specificità, che risulta ancora più forte in relazione a quegli aspetti, oggi tanto in voga
di intangibilità, che ci provengono direttamente dalla cultura rinascimentale come la moda
il design il food e alcune realtà del comparto manifatturiero” (Panzarani, 2005, p 11).
Un indicatore molto più vicino alla propensione dell’innovazione nelle imprese italiane è la
percentuale di nuovi prodotti sul fatturato.
Il modello di innovazione italiano appare più evidente. Ad esempio quando confrontiamo
le quote mondiali di esportazioni con gli indicatori dell’intensità di ricerca e con quelli
sulla percentuale di nuovi prodotti su fatturato, emerge chiaramente che la nostra
competitività si basa su una forte capacità di innovare; capacità di innovare che non si
identifica e non trova origine nella spesa per ricerca come rilevato dagli indicatori
tradizionali.
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Non va sottovalutata la necessità di accelerare questa evoluzione del nostro sistema
produttivo, soprattutto favorendo la produzione di tecnologie avanzate nei settori di punta e
favorendo il rafforzamento nei settori a media intensità tecnologica in prospettiva di un
aumento della domanda più marcato.
I mercati sono guidati da una domanda molto più esigente, le tecnologie pervadono
rapidamente anche i settori tradizionali, caratterizzandone fortemente la qualità. Ciò
significa che l’innovazione più formalizzata, quella generalmente più vicina alla ricerca,
dovrà assumere un peso maggiore.
Le imprese devono passare da un’innovazione di primo livello ad un’innovazione di
secondo livello, più profonda, strutturata e continua e più orientata al medio periodo.
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Dati confindustria 2003, La ricerca e l’innovazione in Italia, Annunziato P. e Schlitzer G.
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1.1.1. I vincoli alla crescita delle imprese italiane in R&I
In Italia esistono ancora molti vincoli alla crescita. Questi vincoli sono: la dimensione delle
imprese, la rigidità del mercato del lavoro, la mancanza di una politica della ricerca chiara
e la scarsità di competenze scientifiche di livello internazionale.
Il primo vincolo è la dimensione delle imprese, che è molto contenuta. La grande presenza
di piccole e medie industrie se da un lato ha permesso al nostro paese di essere flessibile e
competitivo su molti settori, con punte di dominio, ora che la competitività si basa sempre
di più sulla ricerca e innovazione rischia di rappresentare un vincolo. Ciò perché si
riscontra una minore attività di R&S nelle imprese di dimensioni ridotte in quanto le PMI
dispongono di mezzi comparativamente limitati (Ghobadian & Gallear, 1996; Rothwell,
1989; Vossen, 1998); questo aspetto è comune a tutti i paesi, ed in particolare nel nostro
paese. Sarebbe molto più elevata infatti la nostra attività di R&S se immaginassimo di
avere una struttura dimensionale e settoriale simile ai nostri principali concorrenti.
Un secondo vincolo è stato rappresentato dalla rigidità del mercato del lavoro.
L’Italia ha avuto negli ultimi decenni un mercato del lavoro molto rigido. Le imprese
hanno cercato di superare gli ostacoli posti da questa rigidità e soprattutto dall’elevato
costo del lavoro aumentando gli investimenti in innovazioni di processo e in macchinari.
Ciò si è riflesso in un rapporto capitale/lavoro molto più alto dei nostri principali
competitori.
L’intensa innovazione di processo ha da un lato permesso alle nostre imprese di essere
competitive sui mercati internazionali, soprattutto nei settori in cui eravamo già leader per
qualità e innovatività dei prodotti, ma rischia ora di rappresentare un forte limite a
successivi percorsi di crescita.
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La flessibilità del mercato del lavoro è un requisito indispensabile per innescare e
permettere processi di crescita rapidi in rapporto alle mutate caratteristiche dei mercati
internazionali.
Questo dato è ancora più rilevante per le imprese operanti nei settori hi-tech e per le attività
di ricerca.
Un ulteriore ostacolo alla crescita in Italia delle attività di R&S è stata la mancanza di una
politica nazionale chiara e di lungo periodo per la ricerca, sia pubblica che privata.
Sempre nella distribuzione dei fondi, è mancato un disegno complessivo, che permettesse,
sulla base dell’analisi dei punti di forza e di debolezza del sistema produttivo, di orientare
gli investimenti (sia in termini di incentivi alle imprese che di fondi per ricerca effettuati da
soggetti pubblici) verso determinati settori.
Infine un forte ostacolo alla diffusione della R&S nelle imprese, soprattutto PMI, è stata
l’assenza di un sistema della ricerca pubblica flessibile e capace di dialogare con il sistema
produttivo.
Le università e gli Enti pubblici di ricerca sono stati caratterizzati da logiche di
autorefenzialità e di ridottissima apertura al mercato e soprattutto alle PMI.
Non sono certo mancati casi di contatto e collaborazione, da cui sono stati generati tra
l’altro, esempi di successo della ricerca italiana.
Ma questo processo ha riguardato prevalentemente le grandi imprese e i grandi atenei o
centri di ricerca.
Per la maggior parte delle imprese italiane (innovatrici e non), quindi l’attività di
innovazione è inibita o rallentata da fattori di natura economico-finanziaria. Costi di
innovazione troppo elevati e mancanza di risorse finanziarie interne o di altre fonti di
finanziamento hanno rappresentato il principale vincolo all’introduzione di innovazioni
negli anni 2002-2004.