2
funzionali ed operative, sia all’interno di diverse strutture, anche statuali, sia ai vari
livelli dell’organizzazione della società.
È proprio dalla duplice constatazione sia del processo di mutamento delle
dinamiche organizzative del lavoro, caratterizzato da una sempre più preponderante
logica di “dislocamento”, che dalla crescita esponenziale di richieste di managerialità in
ogni ambito settoriale, che si instaura quest’analisi della figura dirigenziale “a 360
gradi”.
Il dirigente costituisce, infatti, la figura leader nell’organizzazione dell’apparato
amministrativo – decisionale sia nel settore privato che in quello pubblico, ed oggi più
che mai deve fare i conti con un nuovo modo di esercitare l'autorità.
Si tratta di un cambiamento radicale che riguarda gli aspetti economici, sociali,
istituzionali, legislativi: i vecchi criteri di gestione hanno lasciato il posto ad una nuova
cultura organizzativa in cui l'attenzione è focalizzata sulla necessità di offrire servizi
efficienti e di qualità con il minor impiego di risorse.
Si osserva inoltre che il graduale processo di omogeneizzazione fra settore
privato e quello pubblico ed il conseguente processo di isomorfismo di quest’ultimo con
le organizzazioni private contribuiscono a sviluppare modelli di razionalizzazione nella
gestione delle strutture e nel controllo dei costi anche nell’ambito di un settore, quello
statale, tradizionalmente poco avvezzo a tali logiche “aziendalistiche”.
Quali analogie e quali differenze devono allora essere ricercate fra la figura del
dirigente pubblico e quella del manager privato?
È proprio a tale annosa domanda che l’elaborazione si propone di dar risposta.
A tal fine non si può prescindere da un accurata, nonché puntuale, analisi della
disciplina che regola le due figure dirigenziali, con particolar riguardo ai tratti peculiari
di ognuna di esse.
Il lavoro sarà dunque strutturato in tre fondamentali parti, la prima delle quali
tratterà il dirigente privato.
Nell’esaminare il profilo di un dirigente operante nel contesto organizzativo di
un’azienda industriale medio grande, che meglio si adatta ad un confronto con la
pubblica amministrazione, la prima difficoltà riguarda proprio l’individuazione di una
figura unitaria di dirigente di impresa, cui si tenterà di sopperire prendendo in
considerazione le diverse nozioni legali, contrattuali e giurisprudenziali.
3
Dottrina e giurisprudenza sono tuttora impegnata nell’elaborazione della nozione
di dirigente; la definizione legale del codice civile si limita a dire che il dirigente non è
né un operaio né un impiegato, pur condividendo con tali categorie la subordinazione
del rapporto di lavoro.
Dal punto di vista contrattuale invece, la categoria dirigenziale è definita
secondo una declaratoria molto generale e si caratterizza essenzialmente dall’assenza
della tipica tutela del lavoro subordinato.
Ne deriva una disciplina minimale, imperniata sulla libertà del datore di lavoro
di risolvere il rapporto e sull’esclusione delle limitazioni dell’orario di lavoro
giornaliero e settimanale.
Ciò è quanto traspare sia dall’analisi degli aspetti peculiari dello svolgimento del
rapporto di lavoro (tra i quali ricordiamo, oltre ai caratteristici elementi retributivi dei
fringe benefits o alla previsione delle stock options, anche l’obbligo di esclusiva,
giuridicamente concretizzato nel patto di non concorrenza), sia dallo studio dei
fenomeni legati alla cessazione del rapporto.
Particolare evidenza occorre, a questo punto, attribuire all’esclusione dei
dirigenti dalle tutele legali in materia di licenziamento disposta ai sensi dell’art. 10,
legge n. 604 del 1966, che viene notoriamente ricondotta ad un’asserita specialità del
relativo rapporto di lavoro, in ragione del marcato grado di fiducia che permea lo
svolgimento dello stesso.
Analizzata la figura del manager privato nei suoi tratti più caratteristici, ci si può
ora occupare delle problematiche e delle dinamiche legate alla funzione e al ruolo del
dirigente operante nell’ambito del settore pubblico che è stato interessato da quel
particolare fenomeno chiamato “privatizzazione del pubblico impiego”, che ha visto il
definitivo superamento del regime giuridico pubblicistico che disciplinava il rapporto di
servizio dei pubblici dipendenti. Dal campo di osservazione saranno perciò esclusi i
dirigenti dei comparti che restano regolamentati da fonti pubblicistiche, ovvero
magistratura, avvocatura di stato, corpi militari e di polizia, carriera diplomatica,
prefettizia ed universitaria, oltre ai dirigenti degli enti locali, la cui introduzione formale
è avvenuta con il d.p.r. 25 giugno 1983, n.347.
4
L’esame della dirigenza pubblica partirà dall’evoluzione del quadro normativo
di riferimento, impregnato dalle produzioni legislative che hanno portato ad una
generale riformulazione e riconsiderazione dell’apparato pubblico.
Questo dà la dimensione della trasformazione che si è prodotta, per effetto delle
riforme definite negli anni ’90, e della quale si ripercorrono le tappe: si è passati così, in
pochi anni, da una pubblica amministrazione in cui il rispetto delle norme ed il
formalismo giuridico rendevano lente e “burocratizzate” le procedure amministrative ad
un’organizzazione con strutture più agili, moderne ed efficienti, al servizio del cittadino,
ed ispirate, appunto, ai principi di matrice aziendale privata, di efficienza, efficacia ed
economicità.
Dal quadro delineato della riforma emerge che la migliore allocazione e gestione
delle risorse, nel perseguire i succitati obiettivi, può avvenire solo attraverso il
contemperamento tra pubblico e privato: cosi il dirigente diviene il punto centrale della
riforma.
Una volta ripercorsi i nodi cruciali del processo riformatore, aspetto principale
del quale è stata l’importazione, in un terreno in cui era del tutto assente, della logica
tipica che governa (o dovrebbe governare) l’impresa privata e, al suo interno,
l’organizzazione del lavoro (ovvero una logica di diritto privato), si prenderanno in
considerazione le caratteristiche cui si ispira il nuovo modello di dirigenza.
Innanzitutto occorrerà definire le funzioni ed i poteri dei dirigenti, per poi
affrontare con ogni cognizione di causa le problematiche fondamentali, riferite al
conferimento degli incarichi e alla temporaneità degli stessi, che avvolgono la nuova
disciplina della dirigenza e sollevano questioni giurisprudenziali a riguardo.
Ulteriore aspetto di non lieve caratura rimane inoltre quello della responsabilità
dirigenziale, di cui viene in primo luogo fornito un quadro normativo di riferimento,
indice anche dell’attenzione legislativa sul tema, nonché del profondo legame esistente
tra l’evoluzione della figura del dirigente pubblico e l’insieme di responsabilità
attribuitegli.
È di particolare importanza, infatti, la descrizione dei caratteri e della natura
della responsabilità gravante sui soggetti che ricoprono posizioni dirigenziali e delle
procedure di controllo e valutazione cui essi sono sottoposti e che devono, a loro volta,
attuare.
5
Con il processo riformatore del pubblico impiego, infatti, il passaggio, da
un’amministrazione che pone come criterio di legittimazione e di valutazione della
propria attività unicamente il rispetto della norma e delle procedure, ad
un’amministrazione attenta al risultato secondo criteri di valutazione propri della
gestione aziendale quali l’efficienza, l’efficacia e l’orientamento al cliente/cittadino, ha
comportato l’introduzione di sistemi basati sulla pianificazione, programmazione e
controllo degli interventi sia a livello strategico che gestionale.
Si conclude in tal modo l’esposizione delle tipicità insite nella disciplina
giuslavoristica relativa alla configurazione del dirigente in ambito privato e pubblico
privatizzato, giungendo così al nodo cruciale del confronto tra le due differenti (o
simili?) figure dirigenziali, che è poi l’obiettivo dell’elaborazione.
In considerazione delle dissertazioni finora compiute, e partendo dal presupposto
fondamentale che le riforme dette di “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego,
siano state attuate e previste nel contesto di un generale disegno di omogeneizzazione di
discipline pubbliche e private, si affronteranno le problematiche relative all’indiscusso
passaggio del dirigente pubblico da burocrate a manager nell’ambito della diffusione di
un mutato stile di gestione del settore pubblico che prende il nome di new public
management, oltre a sviluppare il tema della fiduciarietà quale elemento costitutivo del
rapporto dirigenziale e dell’istituto della mobilità dirigenziale, introdotto dagli artt. 8 e 9
della l. n. 145/2002 e recepito all’interno del Testo Unico del Pubblico Impiego (D. Lgs.
n. 165/2001) nell’art. 23 bis.
L’evoluzione della pubblica amministrazione richiede, infatti, al futuro dirigente
pubblico l’assunzione di nuovi ruoli e responsabilità: serve dunque un rinnovamento
della cultura e delle competenze professionali e la definizione di nuovi profili, anche e
soprattutto in considerazione del delicato rapporto intercorrente tra politica e
amministrazione, che prevede nette distinzioni di operatività.
In secondo luogo, il capitolo dedicato alla comparazione delle due figure
direttive prese in esame, tratterà alcuni tratti peculiari del rapporto di lavoro dirigenziale
dai quali si possono desumere degli elementi di differenziazione tra le due discipline.
In particolare verrà messo in luce: il diverso inquadramento nella gerarchia
organizzativa, che vede il manager pubblico collocarsi alla stregua degli altri lavoratori
subordinati, ai sensi del disposto codicistico dell’art. 2024, mentre il dirigente pubblico
6
viene assimilato, in conformità del 2° comma, art. 5 del D. Lgs. 165/2001, al datore di
lavoro privato; le differenti modalità di accesso alla categoria e disciplina delle
mansioni ed infine si tratterà del delicato aspetto retributivo, sottolineando la mancanza
più grave che viene imputata al settore pubblico, quella di prevedere un minimo (se non
addirittura assente!) collegamento tra la retribuzione e i risultati raggiunti.
Il capitolo si conclude con l’analisi delle peculiarità afferenti la risoluzione del
rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro, che si concentrerà, nello specifico, sulla
possibilità di un libero recesso anche nei confronti del dirigente pubblico, alla stregua di
quanto previsto dall’art. 2118 c.c. per il manager privato.
In ultimo, come terminale logico della trattazione qui presentata, verrà posto
l’accento sulla necessità, sempre più irrinunciabile, di instaurare un sistema di controlli
come naturale conseguenza di una diffusione della cultura della valutazione anche
all’interno delle amministrazioni pubbliche.
È in questo campo che la figura dirigenziale gioca un ruolo fondamentale,
nonché strategico, quale principale gestore delle risorse umane a lui sottoposte: a lui
spetterà l’arduo compito di predisporre le misure e gli interventi necessari affinché il
funzionamento della propria unità operativa avvenga secondo le logiche dell’efficienza,
efficacia ed economicità, nel contesto di un essenziale orientamento al risultato,
attivando, allo stesso tempo, quegli strumenti capaci di creare il clima
partecipativo/motivazionale indispensabile perché l’impegno lavorativo sia anche un
momento di crescita umana e professionale.
7
CAPITOLO PRIMO
IL DIRIGENTE PRIVATO
1 Qualificazione fenomenologica della figura
dirigenziale
Il moltiplicarsi di fenomeni di aggregazione societaria, la creazione di gruppi
imprenditoriali sempre più complessi e diversificati, con la necessaria costituzione di
organismi di coordinamento e di controllo, hanno sfumato di molto la connotazione
gerarchica della professionalità dirigenziale connessa a quella personalizzazione
individualistica e verticistica della dirigenza, tanto da considerare le stesse definizioni
giurisprudenziali consolidate una sorta di concezione filosofico-romantica del manager
d’azienda1.
1
A. DI FRANCESCO, La dirigenza privata: le trasformazioni della professionalità dirigenziale nell’attuale
sistema dell’impresa, Napoli 2006.
8
Nell’affrontare, infatti, il delicato tema della definizione della figura
dirigenziale, da cui, peraltro, la trattazione non poteva prescindere, ed oltrepassando il
nodo cruciale della nozione legale, nonché di quella contrattuale e giurisprudenziale,
occorre soffermarsi sulle nuove qualificazioni dirigenziali. Ecco così apparire,
soprattutto ad opera della giurisprudenza, all’interno della classificazione classica di
stampo verticistico, lo “pseudo dirigente”, il “mini-dirigente”, il “dirigente
convenzionale”: entità talora astratte, talora reali in ragione della trasformazione
dell’impresa stessa, tuttavia plasmate (ad hoc?) al fine di arricchire di tutele la figura
dirigenziale, in particolare nell’ambito della fattispecie del licenziamento.
Il proliferare di definizioni volte a specificare, limitare, sottocategorializzare la
figura professionale del dirigente potrebbe tuttavia denotare una grave crisi della
qualifica stessa, che certamente consegue ad una difficoltà, per gli stessi operatori, di
inquadrare con certezza talune zone di confine tra qualifica impiegatizia di livello
superiore e la dirigenza vera e propria.
Si ritiene nonostante tutto, che la figura dirigenziale si manifesti ancora quale
“cartina tornasole” delle tutele garantistiche apprestate dall’ordinamento anche
nell’ambito di una professionalità votata alla flessibilità, al quale principio, nell’attuale
sistema giuslavoristico, non appare possibile sottrarsi senza che lo stesso sia equiparato
al diverso concetto di precarietà.
1.1 Definizione di dirigente privato
Il pervenire ad una definizione di dirigente è il risultato, tutt’altro che agevole, di
una complessa interazione tra nozione legale, contrattuale e giurisprudenziale.
1.1.1 Nozione legale
Il primo ambito, quello legale, ha una valenza prettamente negativa2, nel senso
di configurare una serie di discipline specifiche del lavoro subordinato non applicabili al
2
Cfr. M. T. SALIMBENI, Il rapporto di lavoro dirigenziale nei sistemi di organizzazione aziendale ispirati
alla “qualità totale”, in Dir. rel. Ind. 1994, p. 20, secondo cui “la caratteristica connotazione in negativo
della disciplina legale del lavoro dirigenziale, consistente nell’esclusione dell’ambito di applicazione di
alcune rilevanti normative a carattere protettivo, richiede un’attenta valutazione circa la sussistenza, in
9
dirigente, per incompatibilità assoluta o relativa. D’altro canto, la funzione dell’art.
2095 c.c. individua una caratteristica fondamentale del sistema di inquadramento dei
lavoratori: la natura rigorosamente oggettiva dei criteri di appartenenza a ciascuna
categoria.
Prima di procedere all’analisi della nozione legale della categoria professionale
del “dirigente”, si ritiene di non potersi esimere da alcune considerazioni preliminari e
generali sulle trasformazioni strutturali dell’impresa negli ultimi lustri e sulle incidenze
della stessa trasformazione per quanto attiene alla nozione di “subordinazione”,
elemento che permea anche la figura professionale del dirigente3.
L’impostazione attualmente diffusa nel mondo del lavoro e dell’impresa risulta
identificarsi nel concetto di ottimizzazione sinergica, in coordinamento con le differenti
strutture in cui si articola l’unità aziendale. Ciò non ha potuto non avere effetti su quella
che potrebbe definirsi una de-attualizzazione del concetto di “rapporto di lavoro
subordinato” derivante dalla definizione normativa, tanto vexata quanto esaminata,
dell’art. 2094 c.c.4.
Un dato tuttavia appare incontrovertibile. Se gli anni ’90 sono stati gli anni della
discussione e dell’analisi di un sistema non più adeguato all’odierno mondo del lavoro5,
il nuovo secolo propone, sotto forma fenomenica, una categoria contrattuale del
rapporto di lavoro in cui la subordinazione si manifesta come un concetto mediato tra
flessibilità ed autonomia, tra competenze gerarchiche e coordinamento, tra dipendenza e
collaborazione, tale da tradursi in una crisi della definizione stessa dell’art. 2094 c.c6.
Tornando al tema della trattazione, seppur non dimenticando che la crisi
“ideologica” del concetto di subordinazione non ha potuto non sortire effetti sulla figura
dirigenziale, occorre precisare che un concetto di dirigente non è espressamente definito
dalla legge.
ogni prestazione che si fregi degli attributi della managerialità, di quegli elementi che giustificano, in base
alla ratio della singola disciplina, la non applicazione della stessa alla categoria dei dirigenti”.
3
A. DI FRANCESCO, op. cit., Napoli 2006, p. 1.
4
Si confronti il commento all’art. 2094 c.c. su M. GRANDI – G. PERA, Commentario breve del lavoro,
Cedam, Padova, 2005, . 405 ss; G. FAVALLI (a cura di), Codice del rapporto di lavoro, La Tribuna,
Piacenza, 2003; P. ICHINO, Il lavoro subordinato: definizione ed inquadramento, in Commentario al
Codice Civile diretto da P. SCHLESINGER, Giuffrè, Milano, 1992, p. 350 ss.
5
Si confronti per un’indagine dibattimentale: atti convegno AIDLASS Salerno, 1998, Impresa e nuovi
modi di organizzazione del lavoro”; atti incontro di studio CNEL, Nuove forme di lavoro tra
subordinazione, coordinazione ed autonomia, Roma, 1996; parlamentino CNEL. Per una recente analisi
si veda G. SANTORO PASSARELLI, Il diritto dei lavori, Giappichelli, Torino, 2004, in particolare Sez. II.
6 A. DI FRANCESCO, op. cit., Napoli 2006, p. 3.
10
Tuttavia una prima, sommaria, determinazione ne è però possibile tenendo
presente l’art. 2095 c. c., così come riformulato dall’art. 1, l. 13 maggio 1985, n. 190
“Riconoscimento giuridico dei quadri intermedi”.
Esso, distinguendo i prestatori di lavoro subordinato in quattro categorie
(dirigenti, quadri, impiegati ed operai), colloca al vertice i dirigenti e l’art. 1 della
precitata legge n. 190 del 1985, definisce i quadri – ossia la categoria immediatamente
sottostante ai dirigenti – come quei lavoratori che “pur non appartenendo alla categoria
dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai
fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”7.
Se ne arguisce perciò che il dirigente svolge funzioni di rilevante importanza per
lo sviluppo e l’attuazione degli obiettivi dell’impresa, ai massimi livelli, per cui sembra
presumibile, in assenza di plausibili alternative logiche, che debba trattarsi, secondo la
concezione accolta dalla giurisprudenza già prima dell’entrata in vigore della legge del
13/5/1985, n. 190, di quel collaboratore del datore di lavoro che ha un ampio influsso
sull’intera azienda od un suo ramo autonomo, così da influenzare l’andamento
dell’azienda stessa e determinarne la sorte8.
D’altra parte il comma 2 dell’art. 2095 dispone che le “leggi speciali e le norme
corporative, in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura
dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle suindicate categorie”9.
Anche dopo l’abolizione dell’ordinamento corporativo, che comprendeva, quali
norme corporative, i contratti collettivi corporativi10, la statuizione mantiene portata
7
RICCI R., Il rapporto di lavoro dei dirigenti d’azienda, UTET, 1992
8
Di questa giurisprudenza si veda fra gli esempi: Cass. Civ., 25/10/1989, n. 4358, in “Rass. Giur. ENEL”,
1990, 714: “Il tratto distintivo della qualifica di dirigente rispetto a quella di impiegato con funzioni
direttive è dato dall’ampiezza delle rispettive funzioni: estese per la prima qualifica all’intera azienda o ad
un ramo autonomo di questa e destinate ad incidere con carattere essenziale sulla vita dell’azienda;
circoscritte, invece, per la seconda ad un settore, ramo o ufficio della medesima: vi è pertanto
incompatibilità tra la qualifica di dirigente e l’esercizio di mansioni con vincolo di dipendenza gerarchica
anche nei casi di aziende ed organizzazione complessa con pluralità di dirigenti e graduazione di
compiti”.
9
A. GARILLI, voce Dirigente d’azienda, in Dig. Cmm., IV, Torino, 1989, p. 284, a proposito della novella
del 1985, relativa ai quadri , sottolinea come, la stessa, “abbia lasciato inalterato il carattere descrittivo
della disposizione, risolvendosi in un uso meramente simbolico dello strumento legislativo, senza alcuna
sostanziale conseguenza sul piano normativo”.
10
Cioè quelli stipulati vigente l’ordinamento sindacale del periodo fascista, soppresso con d. lg. lgt.
23/11/1944, n. 369.
11
precettiva, in quanto viene pacificamente considerata attualmente riferibile
all’“ordinamento” contrattuale collettivo post-corporativo11.
Ciò è espressamente confermato, per la categoria dei quadri, dall’art. 2, l. n.
190/1985, ove è affermato che “i requisiti di appartenenza alla categoria […] sono
stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale o aziendale in relazione a ciascun ramo
di produzione e alla particolare struttura dell’impresa”12, ma può essere benissimo
accettata la riferibilità alla contrattazione anche per le rimanenti categorie,
indipendentemente da specifici interventi legislativi.
Dalla norma così interpretata può dedursi la relatività della nozione di dirigente,
soprattutto in riferimento ai contratti collettivi che possono stabilire requisiti di
appartenenza alla categoria dirigenziale diversi gli uni dagli altri, o perché in funzione
dell’attività produttiva e della struttura delle imprese, come prevede lo stesso art. 2095,
o perché in funzione anche della possibile frammentazione della rappresentanza dei
dirigenti addetti alla stessa attività produttiva fra più associazioni di categoria,
frammentazione legittima in attuazione del pluralismo sindacale consentito e garantito
dall’art. 39 Cost.13
L’altro fondamentale termine di riferimento normativo per postulare
l’appartenenza ad una delle categorie è costituito dall’art. 2103 c.c. il quale, come noto,
recita che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente
acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna
diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori […]
l’assegnazione stessa diviene definitiva ove la medesima non abbia avuto luogo per
11
F. BASENGHI, Il licenziamento del dirigente, Milano, 1991, p. 19. Ma già G. PERA, voce Dirigente
d’impresa o d’azienda, in Noviss. Dig., app. II, Torino, 1980, p. 1099.
12
Secondo G. BOARETTO, Qualifica dirigenziale, in Lav. Prev. Oggi, 1991, p. 1892, “sul piano giuridico
l’applicazione ormai generalizzata della legge sui quadri 13 maggio 1985, n. 190 ha valore semantico di
non secondaria importanza per chi cerca di comprendere la spinta verso l’alto di tutte le categorie o di
definire, a fini pratici, i limiti attuali di ogni categoria”.
13
Sostanzialmente in questo ordine di idee si veda Cass. Civ., 14/5/1983, n. 3353, in Notiz. Giur. Lav.,
1983, p. 356: “Compete all’autonomia negoziale delle associazioni sindacali, non solo in forza dello
specifico disposto degli artt. 2071, comma 2, 2095, 2° comma, c.c. e 96 disp. Att. Stesso codice, ma
anche come espressione del principio costituzionale di libertà sindacale, la determinazione dei requisiti
necessari per l’appartenenza alle categorie fondamentali dei prestatori di lavoro, nonché per l’attribuzione
agli stessi delle singole qualifiche, anche attraverso stipulazione di contratti collettivi particolari per
determinati ambiti territoriali o suddivisioni dei vari settori produttivi…”
12
sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un
periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi […]”.
È evidente, pertanto, ai fini dell’inquadramento in una categoria, la centralità del
concetto di “mansione” che, in una logica dinamica, può essere definito, nell’ambito di
una famiglia professionale, come l’insieme delle competenze assegnate ad un lavoratore
all’atto dell’assunzione o, successivamente alla stessa, in virtù di un provvedimento
aziendale, nel rispetto, comunque, del principio di salvaguardia del patrimonio
professionale conseguito dal lavoratore14.
1.1.2 Nozione contrattuale
Fissate le nozioni concettuali, resta a questo punto il problema di stabilire quali
siano gli ulteriori meccanismi definitori che consentono di collegare l’inquadramento in
una categoria, con lo svolgimento di determinate mansioni, ovvero di determinare quale
sia l’anello di congiunzione tra “ciò che si è” e “ciò che si fa”, tra il “nomen iuris” e le
“competenze”.
Ai fini della trattazione non rileva, in particolare, analizzare la complessa e mai
risolta problematica del diritto all’inquadramento posta dall’art. 2103 c. c.; bensì, si
tratta di “fissare in base a quale criterio extra-codicistico si può ancorare un certo tipo
di attività alla qualifica dirigenziale, attesa la sua ineffabile differenza, formale e
sostanziale, con le altre categorie legali”15.
Il criterio congiuntivo e traspositivo tra i due concetti va individuato nella
contrattazione collettiva, che ha dato, per così dire, un’impronta solenne ed autorevole
al criterio, ormai assodato, della delegificazione specifica in materia di categorie
contrattuali16, formulando, peraltro, definizioni facenti capo a criteri strettamente
organizzativi e funzionali17.
14
C.CARDARELLO, Il dirigente, Milano 2000, p. 23.
15
Tratto da C.CARDARELLO, op. cit., Milano 2000, p. 24.
16
Non bisogna peraltro sottacere sul fatto che con l’avvento del mercato unico europeo “l’attività
normativa nel settore giuslavoristica è stata essenzialmente rivolta a favorire la mobilità geografica dei
lavoratori mediante l’abolizione delle discriminazioni fondate sulla nazionalità quanto all’impiego, alla
retribuzione, all’ambiente di lavoro, agli standard di protezione sociale, nonché a promuovere la mobilità
professionale sviluppando una politica comune della formazione”. Per questo ed altri spunti di diritto
privato europeo, vedi P. E. ROSSI, La funzione dirigenziale nel diritto privato europeo, in Dir. Lav., 1998,
I, p. 88. Vedi altresì N. CRISCI, Funzionari e dirigenti bancari, in Lav. Prev. Oggi, 1988, p. 1357-1361.
17
Per un commento agli accordi contrattuali del 1990 relativi alla categoria dirigenziale, vedi A.
BELLAVISTA, Dirigenti: accordi 1990, in Dir. Prat. Lav., 1991, p. 217.
13
Prendendo, così, a titolo esemplificativo le declaratorie contrattuali dei settori
maggiormente significativi dell’apparato produttivo, ed iniziando, in primo luogo dal
settore industria18, “sono dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistano le
condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 c.c. e che ricoprono nell’azienda un
ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere
decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la
realizzazione degli obiettivi dell’impresa”. “Rientrano sotto tale definizione, ad
esempio, i direttori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo
di importanti servizi o uffici, gli institori ed i procuratori ai quali la procura conferisca
in modo continuativo poteri di rappresentanza e di decisione per tutta o una notevole
parte dell’azienda”.
Per questo settore, dunque, viene assunto come fattore determinante il grado di
professionalità, acquisita in relazione al proprio curriculum ed espletata nel singolo
rapporto di lavoro. Ad essa devono essere affiancati autonomia e potere decisionale:
intendendosi per tali la verificata capacità di agire nel merito degli obiettivi stabiliti
dall’impresa solo attraverso semplici direttive di programma. In questo senso, tali
obiettivi vengono promossi, coordinati e gestiti19.
Nel settore commercio/terziario20 sono dirigenti “coloro che, rispondendo
direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato,
svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e
discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l’impresa o ad una
sua parte autonoma”. La qualifica di dirigente comporta “la partecipazione e la
collaborazione, con la responsabilità inerente al proprio ruolo, all’attività diretta a
conseguire l’interesse dell’impresa e il fine della sua utilità sociale”. “Sono dirigenti, a
titolo esemplificativo: gli institori, a norma dell’art. 2203 ss. c. c.; i procuratori di cui
all’art. 2209 c. c., con stabile mandato ad negozia; i direttori; i condirettori; i
vicedirettori; i capi di importanti servizi ed uffici, sempre che le loro funzioni si
esercitino nelle condizioni specificate nei commi precedenti”.
18
Ccnl Dirigenti aziende industriali, 23 maggio 2000, art. 1.
19
Per un commento alla declaratoria dell’industria, seppur riferita al relativo contratto collettivo 9 ottobre
1979, vedi B. FERRARO, Il dirigente d’azienda tra legge e contrattazione collettiva, in Nuovo dir., 1990,
p. 73.
20
Ccnl Dirigenti aziende terziario, 26 aprile 1995, art. 1.
14
Nel settore agricoltura21 si considerano dirigenti coloro che “investiti di tutti o
di una parte importante dei poteri del datore di lavoro, sia persona fisica che giuridica,
su tutta l’azienda o su parte di essa, con struttura e funzioni autonome, hanno poteri di
iniziativa ed ampie facoltà discrezionali, nel campo tecnico o in quello amministrativo o
in entrambi, in virtù di procura espressa o tacita, o di delibera da parte degli organi
statutari, nel caso di persona giuridica, e rispondono dell’andamento dell’azienda al
datore di lavoro o a chi per esso”22.
Questa declaratoria pone in primo piano la circostanza che il dirigente sia
investito di tutti o di una parte importante dei poteri del datore di lavoro23. La ragione
della sottolineatura così configurata è da rinvenire nell’assoluta particolarità del settore,
caratterizzato anche da imprese a base familiare, con unico proprietario, con struttura
organizzativa non molto complessa: ebbene, deve ritenersi che il trasferimento di “tutti”
i poteri al personale dirigente sia caratteristico di queste imprese minori. Diversamente,
la clausola acquista la sua piena portata in riferimento alle imprese agricole di una certa
dimensione, con organizzazione articolata e connessa suddivisione in aree autonome di
lavoro e intervento.
Alle declaratorie dei contratti collettivi è necessario fare riferimento, in primo
luogo, per verificare la sussistenza del lavoro dirigenziale24. Solo la carenza di una
specifica disciplina collettiva di settore, oggi residualmente ipotizzabile25, può
consentire il vaglio della giurisprudenza con i parametri della nozione legale26.
21
Ccnl Dirigenti aziende agricole, 7 maggio 1997, art. 2.
22
La regola che il contratto collettivo ha valore primario nella determinazione dei criteri di attribuzione
della qualifica opera anche nel settore agricoltura, pure sotto l’aspetto del potere, attribuito alle parti
collettive, di prevedere nuove figure di prestatori di lavoro, al di là delle tradizionali indicazioni
legislative: sul punto cfr. Cass. 8 ottobre 1981, n. 5287.
23
Vedi Cass. 15 giugno 1984, n. 3594, secondo cui, premessa la suddetta definizione contrattuale del
dirigente, la figura del fattore di campagna designa l’impiegato di concetto che collabora con il
conduttore o chi per lui, nell’organizzazione dell’azienda nel campo tecnico o amministrativo, o in
entrambi, con maggiore o minore autonomia di concezione nell’ambito delle facoltà affidategli. Negli
stessi termini Cass. 6 novembre 1982, n. 5822.
24
Cass. 8 agosto 1983, n. 5295, in Not. Giur. Lav., 1983, p. 351; Cass. 5 agosto 1983, n. 5252.
25
F. BASENGHI, op. cit., p. 22, osserva che la praticabilità del metodo in parola “è logicamente preclusa
laddove le parti collettive omettano – o comunque non provvedano a delineare in modo sufficientemente
preciso – l’indicazione dei tratti di discriminazione intercategoriale”. Per una fattispecie particolare, di
carenza dei requisiti contrattuali della figura dirigenziale, relativo ai dirigenti portuali, vedi Cass. 8 marzo
1993, n. 2778, che sancisce il ricorso ai (soli) criteri legali desumibili dall’art. 2095 c. c., con una evidente
funzione di integrazione ad opera del giudice.
26
Nel senso che l’art. 2095 c.c. costituisce “il terreno d’incontro dell’autonomia collettiva e dell’azione
del giudice, l’una quale oggetto di interpretazione da parte della seconda, la quale, a sua volta, è tenuta a
ricercare e ad applicare la concreta volontà delle parti stipulanti (e ciò secondo i principi legali di cui agli
15
In particolare, “nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione
dell’inquadramento di un lavoratore subordinato, non può prescindersi da tre fasi
successive, e cioè: dall’accertamento, di fatto, delle attività lavorative in concreto
svolte; dall’individuazione delle categorie, qualifiche e gradi previste dal contratto
collettivo applicabile nella specie e delle singole nomenclature; dal rapporto, infine, tra
il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuali nella
seconda”27, senza peraltro poter esercitare un sindacato di merito sulla disciplina
contrattuale né alterare, ampliare o restringere i limiti della regolamentazione che le
parti hanno fissato nella loro autonomia negoziale28
In applicazione di tali principi infatti, la regola generale è che, quando
l’appartenenza alla categoria dirigenziale sia espressamente disciplinata dalla
contrattazione collettiva29 applicabile al rapporto di lavoro dedotto – eventualmente – in
giudizio, è alle relative disposizioni che occorre fare riferimento30, per l’inquadramento
del dipendente, ed il giudice ha l’obbligo di attenersi ai requisiti dalle medesime
previsti31, poiché esse, riflettendo la specifica volontà delle parti stipulanti e la loro
esperienza nel settore di lavoro e nella particolare organizzazione aziendale, assumono
valore vincolante e decisivo32.
artt. 1362 s.s. c.c.)”; G. GALLI, La categoria dirigenziale: ruolo della contrattazione collettiva e
intervento del giudice, nota a Cass. 9 giugno 1990, n. 5608, in Riv. giur. Lav., 1991, II, p. 66.
27
Cass. 13 febbraio 1978 n. 679, Cass. 3 aprile 1982, n. 2049.
28
Pret. Roma 8 giugno 1979.
29
Si osservi al riguardo, I. A. SANTANGELO, Configurazione della dirigenza nell’impresa, in Dir. Lav.,
1990, I, p. 28.
30
Si veda, a questo proposito, G. AMOROSO, Contratto collettivo dei dirigenti, Napoli, 1987, p. 132, nota
12, che la dichiarata vincolatività delle declaratorie contrattuali è assoluta “soltanto agli effetti
dell’applicabilità della disciplina contrattuale”, restando impregiudicata la possibilità per il giudice di
verificare la sua riferibilità alla categoria legale.
31
Senza le specificazioni della contrattazione collettiva, la nozione di dirigente finirebbe per essere
limitata solo alle ipotesi in cui la delega del potere direttivo è integrale o, comunque, di ampio contenuto:
in questi termini G. AMOROSO, op. cit., p. 144.
32
Cass. 21 aprile 1995, n. 4519; Cass. 25 febbraio 1994, n. 1899; Cass. 11 dicembre 1987, n. 9195, in
Not. Giur. Lav., 1988, p. 181; Cass. 17 gennaio 1986, n. 317; Cass. 15 gennaio 1986, n. 201; Cass. 3
aprile 1985, n. 2279. Nella giurisprudenza di merito v., da ultimo, Trib. Firenze 20 febbraio 2002, in
Guida lav., 2002, n. 34, p. 27. In dottrina, v. F. BASENGHI, op. cit., p. 12: “la legge individua quindi nel
rinvio precipuo alla contrattazione lo strumento per realizzare un costante adeguamento delle varie
nozioni di categoria ai continui mutamenti della struttura organizzativa aziendale in relazione ai diversi
ambiti”. V., altresì, I. A. SANTANGELO, op. cit., p. 21.