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quadro generale sulla metodologia originaria ideata da H. Rorschach,
appoggiandoci all’occorrenza alle impostazioni teorico-pratiche di B. Klopfer e J.
E. Exner. Concluderemo infine con una duplice analisi della controversia,
orientata sia verso argomentazioni puramente psicometriche sia verso
considerazioni di carattere clinico, al fine di delineare uno spaccato quanto più
veritiero dello status attuale del test delle macchie di inchiostro.
Considerando la limitata esperienza pratica di cui disponiamo, la nostra
trattazione si limiterà ai contributi provenienti dalle numerose pubblicazioni
scientifiche degli ultimi anni, potendo ricorrere così alla molteplicità di spunti di
riflessione in esse rintracciabili. In tal modo potremo avvalerci della preziosa
opportunità di osservare e, ove necessario, giudicare in modo oggettivo ed
imparziale le numerose argomentazioni critiche mosse verso il test delle macchie
di inchiostro di H. Rorschach, a fronte di una preventiva analisi delle
caratteristiche e potenzialità insite nello strumento stesso.
7
8
Capitolo 1
La psicodiagnostica.
“I primi psicologi sperimentali del diciannovesimo secolo non si
interessavano, generalmente, della misurazione delle differenze
individuali. Le differenze individuali venivano ignorate oppure
accettate come un male necessario, che limitava però la possibilità di
applicazione pratica delle leggi generali. il fatto che una persona
reagisse in modo diverso da un’altra in condizioni identiche veniva
considerato come una specie di errore…”
Anne Anastasi, 1954. I test psicologici, p.30
1.1 Premessa.
Sin dai suoi albori la psicologia è stata considerata come parte di un sistema
filosofico, e studiata di conseguenza con i metodi tipici della filosofia. Intorno alla
seconda metà del XIX secolo, tuttavia, si è assistito a una grande rivoluzione in
tale approccio; per merito e attraverso l'opera di quattro ricercatori tedeschi, tali E.
H. Weber, G. Fechner, H. von Helmoltz e W. Wundt, la psicologia intraprese il
cammino verso un’identità scientifica e autonoma, svincolata quindi da
contaminazioni filosofiche e fondata sempre di più sul metodo dell'esperimento e
delle prove di laboratorio. Una svolta di simile portata ha reso necessario un
maggior rigore metodologico ed inoltre, in fase di valutazione, l'utilizzo di un
linguaggio quantitativo di stampo matematico. L’impiego del laboratorio quale
luogo elettivo di ricerca diede un grande impulso all'evoluzione e al progresso
della psicologia come scienza autonoma; era finalmente possibile descrivere, su
base quantitativa, alcune caratteristiche dell’uomo quali l'intelligenza, la memoria,
l'apprendimento, l’addestramento, la percezione, ed altro ancora.
In contrapposizione ai dati soggettivamente percepiti, frutto quindi
dell’intuizione, in ogni ambito di studio andava imponendosi la ricerca della
“quantità”. Ipotesi considerata irreale fino a qualche decennio prima, anche lo
stesso comportamento dell'uomo e le sue funzioni psichiche venivano adesso
sottoposti a misurazione. Da questo orientamento trasse chiaramente impulso la
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“psicometria”, un indirizzo metodologico finalizzato a offrire una descrizione e
un'analisi quantitativa degli eventi psichici.
Tale approccio nella valutazione del comportamento umano comportò una
nuova prospettiva circa la netta suddivisione tra patologia e normalità. Il metodo
statistico, unito alla nuova concezione della psicologia, produsse l’idea moderna
di “normalità” nel comportamento umano, definendo “normale” non più un
comportamento corretto secondo una normativa prestabilita, ma la gamma di
comportamenti osservati intorno alla media di una distribuzione di frequenze di
atteggiamenti rilevati in modo empirico.
Una simile ridefinizione rese così il concetto di “malattia mentale” di
pertinenza della scienza medica e psicologica, ricollocando l'uomo nell'ambito del
mondo biologico e naturale. Per il moderno pensiero scientifico la “verità” diviene
quindi la migliore approssimazione statistica alla frequenza degli eventi osservati.
Gli psicologi sperimentali del XIX secolo, si preoccupavano di studiare la
regolarità dei comportamenti umani e di fornire descrizioni generali di certi
eventi. La scelta degli oggetti di studio e di ricerca da parte dei primi psicologi
sperimentalisti fu influenzata dalla prevalente formazione di tipo fisiologico e
fisico, nonché dalla relativa facilità con cui si potevano studiare in laboratorio
fenomeni e funzioni elementari, quali i tempi di reazione e la sensibilità a diversi
tipi di stimoli. Lo spostamento verso il metodo sperimentale e la ricerca di
laboratorio avevano evidenziato l’innegabile necessità di tenere sotto controllo il
contesto e le condizioni in cui effettuare le rilevazioni. Sin dalla progettazione dei
primi test psicologici si ritenne quindi necessaria la standardizzazione delle
procedure nella somministrazione dei test, avvalorando ancor di più l’identità
scientifica delle discipline psicologiche.
In ogni ambito, sia sociale sia individuale, sono stati molteplici i problemi
per lo studio dei quali si è reso necessario l'uso di strumenti di misurazione precisi
e standardizzati, sottolineando così il contributo innegabile offerto dai “test”
all’evoluzione nel campo della psicologia generale e in quella delle differenze
psicologiche individuali.
10
1.2 Cenni storici.
Tratto distintivo della psicologia sperimentale di fine Ottocento diviene così
la ricerca di regole “generali”, di “norme” utili per indagare e interpretare alcune
funzioni psichiche di base nell’uomo, cercando al contempo di esprimere i
risultati acquisiti attraverso un linguaggio di derivazione matematica. Le variabili
bio-fisiche, intrapsichiche, comportamentali e socioculturali prese in esame
appartengono ognuna a livelli informativi diversi, chiaramente distinti far loro; da
qui nasce la necessità di tener conto del fatto che nessun focus di osservazione
può risultare sufficiente ed esaustivo per comprendere le componenti
multidimensionali che concorrono nel modellare la struttura del carattere e della
personalità di un individuo.
La complessità dei processi mentali individuali ha portato così la psicologia
ad utilizzare tecniche sempre più raffinate, al fine di ampliare i dati conoscitivi
relativi allo studio dello sviluppo della personalità.
1.2.1 Gli sviluppi iniziali.
Ricercando le basi della psicodiagnostica tutto sembra riconducibile ai primi
anni del secolo, in un contesto europeo in cui si sviluppavano con molta forza
fermenti artistici, culturali, filosofici e scientifici. Anche la psicodiagnostica, al
pari della psicologia clinica, della psicologia dinamica e della psicopatologia,
affonda le proprie radici nello stesso periodo storico, poichè intorno al 1900
incominciarono ad apparire test più prettamente psicologici che non psico-
fisiologici, come invece era avvenuto fino a quel momento. Già nel 1880, Francis
Galton, matematico e biologo inglese, aveva posto le basi della ricerca
psicometrica con intenti applicativi e teorici, esaminando ed inventariando
particolari abilità del popolo inglese. È a lui che si fa risalire il termine “Mental
Test”, indicativo di uno strumento o mezzo per saggiare la reazione specifica di
un soggetto ad un determinato stimolo, anche se altre fonti attribuiscono a James
Cattell il primo utilizzo del termine nel 1890.
Da queste prime ipotizzazioni in ambito testologico in poi, lo sviluppo fu
vertiginoso. Nel 1905 A. Binet e T. Simon pubblicarono la prima scala metrica
11
per l'intelligenza, la quale avrà successivamente due revisioni, nel 1908 e nel
1911. Poco dopo, negli Stati Uniti, L. M. Terman e M. A. Merrill costruirono,
sperimentarono e pubblicarono nel 1937 una scala d'intelligenza che risulterà la
più utilizzata e conosciuta per un lungo periodo in ambito clinico e psicologico. In
questo periodo di fermento Spearman enunciava la teoria del “fattore G”,
preludendo i successivi studi di L. L. Thurstone, mentre in Germania, si affermava
Stern, il quale esponeva numerose concezioni teoriche, creando, al contempo, test
capaci di predire il successo scolastico. Contemporaneamente, oltre alle nuove
acquisizioni scientifiche, si andava affermando il concetto di “quoziente
intellettivo” che verrà poi universalmente definito “Q.I.”. Tale ipotizzazione andrà
incontro a numerose revisioni nel corso dei decenni successivi assumendo anche
la connotazione di “quoziente emozionale” (Emotional Quotient - E.Q.), in
riferimento alla teorizzazione secondo cui i fattori emozionali rappresentano
molto spesso una parte integrante dell'intelligenza.
Verso la fine degli anni venti e l'inizio degli anni trenta, tuttavia, il mondo
scientifico ed accademico mosse pesanti critiche ai facili entusiasmi del periodo
precedente; furono introdotte così nuove metodologie di controllo, con lo scopo di
rendere più agevoli e funzionali le procedure di valutazione statistica dei risultati.
Il periodo fra il 1930 e il 1940 rappresentò un'epoca fondamentale nella storia
della psicologia sperimentale, ma anche per quanto riguarda gli ambiti clinici e
psicodiagnostici. Infatti, le premesse poste da Spearman nei primi anni del '900
fornirono risultati imprevisti negli Stati Uniti e in Inghilterra dopo il 1930. Nel
1931 a Chicago, L. L. Thurstone giunse a dimostrare la validità della propria
teoria adottando la metodologia dell’analisi multifattoriale: alla formazione
dell'intelligenza, secondo l’ottica proposta da quest’ultimo, contribuivano più
fattori e si rendeva così sufficiente misurarne anche soltanto alcuni per ottenere
una valutazione globale. Negli stati Uniti, lavorando presso l'ospedale Belleveu,
nel 1939 D. Wechsler costituì e pubblicò la propria “Scala d'Intelligenza”, la quale
verrà usata e adottata in tutto il mondo sostituendo di fatto tutte le prove di livello
precedenti; tale metodologia andrà incontro ad una revisione nel 1955, assumendo
il nome di “Wechsler Adult Intelligence Scale” (W.A.I.S.), risultando tuttora il
test d'intelligenza più utilizzato in ambito clinico e diagnostico. Sempre in questo
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periodo, parallelamente all'emergere e all'affermarsi della psicologia dinamica,
della psicoanalisi e delle teorie junghiane sui tipi psicologici, si registrarono le
prime affermazioni scientifiche sul piano della diagnostica clinica, soprattutto in
riferimento ai test proiettivi. Nel 1935 venne presentato alla Società Svizzera di
Psichiatria il “Test di Rorschach”, argomento cardine di questa nostra trattazione,
pubblicato nel 1921 ma passato inosservato e trascurato fino a quel momento.
Tra la fine degli anni quaranta e l'inizio degli anni cinquanta anche in Italia
fiorirono gli studi sui reattivi mentali, sopratutto grazie al contributo di C. Rizzo.
Notevole fu il contributo, in questo campo, del C.N.R. con le proprie sovvenzioni,
il quale consentì l’ingresso e l’adeguata traduzione in Italia di molti dei test
americani. L’impulso all'utilizzo dei test psicologici in ambito forense, con la
conseguente collocazione di quest’ultimi allo stesso livello e con la stessa dignità
scientifica delle altre metodologie dell'esame psichico, contrassegnò fortemente
quegli anni. Tali proposte innovative, in riferimento all'integrazione dei due
metodi, psichiatrico classico e psicologico sperimentale, furono vissute come
apertamente provocatorie e quindi percepite non favorevolmente dagli psichiatri,
psicologi, giuristi e avvocati del tempo, cristallizzati sulle proprie competenze e
conoscenze.
1.2.2 Crisi e rinascita.
Escludendo le tecniche proiettive, che nella prima metà dello scorso secolo
non hanno riscosso un grande credito, l'interesse nei confronti dei test non si è
affievolito ed è proseguito fino agli anni '60 portando alla pubblicazione di
sempre nuovi reattivi o a revisioni di alcuni già noti. Questa rigogliosa fioritura
di test è stata accompagnata, tuttavia, anche dal diffondersi, nell'opinione
pubblica americana, di un atteggiamento di riserva nei confronti di tali strumenti;
è in risposta alla constatazione di un uso non sempre corretto dei test, specie di
quelli non sufficientemente validati, che nel 1954 viene pubblicato dall'A.P.A.
(American Psychological Association) un codice di raccomandazioni tecniche
per i test psicologici e i metodi psicodiagnostici, al fine di regolamentare sia la
costruzione che l'utilizzo di questi.
Ciò non è servito, comunque, a spegnere i fermenti di rivolta e a mutare la
13
convinzione circa le presunte pesanti implicazioni sociali dell’uso dei test. Tale
rivolta, che ha toccato il suo apice intorno al 1965, ha avuto come punto di
partenza gli Stati Uniti, dove più massiccio era stato l'impiego di test nei vari
contesti della vita pubblica e privata, ma ha avuto risonanze anche in tutti i paesi
del mondo occidentale. Si assisteva ormai ad una massiccia produzione di
reattivi, alla quale non sempre corrispondeva un adeguato aggiornamento delle
basi teoriche e un miglioramento dei loro aspetti tecnici, accompagnata da una
scarsa competenza professionale e psicometrica di coloro che applicavano i test e
che se ne servivano per prendere decisioni molto importanti sul piano sociale e
personale per gli utenti. Inoltre, i test e soprattutto quelli di intelligenza,
fornivano una classificazione rigida, inflessibile e permanente degli individui,
ingiustamente selettiva nei confronti dei soggetti appartenenti a gruppi etnici
minoritari e a ceti socio-culturalmente svantaggiati. Senza considerare che il
testing psicologico era diventato un business per molti privati ed enti, che se ne
servivano per gli scopi più diversi.
Di fronte a simili pesanti critiche, sia di natura tecnica che sociale
l'Associazione degli psicologi americani (A.P.A.) nel 1965 diede vita a un
comitato per lo studio degli effetti sociali del testing psicologico e nel 1966 si fece
promotrice della pubblicazione di norme specifiche per regolamentare il lavoro di
costruzione e di somministrazione dei test nel rispetto della persona e del rigore
scientifico (“Standards for Educational and Psychological Tests and Manual”).
Anche in seguito a ciò, dall'inizio degli anni settanta e per quasi tutto un decennio,
i test subirono negativamente l'influenza culturale del momento, ovvero le tesi
dell'antipsichiatria legate apparentemente al disconoscimento della malattia
mentale e quindi alla critica degli inquadramenti nosografici classificatori. Le
prove psicologiche venivano ora percepite da una sostanziale corrente di pensiero
come strumenti per diagnosticare e quindi reprimere e patologizzare un
individuo. La rivolta anti-test non ha comunque bloccato la produzione di questi
strumenti, d'altronde utili e necessari per la comprensione dei problemi e delle
difficoltà dell'uomo. Da allora è aumentato l’interesse nel mettere a punto
strumenti sempre più perfezionati, conseguendo rilevanti risultati sia sul piano
psicometrico, sia su quello delle modalità d'uso.
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Il test è ormai uno strumento indispensabile e insostituibile in numerosi
ambiti, quali ospedali, prigioni, scuole, istituzioni di custodia, uffici pubblici;
attraverso il suo impiego si possono ottenere una serie di indicazioni che possono
aiutare nel prendere decisioni, nel programmare il lavoro, nel verificare e nel
selezionare. Esso non sostituisce dunque lo psicologo, il quale ha invece il
doveroso compito di interpretare i dati e di integrarli ad altre informazioni e
indicazioni acquisite attraverso diverse modalità di assestment. Particolare
diffusione, soprattutto in campo clinico e psichiatrico, continuano ad avere gli
inventari della personalità e le scale standardizzate per uso diagnostico.
Proseguono gli studi tesi sia a produrre nuovi reattivi meglio fondati
teoricamente, sia a perfezionare quelli già editi attraverso più raffinati e
complessi controlli statistici e l'applicazione di tali test a popolazioni più definite
e limitate.
15
Capitolo 2
I Test di personalità
2.1 Premessa.
Uno dei principali compiti che si pongono allo psicologo clinico è senza
dubbio l’indagine psicodiagnostica. Per affrontare i diversi problemi individuali,
per poter dare un consiglio utile, oppure, avendo raggiunto la preparazione
necessaria, per condurre una psicoterapia, lo psicologo dovrà prima aver
formulato una diagnosi corretta della personalità nei suoi aspetti strutturali e
dinamici. Per tale scopo sono stati elaborati metodi e strumenti specifici con cui si
possono verificare e approfondire le ipotesi diagnostiche formulate durante il
colloquio. Questi preziosi strumenti permettono di evidenziare le attitudini del
soggetto a sostenere una psicoterapia e risultano particolarmente utili per soggetti
confusi, ambigui, particolarmente inclini a mentire o a deformare a proprio
piacimento la realtà degli avvenimenti, come i soggetti che presentano patologie
del tipo “border-line”. Tali metodi si discostano naturalmente dalla definizione
più classica di testing psicologico, a cui spesso si fa riferimento ponendo in primo
piano la misurazione di costrutti quali l’intelligenza. Seguendo l’accezione
proposta da Anastasi (2002), nella terminologia psicometrica si indicano così
quegli strumenti che si propongono di misurare aree psicologiche quali
l’adattamento emotivo, i rapporti interpersonali, la motivazione, i sentimenti e gli
atteggiamenti, vale a dire tutti quegli aspetti della personalità che possono essere
distinti dalle capacità intellettive.
Tali strumenti, sorti durante l’intero secolo scorso, hanno inevitabilmente
subito le influenze delle impostazioni teoriche maggiormente in auge nel periodo
della loro creazione. É ovvio quindi riconoscere in tali metodologie un substrato,
in parte comune, riconducibile a costrutti di carattere psicoanalitico e
psicodinamico largamente diffusi nelle prime decadi del secolo, periodo di
maggior splendore di tali strumenti. I contributi allo sviluppo di tale tipologia di
test sono stati numerosissimi, a testimoniare il grande interesse che questi, sin
16
dall’inizio, hanno suscitato nei clinici. Si ricorda, agli albori dell’indagine di
personalità, il primo tentativo di utilizzare una forma di test psicologico a tale
scopo ad opera di E. Kraeplin, il quale utilizzava una serie di parole stimolo per
suscitare risposte nei pazienti psichiatrici, seguendo una metodica che richiama le
associazioni libere di C. G. Jung; a questi primi tentativi seguirono quelli di altri
illustri teorici e clinici del tempo, quali lo stesso C. G. Jung, G. A. Kent, A. J.
Rosanoff e D. Rapaport.
Questo nuovo approccio apriva così la strada all’interpretazione di numerosi
indizi prima trascurati o omessi nell’indagine della personalità, quali la variazione
dei tempi di risposta a stimoli verbali e non verbali, eventuali risposte mancanti, il
senso stesso delle risposte fornite ed altro ancora; tutte caratteristiche da cui
partire per ricostruire la struttura di personalità del paziente. La misurazione di
queste caratteristiche presenta difficoltà maggiori rispetto a quella
dell'intelligenza, e ciò può spiegare perché i progressi tecnici in questo settore non
eguaglino quelli raggiunti nel campo dei test attitudinali. Basti considerare, a tale
proposito, la complessità della struttura della personalità stessa e la dimensione
essenzialmente sociale dei suoi tratti, evidenziabili più agevolmente in una reale
situazione di gruppo, condizione difficilmente simulabile in un setting
psicologico.
2.2 Dai questionari ai test proiettivi.
Classicamente si distinguono, in questo ambito, test “multifasici” e test
“monofasici” a seconda che prendano in considerazione più di una dimensione di
personalità contemporaneamente oppure che ne valutino un solo aspetto
singolarmente, quale ad esempio l’ansia, la depressione e l’aggressività.
Dedicheremo ai secondi uno spazio limitato, giusto quello necessario per
ricordare gli strumenti più importanti, che hanno in un certo senso segnato
un’epoca, e non approfondiremo la loro descrizione rimandando alla vasta
letteratura disponibile.
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I test di personalità possono essere, inoltre, sommariamente distinti in
“questionari”, o “inventari”, e “tecniche proiettive”. Mentre attraverso l’utilizzo
dei primi ci si muove verso il raggiungimento di una diagnosi di tipo quantitativo,
elaborata notoriamente su un elenco di tratti o di sintomi, le metodologie di natura
proiettiva permettono di arrivare a una diagnosi di personalità secondo un
approccio strutturale e dinamico. I questionari risultano caratterizzati dalla
presentazione al soggetto di stimoli “strutturati” e definiti, come domande con
alternative di risposta prefissate, e da un’assegnazione di punteggi rigidamente
stabilita, al punto che la siglatura del protocollo può essere redatta persino da
soggetti che non siano a conoscenza della filosofia che sottende il test in
questione; solamente l’interpretazione dei risultati è soggetta quindi ad un certo
margine di arbitrarietà. Nei test proiettivi, invece, le istruzioni divengono
sommarie e generali, vengono presentati stimoli indefiniti, ambigui, che lasciano
ampio spazio all’immaginazione, per cui la gamma delle possibili risposte è
praticamente illimitata; l’interpretazione delle risposte è lasciata totalmente
all’arbitrio dell’esaminatore, in virtù della sua preparazione, della scuola teorica di
appartenenza e del sistema interpretativo adottato.
Procederemo adesso ad una sommaria descrizione di alcuni fra i più
conosciuti e utilizzati test obiettivi, partendo dal principale riferimento, ovvero il
“Minnesota Multiphasic Personality Inventory”, passando al “California
Psychological inventory”, all’ “Edwards Personal Preference Schedule”, ed infine
agli inventari di J. P. Guilford e J. M. Cattel come testimonianza dello sforzo di
alcuni autori nell’utilizzo dell’analisi fattoriale per la creazione dei propri reattivi;
cercheremo così, attraverso questi strumenti, di delineare il profilo universale di
questa tipologia di test psicologici.
2.2.1 Minnesota Multiphasic Personality Inventory.
Il più conosciuto, diffuso e maggiormente utilizzato test di personalità
risulta, senza dubbio, il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (M.M.P.I.),
messo a punto nel 1940 da S. R. Hathaway e J. C. Mckinley, oggi sostituito da
una revisione del 1989 denominata M.M.P.I.- 2. Il test può essere somministrato a
tutti i soggetti con più di 16 anni e con un livello culturale tale da garantire la
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comprensione del significato degli item che lo costituiscono. Nella versione
originale il test risulta composto da 566 affermazioni alle quali il soggetto può
limitarsi a rispondere solamente “vero” o “falso”, a seconda che ritenga tale
affermazione prevalentemente vera o falsa. Le affermazioni riguardano argomenti
eterogenei, dai sintomi somatici alla sessualità, dalla sfera familiare a quella
religiosa, dalla cultura ai rapporti interpersonali, ed altro ancora. I 566 item si
articolano in 13 scale distinte in 3 di controllo e 10 cliniche. Le dimensioni
cliniche, per quanto rimandino con la loro denominazione a categorie
nosografiche di carattere psichiatrico, devono essere viste come dimensioni
psicologiche presenti anche nei soggetti normali ed assumono significato
patologico solo nei valori estremi. Le scale di controllo forniscono indicazioni
circa la validità del test: di queste si deve tener conto, non solo
nell’interpretazione delle scale cliniche, ma anche nell’assegnazione dei punteggi
in alcune di esse. Per ogni scala, clinica e di controllo, un’apposita griglia
consente il calcolo dei punteggi grezzi, i quali, già nel foglio di siglatura,
divengono punteggi standardizzati T, con Media pari a 50 e deviazione standard
uguale a 10, che a loro volta consentono il confronto diretto tra i valori delle varie
scale. I limiti del “range” di valori ritenuti normali è fissato arbitrariamente in più
o meno due deviazioni standard dai punteggi ottenuti da un campione di soggetti
normali. Unendo con una linea i punteggi ottenuti nelle scale di controllo da un
lato ed in quelle cliniche dall’altro, è possibile ottenere così una visualizazione
grafica del profilo M.M.P.I. del soggetto.
Nell’interpretazione del profilo vengono prese in considerazione in primo
luogo le scale di controllo, ed in seguito, in correlazione con queste, le scale
cliniche. Esistono diversi criteri in base ai quali valutare tali scale e sono stati
elaborati a questo scopo appositi atlanti in cui, ad ogni particolare assetto,
corrisponde una descrizione del relativo quadro psicopatologico.
2.2.2 California Psychological Inventory.
Fattore che valorizza ancor maggiormente il reattivo di S. R. Hathaway e J.
C. Mckinley appena citato, è l’inequivocabile funzione di stimolo per la
costruzione di altri reattivi che tale strumento ha dimostrato negli anni. Nel caso
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del California Psychological Inventory (C.P.I.) tale influenza può essere
addirittura riscontrata facilmente nel materiale stesso del test, dato che circa la
metà delle domande deriva dall'M.M.P.I. stesso. Il C.P.I., appositamente ideato e
costruito per l'applicazione su popolazioni normali a partire dai 13 anni, consiste
in 480 domande del tipo Vero-Falso e consente di ottenere una serie di punteggi
articolati su 18 scale, tre delle quali volte a determinare l'atteggiamento dei
soggetti nei confronti dei test. Le restanti quindici scale forniscono punteggi
relativi a dimensioni della personalità quali la “Dominanza”, la “Responsabilità”,
l'”Accettazione di sé”, la “Socievolezza”, la “Socializzazione”, il “Successo
attraverso il conformismo”, il “Successo attraverso l'autonomia”, l'
”Autocontrollo” e la “Femminilità”. Come per il M.M.P.I., tutti i punteggi
vengono espressi in base a una scala di punteggi standard con una Media di 50 e
una D.S. di 10; tale scala è stata derivata da un campione normativo di 6000
maschi e 7000 femmine, rappresentanti di vari livelli di età, status socio-
economico e distribuzione geografica.
L’interesse riscontrato in un buon numero di ricercatori, fra i quali spiccano
i contributi di Megargee (1972), ha reso il C.P.I. uno strumento testistico di ottimo
livello, soprattutto grazie alle numerose ricerche ed i costanti miglioramenti
operati sin dalla sua creazione. Lo strumento, nonostante una scarsa indipendenza
dei punteggi delle scale quale maggior difetto riscontrabile, si è dimostrato molto
efficace nella previsione di fenomeni delinquenziali e nella rilevazione della
probabilità che un soggetto interrompa il proprio percorso di studi.
Grazie ad un buon numero di ricerche in tal senso, si stanno approntando
scale di riferimento per ampliare la gamma di indici di previsione associabili al
test stesso, fra i quali la previsione del livello di prestazione dei soggetti in molti
tipi di lavori. Sono inoltre disponibili interpretazioni computerizzate dei profili.
2.2.3 Edwards Personal Preference Schedule.
Il test che andremo adesso a prendere in esame deriva direttamente dalla
volontà e dall’adesione del suo ideatore di costruire un test che rispecchiasse la
teoria dei “Bisogni-Pressioni” proposta da H. A. Murray ed i suoi collaboratori,
che approfondiremo più accuratamente in seguito.