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Italia ‐), sembra che, in fondo, non riusciamo a coglierne la portata reale. In ogni
caso, sono nati diversi movimenti che si occupano di questi problemi e le risposte
che essi danno sono naturalmente eterogenee (la frattura che è più importante
prendere in considerazione ai fini di questa tesi è quella tra i sostenitori di uno
sviluppo sostenibile o durabile e il movimento per la decrescita). Per quanto mi
riguarda, credo che il progetto della decrescita sia all’altezza dei problemi che ci si
presentano e non lo considero solo come uno strumento per riparare i danni
prodotti dalla nostra società fino ad oggi, ma anche come un’occasione per creare
qualcosa di nuovo e di estremamente positivo per l’umanità nel suo complesso.
Il cambiamento nella direzione della decrescita deve essere globale per essere
realmente tale e deve proporsi come l’alternativa all’attuale modello che,
certamente, è anche quello capitalista, ma non solo: più in generale è ogni sistema
basato sulla crescita. La lotta contro il capitalismo, che è solo una delle possibili
società della crescita, non sembra più convincere. Non si avanza quindi
minimamente la proposta di una rivoluzione, che altro non sarebbe che terrorismo
ed ennesimo tentativo di sopraffazione ed imposizione. Senza parlare del fatto che
ormai il capitalismo è riuscito anche ad eliminare ogni traccia di classe
potenzialmente rivoluzionaria. E non si intende nemmeno mettere in discussione
tutti i mezzi che il capitalismo utilizza, in quanto non sono una sua prerogativa
storica, ma esistevano anche in precedenza, si pensi al mercato, non quello con la
“M” maiuscola, ma l’agorà. Non stiamo discutendo dell’abolizione della proprietà
privata, della moneta (non si vuole tornare al baratto), del lavoro salariato e degli
altri corollari giuridici di cui si serve il capitalismo, ma di rivederne completamente il
ruolo: l'economia deve essere reincorporata nella società, deve tornare ad esserne
solo un mezzo e non deve esserne più il fine ultimo e deve impiegare solo il tempo e
le risorse davvero necessarie; unica maniera per far sì che sia l’uomo a diventare un
fine e smetta di essere solo un consumatore, un mezzo che il sistema usa per
riprodursi. Non stiamo nemmeno disegnando un capitalismo bonificato,
ammorbidito o umanizzato, che non può che essere un ossimoro, una
contraddizione in termini, perché il capitale è per sua natura tendente
all'infinitizzazione. E la soluzione non sta neanche in una società di tipo socialista,
che si è proposta storicamente come alternativa al capitalismo è che sempre
storicamente ha perso la sfida con esso. Infatti, anche il socialismo resta nel
paradigma della crescita. E allo stesso modo la soluzione non sta in nessun altro
sistema che non esca da questa logica. L’obiettivo da perseguire è un’uscita da esso.
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Però dare un volto all’avversario oggi risulta problematico: con la crisi dello Stato
nazione in corso non si può più identificare solo con esso il nemico o l’interlocutore.
La globalizzazione, la transnazionalizzazione dell’economia, l’internazionalizzazione
di altri ambiti un tempo prerogativa esclusiva degli Stati sono fenomeni noti a tutti.
In queste condizioni, come affrontare politicamente la megamacchina? È solo
partendo dal basso che si possono cambiare le cose, applicando prima a livello
individuale e poi a livello locale e di società civile i principi della decrescita. Se si
mantiene la consapevolezza che il cambiamento necessita comunque della politica,
l’agire localmente (pur pensando globalmente) non è una rinuncia, anche perché i
cambiamenti sono sempre lenti e perché il movimento della decrescita è recente ed
ha ancora molte potenzialità da mettere in atto. In più, le esperienze personali e
locali possono diventare un laboratorio, necessario per elaborare le pratiche
effettive di realizzazione della decrescita per il futuro. Proprio per questo motivo è
importante che le diverse esperienze ‘facciano rete’ e si scambino informazioni e
contenuti. Inoltre, è da sottolineare che l’interesse nei confronti della decrescita sta
aumentando, così come i gruppi e le esperienze che vi si richiamano, probabilmente
anche perché esse apportano miglioramenti alla vita di chi le segue: rispetto
dell’ambiente, risparmio e benessere avanzano di pari passo e non sono nemmeno
obiettivi troppo impegnativi da conseguire.
Per scongiurare il rischio di fraintendimenti, preciso subito che la proposta
alternativa non è certo un ritorno al passato, ma nemmeno una fuga da esso. In
fondo ne siamo i figli e dovremmo trarne delle lezioni anche per il futuro, in modo
che sia più consapevole e più umano. Non dovremmo quindi tornare indietro, ma
andare avanti imparando da esso: ‘salire sulle spalle dei giganti’. Il nuovo non
necessariamente deve sostituire il vecchio, ma può anche semplicemente
perfezionarlo. A questo proposito, dovremmo prendere come esempio in fatto di
‘sostenibilità’ le civiltà preindustriali, le quali erano consapevoli di doversi attenere
ai limiti imposti dalla natura, per la sopravvivenza loro e dei loro discendenti, (una
sorta di ‘diritti delle generazioni future’ ante litteram). Il problema risiede nel fatto
che probabilmente il rispetto dei loro diritti presuppone un riconoscimento delle
generazioni passate.
Forse più che parlare di de‐crescita, sarebbe più corretto ricorrere al termine a‐
crescita, con lo stesso significato di a‐teismo, nel senso di abbandonare la religione
della crescita e dello sviluppo. Comunque il cambiamento è necessario e deve essere
radicalmente altro, un’’uscita dal contesto’ della crescita e dello sviluppo. Esso può
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essere una scelta ex ante, dovuta alla presa di coscienza che si può costruire
qualcosa di meglio, oppure, a lungo andare, un obbligo e un paracadute ex post. La
seconda delle due prospettive è inquietante perché presenta il rischio che le élites
che detengono il potere lo sfruttino per mantenersi in una condizione privilegiata,
sopprimendo o restringendo i diritti del resto della popolazione e lo scenario più
probabile è quello di un susseguirsi di guerre per accaparrarsi le ultime risorse.
Quella della decrescita è una ‘rivoluzione’, nel senso che è un grosso cambiamento,
quindi uno slancio verso il futuro, ma con uno sguardo a quello che il passato ci può
insegnare. E il suo scopo è una società finalizzata al conseguimento del benessere
prima che alla ricchezza monetaria; un società più autonoma e conviviale. Uno dei
punti fermi del progetto della decrescita è infatti la constatazione che benessere e
ricchezza non avanzano di pari passo, non possiamo, infatti, pensare che l’aumento
della circolazione di denaro (magari speso per incidenti stradali o psicofarmaci) e
delle ‘merci’ che possediamo possa sostituire completamente i ‘beni’ che potremmo
avere se impiegassimo meno tempo nel processo: lavorare per guadagnare per
comprare. Il PIL e la quantità di ‘merci’ che possediamo e di servizi che acquistiamo
non sono dei parametri del vivere bene, tutt’altro, per poterli avere siamo costretti a
passare la maggior parte della nostra vita al lavoro, fino a renderlo un fine e non più
un mezzo per soddisfare dei bisogni; un obbligo odioso che non ci lascia tempo per
altro e non più un valore. Si è ormai instaurato un circolo vizioso, poiché più si
lavora, meno si ha tempo per procurarsi in autonomia ciò di cui si necessita e quindi
si deve acquistare e quindi lavorare ancora di più, per poterselo permettere. Inoltre,
questo sistema è incoraggiato dal fatto di essere diventato un valore sociale, in
fondo “l’economia gira conte”… Riporto un breve esempio che credo possa
inquadrare la situazione: che senso ha lavorare otto ore al giorno e utilizzare lo
stipendio di tre di queste ore per pagare una baby‐sitter? Certo, se il welfare state
funzionasse meglio e ci fossero più asili nido, la questione dei soldi sarebbe meno
grave, ma non si arriverebbe comunque alla soluzione, perché gli asili nido
comportano un onere finanziario e quindi non si interromperebbe il circolo vizioso:
‘lavorare – comprare ‐ lavorare – comprare ‐…’. Ecco quello che serve per stare
bene: i beni materiali necessari, dei ‘beni relazionali’ e del tempo libero. E il vivere
bene, in armonia con l’ambiente naturale, è proprio ciò che si propone la decrescita,
sostituendo il circolo vizioso con uno virtuoso: riduciamo la quantità di ‘merci’ e
servizi acquistati nella nostra vita, in questo modo avremo bisogno di meno denaro
per vivere e potremo lavorare di meno ed avere più tempo per le cose davvero
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importanti: le amicizie, l’amore, la cultura, l’otium, il volontariato, e tutti i
passatempi che ci fanno sentire di avere una vita piena ed appagante.
Per ridurre la quantità di merci e servizi acquistati, ci sono tre modi. Il primo consiste
nell’autoproduzione e nella fornitura autonoma dei servizi (ad esempio quelli alla
persona: cura dei propri figli e dei propri vecchi); e il tempo per farlo si ricaverebbe
da quello sottratto al lavoro salariato. Il secondo nello scambio non mercantile,
basato sul dono reciproco con i propri familiari, (della famiglia allargata), vicini ed
amici, cosa che permetterebbe anche un rafforzamento dei legami sociali. Il terzo,
per i beni che non è possibile ottenere con queste modalità, vale la regola della
sobrietà e del prediligere beni prodotti nel rispetto dell’ambiente ed in zona ‐ ‘a
chilometri zero’ ‐ e quindi venduti lungo filiere corte, con il vantaggio di veder
aumentare la qualità dei propri consumi non necessariamente aumentandone il
costo.
Il progetto più ambizioso a questo proposito prevede uno scenario simile a quello
descritto dal brasiliano Euclides André Mance. Tale scenario prevede il collegamento
a livello locale, tramite una rete, di più unità di produzione di beni, di fornitura di
servizi e di consumo, quindi dell’offerta e della domanda, in modo che la rete possa
auto sostenersi quasi totalmente. Più reti, messe in comunicazione tra loro,
formerebbero un distretto economico e l’articolazione a livello regionale, nazionale
e mondiale permetterebbe di ricostruire l’economia sulla base di un nuovo
paradigma. La costruzione di reti locali permette allo stesso tempo la riduzione
dell’impatto ambientale e la formazione o il consolidamento di legami sul territorio.
Cambiare questo meccanismo è l’unico modo, oltre che per vivere entro i limiti
imposti dal pianeta, per far riprendere all’economia e al lavoro il proprio posto. E, il
processo può partire o dalla diminuzione del consumo di merci o da quella
dell’orario di lavoro. Restando sul tema del lavoro, riprendiamo un vecchio motto,
(lasciandone da parte le origini): “lavorare meno, lavorare tutti” che, d’altro canto,
ha avuto i suoi riscontri storici. Motto da completare con un ulteriore elemento: la
nascita di nuove professioni legate all’aumento dei fondi destinati alla ricerca e allo
sviluppo che si avrebbe nei settori tecnologici specializzati nell’aumento
dell’efficienza e dell’ecocompatibilità della produzione e, quindi, di nuovi posti di
lavoro. Si potrebbe, allora, arrivare ad una piena occupazione, con orari di lavoro
ridotti , con un impatto ambientale sostenibile e con molto tempo per altro. Una
società i cui membri siano più autonomi e, perché no, più rilassati e soddisfatti.
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Un primo passo è riuscire ad internalizzare i costi esterni cioè far pagare alle imprese
i costi che esse fanno pagare all’ambiente, alle generazioni future, ai consumatori ed
ai loro dipendenti; quindi, in particolare, quelli dell’inquinamento e della pubblicità,
(la cui spesa è di circa cinquecento miliardi di dollari all’anno, seconda solo a quella
militare). Chi inquina deve pagare: toccare gli interessi economici è l’unico modo per
far deviare la politica delle imprese. Oltre che su misure negative per far diminuire
l’inquinamento, si possono utilizzare anche degli incentivi, sia per quanto riguarda le
aziende che per quanto riguarda i singoli. Naturalmente, gli incentivi economici e le
prospettive di risparmio o guadagno non dovrebbero più essere gli unici fondamenti
del sistema. Per uscirne, bisogna praticare quello che Latouche chiama
decolonizzazione dell’immaginario: liberare le nostre menti dal dominio della logica
economica, de‐economicizzarle; pensare una logica nuova, rimettere il denaro al suo
posto. Anche perché la decrescita è possibile solo in una società della decrescita,
cioè trasformata nella sua struttura economica, sociale e psicologica perché, se ad
esempio si lasciasse tutto invariato ma si diminuisse la produzione, la conseguenza
sarebbe la crisi economica e occupazionale, lo smantellamento dei servizi sociali e
culturali ed il caos generalizzato, poiché la popolazione, impossibilitata a soddisfare
tutti i bisogni indotti ma percepiti come necessari, si ritroverebbe senza punti di
riferimento. Per farlo bisogna partire dalle piccole cose, ad esempio rivedendo i
nostri desideri, le nostre aspirazioni e il significato di felicità alla luce della nuova
situazione che ci sta intorno. All’inizio sarà spaesante, ma anche pieno di sorprese.
Questo processo di decolonizzazione può essere assimilato a quello di
deprogrammazione proposto da Amartya Sen, il quale, ai fini del cambiamento di
mentalità, attribuisce grande importanza al linguaggio, ad esempio, potremmo
iniziare a dire Paesi poveri o impoveriti al posto di Paesi in via di sviluppo. Le linee
guida del cambiamento possono essere indicate con otto parole, tutte inizianti con
la lettera “r”, le 8 R: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire,
ridurre, riutilizzare, riciclare.
Un discorso a parte merita il tema della produzione di energia, che dovrebbe
diventare auto‐produzione per autoconsumo e con vendita delle eccedenze, sia per
quanto riguarda le famiglie, sia per quanto riguarda le imprese. L’utilizzo di piccoli
impianti, posti su superfici già ricoperte di materiale inorganico, e la distribuzione a
corto raggio, per evitare sprechi e dispersione è l’unico modo che permette di
sfruttare l’energia solare o eolica o idrica, senza produrre inquinamento in grandi
quantità. Secondo questo modello, ogni edificio sarebbe collegato tramite una rete
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con gli altri – sul modello di internet ‐ e autoprodurrebbe la quantità di energia
necessaria a soddisfare il suo bisogno medio (con i pannelli solari, ad esempio). Nelle
ore in cui consuma meno di tale quantità media, venderebbe il surplus e, in quelle in
cui ne consuma di più, ne comprerebbe una parte. Riflettiamo, i consumi non sono
costanti durante tutte le ore della giornata e sono complementari nei diversi luoghi:
insomma, le persone non hanno il dono dell’ubiquità quindi, generalmente, durante
l’orario lavorativo e scolastico, serve energia nei luoghi di lavoro e nelle scuole, nelle
altre essa è più necessaria nelle case o nei luoghi di svago. L’unico modo per
mettere completamente in rete l’energia e costruire una rete ‘intelligente’, in ogni
casa è presente un regolatore di energia che è collegato con tutti gli altri per poter
coordinare l’utilizzo dei vari elettrodomestici, in modo che il consumo sia simile in
ogni momento e corrispondente all’energia effettivamente prodotta, evitando gli
sprechi. In questo modo, l’energia costerebbe meno e, se stabilissimo un prezzo
fisso per la sua commercializzazione, varrebbe l’equazione: meno se ne consuma,
più si guadagna. Anche questo progetto del movimento per la decrescita fa di
necessità virtù e dimostra come si possa coniugare la necessità di ridurre la nostra
impronta ecologica con il ben vivere e quindi come tutto ciò convenga. Non di
ascetismo si tratta, ma di in nuovo modo di intendere il benessere, più sano e più
vero; un nuovo modello che impieghi meno risorse e produca più benessere, che
punti più sulla qualità che sulla quantità.
La decrescita può essere intesa come società della post‐modernità, della post‐
abbondanza, della post‐dismisura e del post‐‘sogno americano’; società in cui si
punterà a preservare le risorse (e a porre fine alle ingiustizie sociali).
Ai Paesi poveri è stato dedicato un capitolo a parte, in cui si è illustrato come essi
possano essere una risorsa ed un laboratorio in cui viene costruita un’alternativa al
modello attuale e non più solo i destinatari di un aiuto che peraltro non è stato e
non è sempre disinteressato o efficace.
Lo sviluppo è arrivato anche nel Sud del mondo, in modi diversi rispetto al Nord, ma
pur sempre di sviluppo si tratta.Se vogliamo stabilire una data in cui far iniziare il
processo di sviluppo al Sud, essa sarà il 20 gennaio 1949, col discorso sullo stato
dell’Unione di Henry S. Truman in cui, per la prima volta, i Paesi meno industrializzati
e con un modello economico diverso da quello occidentale, votato alla crescita
economica e all’accumulazione illimitata di capitale, sono definiti sottosviluppati o,
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tutt’al più, in via di sviluppo. E, da allora, è iniziata la loro corsa per raggiungere
l’obiettivo che da particolare è assurto all’universalità, o aspira a farlo. Questo
dimostra come lo sviluppo, in fondo, non sia altro che un nuovo nome per volontà di
dominio, colonialismo, imperialismo e occidentalizzazione del mondo, infatti un diverso
modello di sviluppo presuppone anche una diversità nella cultura, nella concezione
della natura, del tempo, del passato, del presente e del futuro, della storia, del ruolo o
del ‘compito’ dell’uomo, della vita e della morte. Di conseguenza, per far ‘sviluppare il
mondo’ bisogna prima marginalizzare o distruggere le altre culture, processo che Illich
considerava creatore di disvalore, e poi esportare o imporre il modello occidentale.
Proprio negli anni in cui iniziava il processo di decolonizzazione e finiva la colonizzazione
ufficiale, essa si spostava dietro le quinte, e diveniva da politica ad economica e
culturale; nascondendosi e facendosi più subdola e difficile da contrastare, un po’ come
lo sviluppo, grazie all’aggettivo sostenibile.Le sue conseguenze sono state
essenzialmente la ricaduta nella dipendenza dai Paesi occidentali dopo la
decolonizzazione, la devastazione ambientale e l’aumento povertà. Tutto questo ha
ripercussioni anche nei Paesi ricchi che sono oggi e saranno sempre più le mete delle
migrazioni.
Detto questo, si potrebbe pensare che i Paesi e i popoli impoveriti siano
fondamentalmente passivi ma, se questo è vero nel mercato mondiale, non lo è più
per altri aspetti. Questo discorso vale in particolare per l’Africa sub sahariana;
iniziamo col dire che di Africa non ce n’è una, ma ce ne sono almeno quattro che si
intersecano e si sovrappongono tra loro. La prima è quella ufficiale quella che ha un
peso pari al 2% del PIL mondiale; la seconda è quella che scimmiotta l’Occidente,
vedendolo davvero come un traguardo o fingendo per interesse o necessità; la terza
è quella del rifiuto dell’Occidente; la quarta, quella che ci interessa, è l’Altra Africa.
Intuitivamente, non è difficile coglierne l’importanza, altrimenti come si
spiegherebbe la sopravvivenza di circa un miliardo di esseri umani con il ricavato del
2% del PIL mondiale? Il segreto di questo miracolo sono la società vernacolari,
società reinventate attraverso l’unione di tradizione e modernità, in particolare la
logica e l’organizzazione sono tradizionali, mentre i mezzi sono spesso moderni.
Sono quelle società che permettono a milioni di persone in Africa di vivere, sia nelle
periferie cittadine e nelle bidonvilles, sia nelle campagne a livello di villaggio, grazie
all’aiuto reciproco. Esse si basano sull’autorganizzazione popolare e sul
coordinamento dei propri membri, legati tra loro a formare reti a grappolo e che
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possono all’occorrenza attingere ai diversi ‘cassetti’ sociali ed economici degli altri
‘collegati’. L’aspetto fondamentale e che permette a queste società di funzionare è
che l’aspetto economico non è predominante. Una sorta di dis‐crescita, ovvero un
riallacciarsi alla propria tradizione (la tesi), uscire dallo sviluppo (l’antitesi) e fare una
sintesi di queste due esperienze.
Il versante economico delle società vernacolari può essere qualificato con l’aggettivo
informale. Esso comprende ogni sorta di attività che non sia o che sia poco
professionalizzata e che sia caratterizzata dalla pluriattività dei partecipanti. In
questa sede analizzeremo quell’informale che è riconducibile all’economia della
solidarietà e alla logica del dono, cioè una logica neo‐clanica o della famiglia
allargata. Ecco alcuni esempi: le tontine (gruppi di risparmiatori i quali, a scadenze
concordate, versano una somma decisa precedentemente, che tornerà a ciascuno di
loro a turno, insieme a quelle degli altri; quindi un’alternativa al modello
occidentale, basata su forme tradizionali di aiuto reciproco); le cooperative; i
laboratori che si occupano di riparazioni di ogni sorta, anche attraverso il riutilizzo di
ferraglia e pneumatici di recupero; l’arte dell’arrangiarsi, facendo tanti lavoretti
diversi; le organizzazioni spontanee che si occupano dei trasporti pubblici, dello
smaltimento dei rifiuti, o della costruzione di piccole dighe; le altrettanto spontanee
associazioni sportive, di teatro o di vicinato, in cui ad esempio si provvede alla
preparazione collettiva dei pasti, alla manutenzione, alle piccole produzioni (come
quella di vestiti), all’istruzione e alla sanità. Tutto questo permette di garantire una
quasi totale autonomia di villaggio e in buona parte anche per le città e riesce dove
spesso l’economia capitalistica ha provato ad espandersi ma ha fallito. Questo
dimostra come in Africa non manchi lo spirito imprenditoriale, che alcuni hanno
denominato management all’africana. La differenza è che c’è anche dell’altro: c’è il
legame sociale che è fondamentale e fondante; nelle reti delle società vernacolari il
legame sostituisce il bene, il prezzo è soprattutto un rapporto tra persone basato
sulla solidarietà e sulla reciprocità più che il risultato dell’applicazione ferrea della
legge della domanda e dell’offerta. Si è consapevoli che se oggi è il collegato/cliente
ad avere bisogno del nostro aiuto, domani potrebbe succedere l’inverso. Inoltre, il
legame di fiducia e fedeltà che unisce i collegati elimina la logica mercantile come la
intendiamo in Europa. Infine, quando il sistema funziona, tutti hanno la sensazione
di guadagnare e di avere una sorta di debito verso gli altri. Qui si spiega l’importanza
delle feste che, cosa impensabile per un occidentale, sono un elemento essenziale
anche nella vita economica: il surplus non viene reinvestito in una catena del tipo D‐
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M‐D’ (denaro, merce, denaro, in cui D’ è maggiore di D), ma viene utilizzato per la
solidarietà di gruppo. Ecco un buon esempio di come si può non essere né pigri e
fannulloni né stacanovisti; di come si può ricollocare l’economia al suo posto; di
come si può dare la priorità alla felicità piuttosto che alla ricchezza in quanto tale,
alla pace con se stessi e gli altri piuttosto che al potere; ecco un buon esempio di
come si può decolonizzare l’immaginario e uscire dal contesto della crescita e dello
sviluppo.
Certo, la competizione esiste anche in Africa, ma essa non riguarda l’economia che
rientra nella sfera privata e la sconfitta non è fonte di esclusione. È privilegiato il
mantenimento dell’equilibrio sociale piuttosto che la competizione. Queste società
utilizzano la moneta e lo scambio basato sul dono non deve essere confuso col
baratto; a volte si verifica anche la creazione di monete alternative. La differenza sta
nell’uso che se ne fa: in Africa essa è tangibile e serve ad alimentare le reti ed è un
mezzo che si affianca volentieri alla logica del dono, fondata sul triplice obbligo di
donare, ricevere e restituire (più di quanto si è ricevuto). Non si tratta di altruismo,
in quanto in questo circuito si ha sempre un ritorno; si tratta di un altro modo di
organizzare la società che permette di mantenere forti i legami sociali. I conti non
vengono chiusi subito, ma restano aperti rinforzando il sentimento reciproco del
debito. In fondo il termine comunità deriva dal latino cum (con) e munus (dono) e
indica quindi un raggruppamento di persone fondato sulla reciprocità più che sugli
scambi mercantili.
Comunque, la parte povera del mondo sarà impossibilitata a cambiare strada, finché
non lo farà quella ricca, fino a quando questa non deciderà di compiere su sé stessa
un aggiustamento strutturale e i Paesi africani non saranno più oppressi dal debito e
obbligati ad impostare il loro settore agricolo in termini di monocoltura e in vista
dell’esportazione e fino a quando la loro indipendenza non sarà più fittizia. Per
questo, nasce una specie di interdipendenza tra le due macro‐regioni, in quanto vale
anche il ragionamento inverso, ovvero, se non impariamo la lezione da questo tipo
di società, sarà difficile riuscire a realizzare il progetto della decrescita. E allora
l’obiettivo sta nel cambiamento dalla cooperazione allo sviluppo allo sviluppo della
cooperazione, mettendo da parte un po’ dell’etnocentrismo tipicamente occidentale
e accettando di non poter solo imporre, insegnare o aiutare, ma di dovere o potere
anche imparare e scambiare conoscenze con altre culture su un piano di parità.