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In questo lavoro si è analizzato il fenomeno della pubblicità “cattiva”,
interrogandosi sulle motivazioni che sembrerebbero esserne alla radice.
L’utilità di questo lavoro potrebbe essere il primo mattone per la costruzione
di un ponte fra psicologia cognitiva e psicologia sociale, al fine di lavorare su
un comune campo applicativo: la psicologia della pubblicità.
Nel primo capitolo la pubblicità è la protagonista assoluta: viene
presentata la sua definizione, la sua storia, i mezzi di cui si è avvalsa e che
continua ad usare, e le teorie principali che ne governano la progettazione e il
funzionamento.
Nel secondo capitolo la protagonista diventa la persuasione. Partendo
sempre dalla sua storia, sono presentati i maggiori risultati ottenuti dallo
studio scientifico di quest’ultima, come per esempio la teoria
dell’elaborazione dell’informazione di Petty e Cacioppo (1986).
Nel terzo capitolo l’attenzione si sposta sulle cosiddette “armi
periferiche”, cioè sugli espedienti che la persuasione, in particolare quella
pubblicitaria, utilizza maggiormente. Si è presa in esame la categorizzazione
delle armi della persuasione di Robert Cialdini (1996), nata per le interazioni
faccia a faccia, e si è cercato di adattarla alla pubblicità, completandola con la
teoria dell’elaborazione dell’informazione e aggiungendo un’ulteriore arma
della persuasione: l’antipatia. Questo strumento deve essere visto in maniera
molto generale, si intendono infatti per antipatia i disvalori presentati in
pubblicità, i comportamenti scorretti, e tutti gli artifici che sembrano andare
contro le principali teorie della pubblicità, secondo le quali ad un prodotto
deve essere associato uno stimolo positivo, per ottenere un buon risultato.
Questa tendenza della pubblicità moderna potrebbe apparire poco sensata, ma
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è in realtà frutto di un’attenta osservazione di come la società si sta
evolvendo.
Così “corretta”, la teoria di Cialdini può essere usata per creare una
nuova teorizzazione, che tenga conto delle particolarità della comunicazione
mediatica che caratterizza la maggior parte del fenomeno pubblicitario. I
motivi per cui la pubblicità si avvale dell’antipatia, della cattiveria, dei
comportamenti scorretti e trasgressivi, potrebbero essere principalmente due:
attirare l’attenzione del consumatore, che verrebbe catturato dalle immagini
che vanno fuori dall’ordinario, e rappresentare i cambiamenti della società,
dei quali i media si fanno portavoce. L’elemento che induce a riflettere
consiste nel fatto che la cattiveria e i disvalori negli spot non sono
rappresentati dagli antagonisti, bensì dai protagonisti, gratuitamente e senza
alcun pentimento. Il “cattivo” è l’uomo comune, non è il nemico, i “cattivi”
siamo noi.
È mostrata, in questi messaggi, la nostra piccola meschinità quotidiana;
è riprodotto in modo caricaturale quello che siamo. E dai comportamenti
scorretti presentati, noi, però, amiamo prendere le distanze, perché questo ci
fa sentire migliori. Si sviluppa quindi un duplice effetto contrasto: da un lato
fra la cattiveria dei protagonisti e il prodotto che al contrario è sempre buono,
al punto tale da provocare gesti ineducati, e dall’altro fra il personaggio
“cattivo” e noi stessi, che di fronte alle gesta poco cortesi del protagonista,
sviluppiamo, nei suoi confronti, sentimenti di superiorità. Questo meccanismo
è stato chiamato “catarsi pubblicitaria”.
Vengono quindi riportati a titolo di prova due campagne pubblicitarie:
quella della “Breil” e quella dei “Quattro Salti in Padella”, le quali potrebbero
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essere considerate l’emblema della tendenza ad usare la cattiveria in
pubblicità.
Infine viene proposta una ricerca dove sono analizzati gli spot raccolti
per tre mesi dall’aprile al luglio del 2003, una settimana al mese per i sette
canali televisivi nazionali, e distinti per fasce di orario: mattina, pomeriggio e
sera. Gli spot sono stati scomposti in base al loro oggetto, cioè il tipo di
prodotto al quale si riferiscono, il target e l’arma di persuasione
principalmente usata. L’obiettivo è fornire uno strumento per indagini future e
uno spunto di riflessione su come il fenomeno pubblicitario sia cambiato e
possa essere migliorato. La speranza è che una maggiore conoscenza del
funzionamento della pubblicità possa essere uno strumento per creare
messaggi sempre migliori, sia in campo commerciale che in campo sociale,
che attraggano l’attenzione del consumatore senza annoiarlo, ma anche senza
disturbarlo con cattiverie gratuite e delle quali non si comprende il significato.
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CAP. 1 LA COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA
1.1 La pubblicità: storia
Il termine “pubblicità” in lingua italiana deriva da “pubblico” ed
assume quindi il semplice significato di “rendere noto” ciò che fino a quel
momento non lo era. Viceversa, il corrispondente termine inglese advertising
(da to advertise: avvertire) privilegia il processo di natura commerciale
finalizzato al raggiungimento del destinatario del messaggio. Il termine
francese réclame (richiamo) mette in evidenza l'aspetto di richiamo ad
un’azione insito nel messaggio
(www.bibliolab.it/sitografie/sitografie_pubblicita.htm).
La pubblicità è molte cose: è “l’arte di convincere i consumatori”
(Bassat & Livraghi, 2001), è suggestione, è persuasione, è cattiva, è buona, è
semplicemente una forma d’arte, è una forma di marketing. La sua
definizione è cambiata nel corso degli anni e a seconda delle prospettive
privilegiate di lettura del fenomeno. Oggi possiamo dire che la pubblicità è
una forma di comunicazione di massa commerciale, nel suo significato
usuale, la promozione della vendita di un prodotto o di un servizio (Brioschi,
1984). Il termine può essere anche visto come un tipo di comunicazione di
massa in grado di influenzare l’opinione pubblica, di guadagnare un supporto
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politico, di favorire una particolare causa, o di suscitare una qualsiasi risposta
che il pubblicitario intende ottenere (Encyclopaedia Britannica).
La pubblicità è parte integrante della nostra vita, è una presenza
costante nella società moderna, tanto che può essere considerata un “luogo
della mente” e presenta “la caratteristica di fondamentale di mescolare le carte
in un intreccio di volontà e pulsioni diverse, spesso divergenti: informare,
convincere, imporre, ma anche autoconvincerci, sforzarsi di piacere, cercare il
consenso, e così via” (Fausto Colombo cit. in Testa, 2003 p.9).
La pubblicità è un fenomeno multidimensionale, in quanto coinvolge
una serie di soggetti come l’utente, l’impresa, il pubblico, i media e l’agenzia,
i quali sono costantemente interagenti fra loro generando una realtà di grande
complessità. Inoltre la pubblicità ha importanti risvolti a livello economico,
politico e sociale.
Il compito della pubblicità è quello, fondamentalmente, di dare
personalità alle merci, dotandole di senso e significato. Attinge, ma nel
contempo contribuisce a costruire, il nostro immaginario collettivo, i miti e i
riti del nostro tempo. Si ispira all’attualità, a quello che accade nel mondo e ai
grandi archetipi universali, contribuendo, giorno per giorno a costruire il
significato della realtà in cui viviamo (Fabris, 2002).
La pubblicità dà visibilità e significato alle nostre scelte di consumo,
contribuendo alla formazione della nostra immagine, per noi stessi e nei
confronti degli altri, infatti con il nostro comportamento di consumo noi
intendiamo dire al mondo quello che siamo, quello che vogliamo essere e
quello che aspiriamo a diventare. La pubblicità ci fa inoltre anche da bussola,
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permette di orientare le nostre scelte nel mondo, sia dal punto di vista del
mercato, sia dal punto di vista dell’uso socialmente corretto di un prodotto.
Secondo Abruzzese la pubblicità può essere considerata come la più
moderna delle arti, uno specchio quotidiano e costante dei nostri gusti, delle
nostre idee (Abruzzese, 1986).
La pubblicità può essere quindi intesa come mirror o shaper, ma forse,
si potrebbe parlare di uno “specchio delle mie brame” (Vecchia, cit. in Fabris,
2002), che riflette un’immagine gratificante e consolatoria del consumatore
narcisista. Altri, invece, come Falabrino (1989), pensano che il rapporto fra
pubblicità e arte non sia così scontato. La pubblicità è, secondo questo autore,
un’arte decorativa e consolatoria, una idealizzazione della vita.
È da notare, però, che mentre ai suoi esordi la pubblicità attingeva i
propri strumenti da diverse aree, adesso ha acquisito una certa indipendenza e
si profila come un genere massmediologico vero e proprio, piuttosto che un
metagenere, cioè un genere trasversale, che attinge continuamente da altri
campi contigui senza avere una propria specificità espressiva. La pubblicità
ha assunto un carattere di istituzione cui corrispondono ruoli e funzioni ben
precisi, assimilabili alla funzione di commercializzazione. La testimonianza di
ciò è che la pubblicità è diventata autoreferenziale, ha l’abitudine non solo di
autocitarsi, ma anche di essere citata da altri mezzi di comunicazione di
massa, “Lo specifico registico della pubblicità, specifico che attiene alla
sintesi, alla rapidità del montaggio, alla capacità di sposare insieme suoni e
immagini in modo molto veloce, molto rapido, ma anche molto accattivante,
interessa, in tal senso, anche la comunicazione di carattere puramente
informativo. Direi quindi che ci troviamo di fronte ad una contaminazione, di
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carattere positivo, o perlomeno non di carattere negativo, dello specifico
registico pubblicitario con il contenuto televisivo tout court” (Da intervista ad
Alberto Contri Milano, 11giugno 1998, “La televisione futura tra cultura e
pubblicità”, www.mediamente.rai.it).
Gli aspetti distintivi della comunicazione pubblicitaria sono prima di
tutto la sua unilateralità: la pubblicità è come un avvocato, non è obiettiva, il
suo compito è quello di presentare le cose dal loro lato migliore, quello che in
fondo facciamo noi nella presentazione di noi stessi agli altri: miriamo a
mostrare il meglio di noi stessi (Pratkanis & Aronson, 1996). In secondo
luogo chi promuove la pubblicità è esplicitato, anche se talvolta ciò non
accade; in terzo luogo la pubblicità impiega i grandi mezzi di comunicazione
di massa, e infine ha la finalità di indurre una propensione al consumo, che
non vuol dire la vendita, per la quale intervengono altri fattori che la
pubblicità non può prevedere, come l’irreperibilità del prodotto o il prezzo,
ma una generale disposizione verso l’atto del comprare.
Si può anche dire, come sostiene Zanacchi (1999), che la pubblicità
presenta una serie di caratteristiche linguistico-espressive che discendono
dalla sua particolare natura persuasiva, dal suo dover raggiungere il più vasto
pubblico possibile e dall’onerosità degli spazi necessari per la diffusione dei
sui messaggi. Tali caratteristiche possono essere raggruppate in tre categorie:
formali, di contenuto, diffusive.
Le caratteristiche formali consistono nella brevità e nella capacità di
attrazione dei messaggi pubblicitari; le caratteristiche di contenuto sono la sua
parzialità, semplicità, sintesi, prevalenza degli elementi emotivi, forte
assertività e prevalenza della dimensione del comando-esortazione. Infine le
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caratteristiche diffusive sono costituite da pervasività, intrusività, ripetitività,
massiccia utilizzazione dei mass media. Di queste caratteristiche tre risultano
essenziali: la brevità, la ripetizione e la pervasività.
La brevità è indispensabile per l’impatto, ma può anche essere intesa
come sintesi e semplificazione, espediente per abbattere i costi degli spazi sui
media e parzialità informativa, cioè presentare il prodotto o il servizio in
questione solo dal suo lato migliore, come un buon avvocato.
La ripetizione risponde a varie esigenze: quella di raggiungere una
copertura totale del target di riferimento, di facilitare la comprensione, il
gradimento e la memorizzazione dei messaggi.
Infine, in relazione con la ripetizione c’è la pervasività, la quale è una
caratteristica essenziale della pubblicità, anche se non è un aspetto amato
dagli spettatori, i quali raramente cercano la pubblicità, piuttosto la subiscono.
Tale aspetto è quindi perverso, perché un eccesso di affollamento
pubblicitario può creare effetti negativi di stanchezza, rifiuto e irritazione che
possono depauperare i messaggi e renderli inefficaci. Jacques Sèguèla ha
infatti sempre sostenuto che “troppa pubblicità uccide la pubblicità”
(Zanacchi, 1999).
Il fenomeno pubblicitario può inoltre essere studiato attraverso diverse
prospettive di analisi, fra le quali per esempio, un approccio microeconomico-
aziendalistico, secondo il quale le funzioni della comunicazione pubblicitaria
sono praticamente quelle di marketing, essa è il più importante strumento di
cui l’azienda dispone per creare la propensione al consumo e per sollecitare le
vendite.
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Si può parlare anche di una prospettiva socioantropologica, che pone
l’enfasi non sulle vendite ma sull’influenza che la pubblicità esercita sul
sociale, non tanto come effetto delle singole campagne, ma come effetto
cumulativo delle stesse. Secondo questa visione la pubblicità veicola la
cultura, i valori, svolge una funzione di agenzia di socializzazione, influenza
le gerarchie di consumo e il tempo libero e diffonde valori e modelli a cui
ispirarsi.
Bisogna ricordare anche un approccio che vede la pubblicità come arte,
data la sua storica frequentazione con gli artisti, tanto che talvolta è l’arte
stessa che prende spunto dalla pubblicità e non viceversa. Poi la prospettiva
pubblicitaria che vede la pubblicità come mestiere, dal punto di vista di chi ci
lavora, e infine la prospettiva delle scienze sociali, che potrebbe essere
considerata come la visione più adeguata, in quanto la pubblicità è un
fenomeno sociale complesso, un sistema di comunicazione fatto da individui
che vogliono comunicare con altri individui in modo da influenzarne i
comportamenti attraverso i mass media, in una continua relazione con il
sociale (Fabris, 2002).
La pubblicità si configura come un fenomeno di vasta portata, una sorta
di “motore” dei media, una fabbrica di stili di vita e di nuovi valori, una
pedagogia sociale che non promuove solo oggetti, ma anche idee, modi di
vivere e di pensare, influenzando profondamente l’intero tessuto sociale, fino
a configurarsi come crogiolo culturale dell’uomo del duemila (Zanacchi,
1994).
La pubblicità non è sempre stata così come la conosciamo, è stata resa
differente dalla crescita della produzione industriale. Infatti, se prima la sua
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funzione si riduceva al compito di fare in modo di vendere un prodotto,
utilizzando la suggestione, la persuasione od altro, oggi la sua funzione è
decisamente cambiata. È cambiato il vissuto d’acquisto delle merci, in quanto
questa società ha passato la fase di soddisfazione dei bisogni primari, e il
valore d’uso del prodotto è stato sostituito dal valore dello stesso in quanto
segno (Fabris, 2002).
Il compito della pubblicità diviene, quindi, quello di trasformare i
prodotti in segni. La crescente omologazione ha fatto perdere le caratteristiche
distintive delle merci, di conseguenza le loro distintività funzionali sono
diventate meno importanti rispetto alle loro distintività simboliche. Il compito
della pubblicità diventa allora quello di attribuire senso agli oggetti, di creare
un linguaggio costituito dai prodotti che compriamo e di cui ci circondiamo.
In termini di strategia pubblicitaria, tutto questo vuol dire dare sempre
maggiore importanza alla marca: “i marchi esistono solo per i valori che
riescono a captare e digerire all'interno dei loro stessi prodotti” (intervista a
Jacques Sèguèla, Roma, 3 aprile 1998, www.mediamente.rai.it).
Non è più un oggetto ad essere pubblicizzato, ma un’immagine,
un’idea, un insieme di valori che quella determinata marca veicola. Nel
concetto di marca, infatti, entrano in gioco sia le caratteristiche intrinseche di
un prodotto, sia tutti gli elementi di natura affettivo-emozionale ad esso
associati nella mente dei consumatori (Zanacchi, 1999). Inoltre una marca è
più riconoscibile di un prodotto, e costruire valori di marca e ovviamente
vendere prodotti, è la funzione della pubblicità. Le strategie sono il
fondamento intorno al quale la pubblicità si costruisce (Roma & Maas, 1995).
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L’atto del consumo quindi si carica di significati nuovi: comprare certi
oggetti può volere esprimere lo status a cui si aspira, differenziandosi dalle
classi sociali sottostanti.
Prima degli anni ’60 si ricorreva al prestigio come categoria passe
partout, in seguito ci si rese conto che in tutta una serie di acquisti potevano
essere ravvisate anche altre ideologie come la modernità, l’adesione ad un
nuovo mondo e ad una nuova cultura.
Il cambiamento più importante si è avuto in anni recenti, quando i
prodotti sono diventati espressione di valori, significati sociali, e si sono
costituiti come un codice generale degli oggetti che si articola secondo i
codici subculturali dei diversi gruppi di cui si compone il sociale. Inoltre la
semantizzazione degli oggetti è funzionale nel creare un rapido turnover: più
che per obsolescenza tecnologica, i prodotti escono dal mercato per
obsolescenza comunicativa, il prodotto si desemantizza, cioè non svolge più
la sua funzione comunicativa, oppure è vecchio rispetto al mondo degli
oggetti che intanto si è evoluto.
Gli oggetti, inoltre, poiché si costituiscono come un sistema di
indicatori, hanno la funzione di offrire un supporto nella ricerca e
nell’espressione dell’identità individuale, e anche nell’affermazione della
propria identità sociale. Questo perché oramai si sono perse quelle che erano
le tradizionali sfere di riferimento come la famiglia e lo stato, e la sfera
pubblica si dimostra incapace di fornire dei contesti soddisfacenti di
identificazione. Poiché la scelta dell’identità è per l’individuo un elemento
essenziale, egli trova nel consumo e nell’uso del codice definito culturalmente
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degli oggetti un modo per esprimere quello che è e che vorrebbe essere
(Fabris, 2002).
Nonostante la vasta letteratura sul fenomeno pubblicitario, le
conoscenze che si hanno di essa sono poche, in realtà. Infatti, le ricerche sul
comportamento di consumo sono nettamente maggiori rispetto a quelle mirate
a misurare l’efficacia della pubblicità. Come dice Zanacchi “manca in realtà
uno studio sistematico della pubblicità sotto il profilo extraeconomico, del
quale è tuttavia largamente riconosciuta l’importanza” (1994, p.24).
La società contemporanea è molto più complessa che in passato: è
scomparso il consumatore “medio” (la famosa massaia) a causa di un
processo di frammentazione sociale, si sono intensificati i ritmi di
cambiamento travolgendo tutto quello che sembrava consolidato, con il
risultato di promuovere nuovi valori e dimetterne altri. La pubblicità si è
affiancata al mix di elementi di marketing, e il sistema dei media si è
trasformato, come anche l’atteggiamento dei consumatori nei confronti della
pubblicità (Fabris, 2002).
È probabile che uno dei motivi della mancanza di ricerche sulla
pubblicità sia dovuto al fatto che la maggioranza dell’opinione degli addetti ai
lavori si sia rivolta verso quella che Jones chiama la teoria forte della
pubblicità (1991, cit. in Fabris 2002). Secondo l’autore, la pubblicità influisce
sui comportamenti e sugli atteggiamenti degli individui, è il più importante
elemento propulsivo della domanda sul mercato, incide non solo sulle vendite
delle singole marche ma anche su interi settori merceologici, riesce a
manipolare la volontà del consumatore inconsapevole, per essere efficace
deve ispirarsi ad una strategia di attacco, e considera il consumatore passivo.
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Secondo Jones esistono le prove che gli assunti principali della teoria forte
non siano fondati, infatti sulla base di numerosi studi sui rapporti fra vendite e
pubblicità ha dimostrato che: circa il 95% dei nuovi prodotti fallisce
nonostante la pubblicità; le vendite direttamente attribuibili alla pubblicità
sono modeste; i livelli di elasticità pubblicitaria sono bassi; nel settore del
consumo i beni godono di una notevole fedeltà e regolarità e prevedibilità,
perché il consumatore si è costruito un repertorio di marche a cui attingere;
per la maggior parte dei beni di consumo le vendite aumentano solo del 1-2%
l’anno; la pubblicità ha un rendimento marginale decrescente (Fabris, 2002).
In contrasto con la teoria forte si può collocare la teoria debole, la
quale sostiene che la pubblicità ha in realtà effetti limitati, in quanto il
consumatore si espone solo alle pubblicità dei prodotti che in genere acquista;
la pubblicità non ha il potere di cambiare le opinioni e gli atteggiamenti come
si pensava; è usata nella maniera più efficace per scopi difensivi con una mera
funzione di rinforzo più che di allargamento del mercato e infine non può
funzionare se va contro alle credenze del target di riferimento. Secondo
Mazzocchi (1971 cit. in Fabris, 2002) la pubblicità non influenza la
ripartizione fra consumo e risparmio, e studi successivi hanno dimostrato che
non incide sulla propensione al consumo né nella struttura né nella
composizione dei consumi. Determina solo, all’interno di un comportamento
di consumo le brand shares.
Fra queste due posizioni estreme si può anche cercare una terza via
(Zanacchi, 1999). La pubblicità è un fenomeno talmente complesso da non
poter essere catalogato all’interno di un'unica teoria. Il suo funzionamento
non è mai univoco, e i motivi dell’efficacia delle campagne pubblicitarie
possono essere totalmente diversi fra loro, rendendo impossibile la creazione
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di un quadro unitario. Pretendere di individuare una sola modalità di azione
della pubblicità è un’impresa impossibile, oltre che riduzionistica. Questo
perché siamo limitati da una conoscenza ancora parziale del fenomeno
pubblicitario. Probabilmente sarebbero più plausibili teorie specifiche riferite
a situazioni particolari. “Al fine di una ricerca la cosa migliore sarebbe
analizzare la pubblicità sotto il suo profilo comunicativo, più che economico,
cioè considerare la funzione propria della pubblicità quale tipica forma di
comunicazione persuasiva, nell’ambito del disegno complessivo tracciato
dalle strategie di marketing” (Zanacchi, 1999 p. 239).
La pubblicità non ha sempre avuto un’immagine positiva, e
probabilmente Vance Packard ha fatto la sua parte nella costruzione di questa
cattiva reputazione. In particolare, secondo alcuni autori come Zanacchi
(1994) e Fabris (2002) nel nostro paese, l’affermarsi di una cultura industriale
si è dovuta scontrare con due subculture tradizionaliste, ree di avere un forte
pregiudizio antindustriale: il cattolicesimo e il marxismo. Il cattolicesimo ha
provocato un forte preconcetto etico nei confronti dei comportamenti di
consumo, dei quali la pubblicità è la più diretta manifestazione; il marxismo,
invece, vede l’indulgenza sul consumo come un mezzo delle classi capitaliste
per distogliere le masse dalla lotta di classe.
Comunque si può affermare che la pubblicità condivide le sue
imputazioni con quelle riferite alla cultura di massa. Questo perché la
pubblicità è una parte importante della cultura di massa, una sorta di iper-
realismo della cultura di massa stessa (Statera, 1990).