dell’assistente sociale della giustizia con questa tipologia di utenza ed i problemi che ne
derivano, per provare a rispondere ai suddetti quesiti.
Innanzi tutto mi è parso importante cominciare con il dare una definizione il piø chiara
possibile di chi siano quelli che, appunto, sono chiamati i cosiddetti colletti bianchi. Le
diverse definizioni del termine, infatti, pur essendo improntate ad una sostanziale
omogeneità, contengono sfumature di differenza anche sensibili. Nell’immaginare lo
svolgersi di questo lavoro, avevo pensato di dare uno spazio assai limitato a questo
argomento, ma mi sono accorta che era impossibile pensare alle interviste da sottoporre
agli assistenti sociali senza avere un’idea assolutamente precisa non solo di chi siano i
colletti bianchi, ma soprattutto di quali siano i reati dei colletti bianchi da prendere in
considerazione. Nel primo capitolo, quindi, riproporrò la bibliografia piø significativa in
materia per poter delimitare in modo sufficientemente netto quello che è, alla fine,
l’oggetto della ricerca.
Nel secondo capitolo è mia intenzione riassumere brevemente la storia della misura
dell’affidamento in prova al servizio sociale, prima in generale e poi con specifico
riferimento ai beneficiari colletti bianchi. Nel corso del tempo, infatti, la giurisprudenza ha
assunto posizioni differenti rispetto a questo argomento, e ancora oggi queste differenze
emergono nei diversi atteggiamenti dei singoli Tribunali di Sorveglianza.
Il capitolo seguente affronterà, in modo necessariamente breve, data la scarsità di materiale
bibliografico reperibile sull’argomento, il punto di vista del servizio sociale rispetto
all’affidamento in prova dei colletti bianchi.
Di seguito riproporrò le interviste ad alcuni assistenti sociali di Centri di Servizio Sociale
per Adulti che abbiano avuto esperienze di lavoro con affidati in prova colletti bianchi. Dal
momento che l’obiettivo è approfondire la questione alla luce delle riflessioni professionali
sui casi e non quello di quantificare il fenomeno, e che comunque in alcuni ambiti
territoriali questa misura non viene in realtà applicata molto a questo tipo di utenza, il
numero di interviste è limitato. Siccome, però, ogni Tribunale di Sorveglianza ha in
qualche modo fatto storia a sØ nell’applicazione della misura, contribuendo a sedimentare
opinioni diverse sul tema anche nella riflessione degli operatori, ho cercato di intervistare
assistenti sociali di C.S.S.A diversi.
In particolare ho preso in considerazione:
6
il CSSA di Firenze, che per molti versi ha sviluppato un percorso originale rispetto agli
altri, grazie soprattutto alla forte personalità del Dott. Alessandro Margara, già
Presidente del Tribunale di Sorveglianza, la cui impostazione umanistica della
condanna e del condannato ha portato grandi slanci ideali e qualche effetto distorto.
Qui ho intervistato l’assistente sociale Giovanna Brasioli, che mi ha descritto la sua
esperienza in particolare con personaggi politici di rilievo locale;
il CSSA di Milano, dove in seguito a Mani Pulite il numero di colletti bianchi in carico
al servizio è stato forse il piø elevato d’Italia, costringendo di fatto ad approfondite
riflessioni sia gli operatori che la magistratura. E’ per questo motivo che molti dei casi
che citerò vengono proprio dall’esperienza milanese, e sono raccontati dall’assistente
sociale Filomena De Girolamo, che ha avuto in affidamento uomini politici di rilievo
nazionale, imprenditori e liberi professionisti implicati in grandi scandali aziendali;
il CSSA di Padova, rispetto al quale non avevo informazioni particolari, e che quindi
rappresentava per me una sorta di riferimento alla normalità. Qui ho intervistato le
assistenti sociali Concetta Iuorio e Angela Stocola, che meritano una menzione
particolare per aver preparato insieme le risposte prima del nostro appuntamento;
il CSSA di Venezia, nell’ambito del quale è tra l’altro nata in me l’idea di questo
lavoro, che, pur lavorando con una Magistratura di Sorveglianza che sembra
particolarmente severa, in special modo nei confronti dei colletti bianchi, ha sviluppato
un percorso molto interessante ed approfondito rispetto al tema della giustizia
riparativa. Il colloquio si è svolto con l’assistente sociale Laura Falagario, che in
particolare si è occupata di alti ufficiali della Guardia di Finanza e di personaggi
implicati in gravi scandali nel settore pubblico.
Oltre a ringraziare moltissimo le colleghe che, pur oberate di lavoro, si sono prestate a
questa intervista portando tra l’altro esperienze e riflessioni molto significative, mi sembra
opportuno ringraziare chi ha facilitato questi incontri, ed in particolare la dott.ssa Anna
Muschitiello, assistente sociale presso il CSSA di Milano e segretaria nazionale del CASG,
la dott.ssa Chiara Ghetti, direttore, e Elena Mainardis, assistente sociale presso il CSSA di
Venezia, il dott. Leonardo Signorelli, direttore del CSSA di Padova.
Alla luce delle informazioni raccolte con le interviste, infine, riassumerò nell’ultimo
capitolo le mie conclusioni.
7
I REATI DEI “COLLETTI BIANCHI”
Ho provato a realizzare tra i miei conoscenti una sorta di semplice sondaggio. Alla
domanda “chi sono i colletti bianchi?”, generalmente ho avuto come risposta “gli
impiegati”. Quando però ho chiesto “quali sono i reati dei colletti bianchi?”, quasi tutti
hanno descritto reati finanziari perpetrati da alti funzionari e dirigenti. Questo piccolo gap,
per il quale il termine colletto bianco cambia significato a seconda che sia in una frase
neutra o sia invece affiancato da una parola di senso negativo, quale reato, mi ha dato da
pensare, fino a quando non ho ritrovato una simile differenza anche nelle definizioni
sociologiche, meno superficiali dei sondaggi volanti tra amici e parenti.
Alla voce “white collar”, il dizionario riporta la definizione di “impiegatizio”, così come il
3
“white collar worker” è “chi lavora in ufficio; impiegato; funzionario”, opposto alla tuta
blu, che rappresenta invece l’operaio dell’industria.
Wright Mills è il primo a realizzare un lavoro che ha per tema la descrizione, appunto, dei
4
colletti bianchi. Mentre fino alla metà dell’ottocento la classe media statunitense era
composta in prevalenza da agricoltori, uomini d’affari e liberi professionisti, dopo la
rivoluzione industriale il nuovo ceto medio è formato da “dirigenti, professionisti
stipendiati, addetti alle vendite e impiegati d’ufficio”. Certo questa definizione appare un
po’ troppo inclusiva, dato che come abbiamo già visto un conto è pensare ai commessi e
agli impiegati e ben altra cosa è avere in mente alti funzionari ed amministratori delegati,
ma Wright Mills approfondisce ulteriormente la questione. Nel sottolineare, infatti, le
differenze tra il vecchio ceto e il nuovo, l’autore ci dice che la trasformazione è legata al
passaggio dalla proprietà alla non proprietà ma soprattutto dalla proprietà all’occupazione.
Mentre prima, infatti, per essere ceto medio era indispensabile essere proprietari di terreni,
beni, addirittura uomini (la schiavitø fu ufficialmente abolita dal presidente Lincoln solo
nel 1863), ora invece il ceto medio è composto da lavoratori dipendenti e stipendiati, tra i
quali permangono comunque differenze ancora molto significative.
E’ ancora l’autore, infatti, che nel testo individua alcuni criteri specifici di classificazione
delle attività lavorative all’interno della stessa classe sociale; essi sono:
3
Il Ragazzini 2003, Dizionario inglese-italiano, Zanichelli, Bologna, pag. 1325.
4
Wright Mills C. (1967), Colletti bianchi. La classe media americana, Einaudi, Torino.
8
la specializzazione nelle mansioni, che inizialmente corrisponde alla necessità della
divisione del lavoro nella produzione di tipo industriale, ma dalla quale deriva poi la
distribuzione nel lavoro di responsabilità e capacità direttive;
la capacità di essere fonte di reddito, che ha a sua volta a che fare con lo status e la
posizione sociale, dal momento che l’appartenenza a questo ceto e la disponibilità
economica che si ricava dalla propria attività professionale sono in grado di conferire
un certo grado di prestigio che si riflette sul lavoro ma anche -e forse soprattutto- al di
fuori di esso;
il potere su altre persone, che viene esercitato direttamente nell’attività lavorativa e
indirettamente negli altri contesti di vita.
Se perciò vogliamo, alla luce delle indicazioni dell’autore, porre su una sorta di scala
graduata le diverse professioni da lui indicate, intendendo con “+” un grado maggiore di
specializzazione, reddito, status, prestigio e potere, e con “–“ invece un grado minore, la
scala che visualizziamo è proprio questa:
+ -
dirigenti professionisti stipendiati impiegati d’ufficio addetti alle vendite
E’ ovvio perciò che, all’interno del medesimo ceto, quanto piø la propria posizione si
colloca alla sinistra della scala tanto piø si sarà assimilabili alla upper-class, quanto piø
invece ci si collocherà alla destra tanto piø si tenderà a somigliare alla classe operaia.
Non è mia intenzione addentrarmi in discorsi di finanza pubblica internazionale, che
peraltro mi vedono sostanzialmente impreparata, ma ritengo che se Wright Mills avesse
scritto la sua monografia ai giorni nostri probabilmente avrebbe marcato in modo un po’
piø profondo le distinzioni nel determinare i componenti del ceto medio. Nell’attuale
congiuntura economica mondiale di senso sostanzialmente negativo, infatti, e nella
situazione di stallo che vive in special modo il nostro Paese, dove di fatto i redditi medi e il
potere d’acquisto degli impiegati e dei commessi vanno sempre piø avvicinandosi e quasi
sovrapponendosi a quelli dei salari degli operai d’industria, una distinzione ulteriore appare
necessaria.
9
Chi compie questo passaggio in modo assolutamente netto è Sutherland che, nei suoi saggi,
adotta una definizione piø puntuale: “Ho usato il termine delinquente dal colletto bianco
per designare una persona della classe socio-economica superiore che viola le leggi
deputate a regolare la sua attività professionale mentre generalmente è usato per riferirsi
agli impiegati che indossano giacca e cravatta quando lavorano, o ai commessi dei
5
negozi”. Pur riconoscendo, quindi, efficacia alle definizioni precedentemente date,
Sutherland ci permette di affrontare proprio la distinzione tra colletto bianco e reato del
colletto bianco che avevamo inizialmente accennato.
Abbandoniamo perciò in modo pressochØ definitivo la classe media impiegatizia per
concentrarci piuttosto su quella parte che piø somiglia alla upper-class, e piø direttamente
su quest’ultima, visto che le due classi vanno via via sovrapponendosi, soprattutto dal
punto di vista dei comportamenti illeciti.
Sutherland è stato uno dei primi autori a sostenere che anche i colletti bianchi commettono
6
reati, il primo in assoluto a trattare il tema in modo sistematico. Nell’America degli anni
’40 questa affermazione fece indubbiamente scalpore, dal momento che la sociologia, la
criminologia, il diritto e l’opinione pubblica erano sostanzialmente concordi nel
riconoscere la criminalità solo nei reati convenzionali e nell’identificare i rei con gli
appartenenti alle classi piø sfavorite. Mentre tutti sostengono che la radice della criminalità
è la povertà, Sutherland capovolge completamente questa certezza proponendo la sua
teoria della criminalità ex ricchezza, e sostiene che un grande numero di reati, commessi
peraltro da larghi strati della popolazione, risultano di fatto sconosciuti al sistema penale
(la sua definizione è appunto quella di numero oscuro), dal momento che in parte non sono
mai perseguiti, in parte vengono giudicati come illeciti amministrativi e non approdano
mai nelle aule dei tribunali penali. Secondo l’autore, infatti, i reati delle due classi
(semplifichiamo in superiore ed inferiore), sono pressochØ identici nelle loro caratteristiche
essenziali. I reati delle classi inferiori, però, sono perseguiti dalla polizia, messi all’indice
dalla popolazione, giudicati con scrupolo nei tribunali e portano a condanne severe,
finanche alla pena di morte. I reati delle classi superiori, invece, o vengono del tutto
5
Sutherland E.H. (1948) I reati delle imprese, in Ceretti A. e Merzagora I. (a cura di) (1986), E. H.
Sutherland. La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Unicopli, Milano, pag. 92.
6
Prima di lui negli Stati Uniti di inizio secolo vi era stata l’esperienza dei muckrackers, “rastrellatori di
immondizia”, giornalisti che denunciavano pubblicamente scandali economici e comportamenti illeciti degli
uomini d’affari, ma si trattava appunto di campagne di stampa volte ad esporre e condannare un fenomeno,
non a comprenderne le cause e le caratteristiche. Si era poi parlato del criminaloid, colui che sfugge alla
pubblica condanna grazie alla sua rispettabilità, godendo perciò di totale immunità per i propri illeciti, ma
l’argomentazione si limitò all’articolo su una rivista del sociologo E. Ross nel 1907. Di fatto Sutherland fu il
primo a coniare l’espressione white collar crimes e ad approfondirne le implicazioni in una serie di saggi.
10
ignorati, o si concretizzano in cause civili per il risarcimento dei danni (dal momento che la
parte lesa in questo tipo di illecito, prevalentemente economico, è generalmente piø
interessata al risarcimento del danno, appunto, che alla punizione del colpevole), o
addirittura diventano di competenza di funzionari di uffici amministrativi o di commissioni
che comminano sanzioni sotto forma di ammonimenti, ordini di cease and desist (divieto
da parte di un giudice o di un organo amministrativo di reiterare una particolare condotta
considerata illecita) o perfino revoche di licenza. “In questo modo la procedura
amministrativa separa i colletti bianchi dagli altri delinquenti, e ciò soprattutto permette
loro di non considerarsi criminali e di non essere considerati tali dalla società e dai
7
criminologi”. Nel momento in cui, poi, dovessero approdare alla giustizia penale, e i casi
sono davvero pochi, le classi superiori (in un ampio sistema di solidarietà di classe che
coinvolge anche i legislatori e la magistratura) sono in grado di esercitare influenze
notevoli nell’applicazione della legge penale, nello stesso modo in cui in precedenza
avevano esercitato i loro poteri di influenza nella creazione delle medesime leggi.
Quali sono allora i reati dei colletti bianchi secondo Sutherland? La sua definizione è molto
precisa:” La criminalità dei colletti bianchi si esprime di solito nel campo degli affari in
8
falsità di rendiconti finanziari di società, nell’aggiotaggio in borsa, nella corruzione diretta
o indiretta di pubblici ufficiali al fine di assicurarsi contratti e decisioni vantaggiose, nella
9
falsità in pubblicità, nella frode nell’esercizio del commercio, nell’appropriazione di
10
fondi, nella frode fiscale, nelle scorrettezze nelle curatele fallimentari e nella bancarotta”.
Si tratta di reati che indubbiamente arrecano un grave danno economico ma che soprattutto
contribuiscono a creare sfiducia nella società e nelle sue istituzioni; questo è tanto piø vero
in un Paese come il nostro dove lo Stato ha sempre avuto un ruolo molto forte nella vita
dei cittadini, tant’è che molti dei reati citati da Sutherland sono appunto definiti reati
contro la Pubblica Amministrazione.
In un lavoro, unico nel suo genere sia nel panorama italiano che in quello internazionale,
volto a verificare tramite la somministrazione di questionari la sensibilità dei magistrati nei
confronti di una serie di reati influenzati dallo status socioeconomico di chi li commette,
7
Sutherland E.H. (1940) La criminalità dei colletti bianchi, in Ceretti A. e Merzagora I., opera citata, pag 69.
8
L’aggiotaggio consiste nel divulgare notizie false per causare una variazione dei prezzi delle merci o dei
valori quotati in borsa, in modo da turbare l’andamento delle attività commerciali per trarne profitto.
9
Questo reato può suonare strano nel nostro Paese, dove di fatto la difesa dei consumatori e l’attenzione
verso la pubblicità veritiera sono molto piø arretrate che negli Stati Uniti di piø di 50 anni fa.
10
Sutherland E.H. (1940), opera citata, pag 63.
11
Federici e Bisi riassumono brevemente le tre categorie nelle quali si compone
sostanzialmente la criminalità economica:
qualsiasi reato compiuto da membri della classe media (definizione che abbiamo
peraltro già superato);
ogni azione compiuta da impiegati, commercianti, industriali e professionisti che, pur
essendo socialmente dannosa, non viene classificata come crimine dalla legge penale,
oppure viene considerata reato minore (è il caso delle violazioni ai piani regolatori
quando non perpetrate da grandi organizzazioni criminali, oppure delle frodi ai
consumatori, soprattutto in Paesi come il nostro dove la tutela dei consumatori ha
tardato a emergere);
tutti quei reati che, per le loro caratteristiche “tecniche”, possono essere compiuti
prevalentemente da persone che occupano posizioni di responsabilità e hanno precise
competenze in campo finanziario, amministrativo o commerciale, ad esempio il
peculato.
Partendo da queste tre tipologie, le autrici individuano poi quattro gruppi di reati principali:
“delitti contro la pubblica amministrazione (peculato, malversazione, corruzione,
omissione o abuso di atti d’ufficio);
reati economici e finanziari propriamente detti (bancarotta fraudolenta, rialzo e ribasso
11
fraudolento dei prezzi, reati societari, esportazione di capitali ed evasione fiscale);
cosiddetti reati commerciali (difesa dei consumatori, tutela della salute pubblica
attraverso il commercio di sostanze alimentari e pubblicità);
cosiddetti reati sociali, il danno arrecato a interessi collettivi, regolati da leggi speciali
ma di importanza crescente (inquinamento, abusivismo edilizio, violazione delle
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norme sugli infortuni e sulla sicurezza sul lavoro)”.
Un passaggio molto significativo di questo lavoro è, a mio avviso, quello in cui si
sottolinea come caratteristica comune del reato economico del colletto bianco sia il fatto
che, oltre ad essere una violazione di legge, mira a ledere interessi collettivi, rappresentati
in organismi statali o come interessi della società intera, mentre la maggior parte dei reati
convenzionali ledono interessi personali e privati. Come fa correttamente notare Tiziana
11
A questo proposito è bene ricordare che dal 2001 è prevista nell’ordinamento italiano anche la
responsabilità della persona giuridica; la Legge 231/2001, infatti, titola “Responsabilità amministrativa delle
società per reati commessi dai dipendenti nell’interesse aziendale”. La legge, richiesta peraltro da piø parti
già nel periodo di tangentopoli, prevede misure interdittive anche per le società, ed è per la prima volta
all’attenzione dell’opinione pubblica nello scandalo Enipower degli ultimi mesi.
12
Federici M.C. e Bisi S. (a cura di) (1983) Economia sotto inchiesta: magistrati e reati economici,
Francoangeli, Milano, pag 55.
12