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raccontabili in un certo momento: proprio come diceva Baudrillard
ingigantendo la questione, fornendoci queste rappresentazioni pre-
costituite, derivate da credenze condivise, ci evita il pesante compito di
immaginare e rappresentare il mondo. Infatti, frammenti di luoghi
comuni vecchi e nuovi, codici e linguaggi familiari, personaggi e figure
molto vicini alla nostra quotidianità, valori positivi e schemi mentali di
riferimento finiscono tutti quanti nei testi pubblicitari che colorano le
città e riempiono il nostro mondo percettivo.
Ma qual è il motivo per cui in pubblicità appaiono comunemente
questi concetti condivisi, queste rappresentazioni collettive, che
prendono il nome di stereotipi? La mia tesi ha proprio lo scopo di
illustrare le ragioni per cui la pubblicità faccia un cosi ampio uso di
figure stereotipate, dimostrando come queste siano dei fenomeni usuali
e ordinari, facilmente riscontrabili non solo in qualsiasi testo narrativo,
ma anche nei più semplici scambi comunicativi. Come spiegherò nei
capitoli seguenti infatti, gli stereotipi non sono altro che un’estensione
di un meccanismo cognitivo ordinario, quale è la categorizzazione,
attraverso la quale “tagliamo a fette” il mondo fenomenico, diamo un
senso a ciò che ci circonda. e interagiamo con esso producendo dei
comportamenti adeguati, sulla base di determinate categorie che
derivano dal nostro vivere in una società che valorizza determinati
aspetti e produce differenti identità. Gli stereotipi, quindi, non sono
niente di più che prototipi di categorie cognitive, che derivano dalla
società che costruisce e distrugge mitologie.
Quello in cui sbagliano solitamente alcuni studiosi e la gente comune
nell’approcciarsi alla pubblicità e ai luoghi comuni in essa contenuti, è
il voler paragonare continuamente ciò che viene rappresentato nel testo
pubblicitario con la vita reale, sottolineando ovviamente le enormi
differenze che emergono tra i due contesti, e accusando la pubblicità di
essere lontana da quello che è il mondo del consumatore. Non c’è alcun
dubbio che quella rappresentata in pubblicità sia una realtà migliore
della nostra! I personaggi, sebbene siano degli “eroi” comuni, che
5
svolgono attività simili alle nostre e si imbattano in problemi piuttosto
banali, sono sempre più belli di noi, guidano auto più costose delle
nostre, e vivono in delle case enormi e lussuose. Più che essere lo
specchio del sociale (come sostengono molti studiosi), la pubblicità si
configura, a mio parere, come uno specchio dei desideri collettivi, che
raffigura in maniera stereotipata non la società, non gli uomini, non le
donne, ma quello che vorrebbe la società, quello che gli uomini
desidererebbero essere, quello che le donne vorrebbero diventare,
restituendoci alla fine quello che è, come direbbe Ugo Volli, un mondo
figurativizzato, che operando una generalizzazione, si limita a
riprodurre gli aspetti positivi delle cose.
Nella mia tesi, cercherò quindi di ribaltare il classico atteggiamento
negativo e, usando un gioco di parole, “stereotipato” riguardo gli
stereotipi pubblicitari, dimostrando come essi siano fondamentali nei
processi cognitivi di categorizzazione e inferenza; spiegando la loro
formazione a livello individuale e sociale, e sottolineando come questi
si diffondano attraverso il linguaggio. Questi argomenti li tratterò in
maniera dettagliata nel capitolo 1, rifacendomi in particolare alle teorie
di Bruno Gazzara, di Henri Tajfel e di Roland Barthes.
Nel capitolo 2, rifacendomi a studi in ambito psicologico, studi
sociologici riguardo i concetti di identità e rappresentazioni collettive e
studi semiotici di derivazione greimsiana sul funzionamento dei testi,
illustrerò i tre motivi principali che giustificano la presenza di questo
espediente persuasivo all’interno del discorso pubblicitario. La
pubblicità, essendo una forma di comunicazione perlocutiva che cerca
di produrre un effetto sul destinatario, si servirà di forme stereotipate
essenzialmente per: comunicare dei contenuti a un maggior numero di
persone, spesso impegnate in altre attività con risorse cognitive dunque
limitate, nel più breve tempo possibile con l’uso di concetti semplici;
creare e consolidare identità e appartenenza a un gruppo sociale
mediante figure verosimili, ma euforiche al fine di creare un desiderio
mimetico; valorizzare e “mitizzare” il nuovo prodotto inserendolo in un
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testo narrativo che presenta oggetti, personaggi e situazioni già
valorizzati nella realtà.
Nella seconda parte della tesi, dopo un lavoro di analisi di spot
trasmessi nelle reti nazionali italiane e di vari annunci stampa, presenti
in quotidiani e riviste di vario genere, illustrerò gli stereotipi più
presenti e rappresentati nelle pubblicità, concentrandomi sui
personaggi e sui luoghi. Nel capitolo 4, dopo una breve spiegazione
che riguarda i ruoli attanziali che ricoprono i personaggi nella
narrazione pubblicitaria, analizzerò le varie modalità attraverso le quali
vengono rappresentati l’uomo, la donna, i bambini, i giovani e gli
anziani, concentrandomi anche sulle azioni più tipiche che essi
compiono.
Nel 5 capitolo infine, rifacendomi alle teorie di Ugo Volli riguardo il
modo in cui viene rappresentato lo spazio in pubblicità, e alla
opposizione logica luoghi utopici/paratopi, illustrerò i luoghi
maggiormente presenti nelle pubblicità italiane (natura, città, casa,
luoghi di lavoro e luoghi di divertimento) spiegando se essi ricoprono
una funzione puramente scenografica o metaforica e come i personaggi
vengono collocati all’interno di questi spazi.
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CAPITOLO 1
Gli stereotipi
“Sulle donne s'è detto di tutto, anche troppo.
Eppure un manuale appena pubblicato suggerisce
un approccio diverso, come si evince fin troppo
bene dal titolo: "DELLA DONNA NON SI
BUTTA VIA NIENTE. CON 21 RICETTE PER
CUCINARLA". Un'idea originale, non v'è
dubbio. Peccato che il problema, con le donne,
non sia cucinarle. Ma digerirle..”
Indro Montanelli
1.1 Premessa
La frase da me riportata, che offre una visione classica della donna,
seppure dal tono ironico e grottesco, serve a dimostrare come anche il
pensiero di un grande autore e letterato italiano, come lo è Indro
Montanelli, risulta essere influenzato da modelli stabiliti dalla società
che vengono definiti stereotipi. In qualsiasi prodotto culturale, dai
romanzi ai film, dalle canzoni alle pubblicità, possiamo imbatterci
spesso in questi concetti preconfezionati che rispecchiano una
ideologia condivisa da una comunità di parlanti. A volte essi
riproducono fedelmente la concretezza dell’oggetto trattato, ma
frequentemente essi si limitano soltanto a illustrarne alcuni aspetti,
fornendo una descrizione generale che si allontana dalla vera realtà dei
fatti. Anche noi, nella vita di tutti i giorni, magari senza rendercene
conto, utilizziamo determinate credenze che influenzano il nostro
pensiero e le nostre opinioni, basta fare attenzione a ciò che diciamo, a
cosa facciamo, per notare che la maggior parte delle nostre relazioni
col mondo è regolata da schemi mentali che comunemente prendono il
nome di stereotipi. Infatti prima di adottare un determinato
comportamento, applichiamo un procedimento inferenziale automatico
composto da conoscenze condivise, rappresentazioni collettive, che
provengono dal nostro vivere in una società che fissa alcune regole
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importanti per il vivere comune e per la salvaguardia della società
stessa.
Al pensiero stereotipico spesso viene data un’accezione negativa:
chi si serve di stereotipi, viene accusato di chiusura mentale, di non
cogliere la vera essenza delle cose e di limitarsi a trarre delle
conclusioni soltanto dall’apparenza superficiale: Ma questo è un
fenomeno assai estremo, che sfocia nel pregiudizio, forma degenerata
di stereotipo, che devia la percezione della realtà e fornisce una visione
distorta delle cose, generando comportamenti non adeguati e spesso
discriminatori. A differenza di altri autori che hanno trattato i due
fenomeni in maniera complementare, ai fini della mia argomentazione,
mi occuperò soltanto degli stereotipi come fenomeni naturali positivi,
presenti nella vita di tutti giorni, caratteristici di un’ideologia comune.
Alla luce di alcune teorie, lo stereotipo viene considerato una
manifestazione abbastanza complessa, formata da caratteristiche
biologiche, psicologiche e sociali, che si manifesta e si diffonde
soprattutto attraverso il linguaggio. Prima di esaminare come questi tre
elementi integrandosi tra di loro danno origine allo stereotipo è
necessario fornire una definizione accurata del termine.
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1.2 Che cosa è lo stereotipo: fenomeno naturale o
artificiale?
Il termine stereotipo fu coniato verso la fine del Settecento in
ambito tipografico e indicava la riproduzione di immagini a stampa per
mezzo di forme fisse (dal greco stereòs-rigido e tùpos-impronta).
1
La
prima traslazione della parola avvenne in ambito psichiatrico, con la
quale si faceva riferimento a comportamenti patologici caratterizzati da
ossessiva ripetitività dei gesti e delle espressioni.
In ambito sociale il termine venne introdotto nel 1922 dal giornalista
Walter Lippmann che, occupandosi dei processi di formazione
dell’opinione pubblica, definì lo stereotipo come “un’immagine rigida,
qualcosa che si radica nella mente e che è dura da rimuovere”. Tali
immagini mentali hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni
grossolane della realtà, per il semplice fatto che la mente umana non è
in grado di comprendere e trattare la complessità degli innumerevoli
stimoli e informazioni in cui un soggetto si trova quotidianamente
immerso.
2
Attraverso gli stereotipi, che noi costruiamo nella nostra
mente con gli elementi che di volta in volta troviamo all’esterno, diamo
ordine ad un ambiente disordinato e caotico, quasi privo di significato,
cercando di categorizzarlo. Questo offre sicurezza e tranquillità
all’individuo, perché fornisce la capacità di saper affrontare
innumerevoli situazioni, ma nello stesso tempo svolge anche una
funzione di tipo difensivo in quanto, contribuendo al mantenimento di
una cultura e di determinate forme di organizzazione collettiva,
garantisce la salvaguardia delle posizioni sociali acquisite.
3
Una definizione generica da attribuire al termine stereotipo è offerta
da Bruno Mazzara che lo considera:
“L’insieme delle caratteristiche che si associano a una certa categoria di
oggetti[…] che includono anche elementi quali l’ampiezza di
1
Bruno M.Mazzara, 1997, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino, p. 15
2
Idem
3
Ibidem, p. 16
10
condivisione, l’omogeneità percepita del gruppo bersaglio e la relativa
rigidità e resistenza al mutamento dello stereotipo.”
4
Ma gli stereotipi fanno parte della cultura del gruppo e come tali
vengono assimilati dai singoli e utilizzati per capire meglio la realtà,
Henri Tajfel sottolinea, a questo proposito, una differenza tra stereotipi
cognitivi e stereotipi sociali:
“Gli stereotipi consistono in una serie di generalizzazioni diventate
patrimonio degli individui: essi sono in gran parte derivati (o
costituiscono uno dei casi) del processo cognitivo generale della
categorizzazione. La funzione principale di questo processo consiste
nel semplificare e nel sistematizzare, a fini di un adattamento cognitivo
e comportamentale, l'abbondanza e la complessità dell’informazione
che l'organismo umano riceve dal suo ambiente. Tali stereotipi possono
però diventare stereotipi sociali solo quando vengono condivisi da
grandi masse di persone all’interno dei gruppi e istituzioni sociali.”
5
Essi dunque richiedono anche un certo grado di condivisione sociale,
vale a dire la misura in cui una certa immagine viene condivisa da un
gruppo sociale o risulta comunque abbastanza comune nell’ambito di
una certa cultura. Interessante la definizione di stereotipo data da
Rupert Brown, che lo definisce come::
“Il risultato dell’associazione cognitiva di una categoria sociale con
certe determinate caratteristiche. Più semplicemente possiamo attenderci
che un individuo che possiede uno stereotipo su un gruppo attribuisca a
ogni singolo rappresentante di questo gruppo che gli sia noto le
caratteristiche distintive dello stereotipo stesso”
6
Un fenomeno che dunque trae le sue origini sia da processi
psicologici-individuali, che da processi di integrazione e di identità
sociale. Bruno Mazzara, nel suo libro Stereotipi e pregiudizi,
7
aggiunge
un altro meccanismo che porta alla creazione dello stereotipo: il
fondamento biologico dell’ostilità contro il diverso, che l’autore spiega
in termini evolutivi.
Allo stato attuale della letteratura, comunque, varie discipline si
interrogano sulla genesi di questo fenomeno, producendo a volte teorie
4
Ibidem, p. 19
5
Henri Tajfel, 1995, Gruppi umani e categorie sociali, Bologna, Il Mulino, pp. 238,
239
6
Rupert Brown, 1997, Psicologia sociale del pregiudizio, Bologna, Il Mulino, p. 114
7
Bruno M.Mazzara, 1997, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino, p.57
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contrastanti. Secondo lo stesso Mazzara questo dipende dall’approccio
al problema; in particolare egli individua due forme di discriminazione,
attraverso le quali è possibile delineare le diverse interpretazioni
riguardo questo argomento. La prima differenza che viene alla luce
concerne la natura stessa dello stereotipo: cioè se considerarlo un
fenomeno naturale o un fenomeno eccezionale. La psicologia di
orientamento cognitivista spiega queste manifestazioni, riconducendole
a una necessità della mente di ridurre e organizzare in modo più
semplice l’enorme quantità di stimoli ambientali sui quali si trova a
dover operare; a questa idea si oppongono coloro che ritengono che gli
stereotipi e, soprattutto i pregiudizi, siano fenomeni storicamente
determinati, quindi casi eccezionali che non riguardano la natura
dell’uomo. La seconda discriminazione, riguarda il livello di
spiegazione prescelto, che può essere individuale oppure di tipo
sociale. Da un lato si collocano le teorie, che mettono l’accento
sull’individuo e che spiegano lo stereotipo attraverso la selezione
naturale, i processi di funzionamento della mente, le strutture di
personalità, la socializzazione e le motivazioni. Dall’altro si trovano le
teorie che spostano l’interesse sulle interazioni tra gli esseri umani e
che chiamano in causa anche fattori economici e i rapporti di potere fra
i gruppi sociali.
Riallacciandomi alla teoria di Mazzara spiegherò come gli
stereotipi nascono dall’azione congiunta di tre fattori o bisogni:
bisogno di appartenenza a un gruppo sociale spiegabile in termini
evolutivi, bisogno di semplificare il mondo a causa delle caratteristiche
e limiti del sistema cognitivo, fattori sociali e bisogno di identità
connessi al concetto di rappresentazioni collettive.