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cognitiva (Izard, 1991). Le emozioni primarie sono descritte come processi neurofisiologici unitari
e precodificati, geneticamente predeterminati, che non possono essere scomposti e che non possono
essere modificati una volta attivati. Sono totalità ben definite e categorie chiuse, non ulteriormente
analizzabili, fra loro separate (Ekman,1984). Le emozioni di base individuate e riconosciute come
universali sono la rabbia, la tristezza, la paura, la gioia, la sorpresa ed il disgusto (Ekman, 1984),
anche se tra gli studiosi il dibattito è ancora aperto.
Diversamente dalle emozioni primarie, l’espressione ed il riconoscimento delle emozioni
secondarie o complesse non sono universali. Queste ultime sarebbero emozioni “derivate” dalle
emozioni di base influenzate dalla cultura di appartenenza dell’individuo e dall’apprendimento.
Emozioni secondarie sono ad esempio la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio, l’invidia (Izard,
1991). Secondo Plutchik (1980), le emozioni secondarie o complesse sarebbero una combinazione
di emozioni: primarie: così ad esempio la delusione sarebbe data dalla mescolanza di sorpresa e
tristezza.
La teoria psicoevoluzionistica comporta l’accettazione della tesi innatista delle espressioni
facciali emozionali (Anolli, 2002). Ogni emozione fondamentale presenta una configurazione
comunicativa, proveniente da espressioni del volto, essenzialmente universale, vale a dire comune a
tutti gli esseri umani, che solo in parte è determinata dalle differenze culturali (Ekman, 1992). Il
volto umano costituisce la parte del corpo più importante sul piano espressivo e comunicativo, in
quanto rappresenta il canale privilegiato per la manifestazione delle emozioni, fornendo elementi
fondamentali per la specificità dell’emozione. L’espressione del volto è una macrocategoria che
comprende i mutamenti della posizione degli occhi, della bocca e delle sopracciglia; dei muscoli
facciali e di altre modificazioni comportamentali. Grazie ai dati raccolti attraverso un particolare
sistema di codifica, il Facial Action Coding System (FACS), Ekman e Friesen (1977) individuarono
40 diverse unità d’azione facciale capaci di dar luogo a modifiche ben identificabili del volto e che,
da sole o in associazione, sono in grado di coprire tutte le possibili espressioni del volto.
Combinando i dati raccolti attraverso il FACS con i resoconti soggettivi delle emozioni realmente
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provate dalle persone e con l’attribuzione di emozioni da parte di osservatori, si giunse a
caratterizzare empiricamente le espressioni facciali delle sei emozioni ritenute fondamentali: rabbia,
paura, disgusto, gioia, tristezza e stupore o sorpresa (Figura 1).
Figura 1: Espressioni facciali delle sei emozioni di base individuate da Ekman e Friesen (1977).
L’universalità del riconoscimento dell’espressioni facciali delle emozioni di base incoraggiò
quel filone di studi che guardavano alle emozioni come un fenomeno psicobiologico, influenzato
dall’eredità evoluzionistica (Ekman, 1977, 1992), piuttosto che dall’apprendimento e
dall’educazione. Infatti, la presenza di un universale riconoscimento delle espressioni facciali
risultava incompatibile con l’ipotesi secondo cui ciò che differenziava un’emozione da un’altra era
la sola valutazione cognitiva della situazione, basata sulle aspettative rispetto a ciò che si doveva
sentire. Tale valutazione veniva determinata a sua volta dal setting sociale in cui l’individuo era
inserito (Schacter e Singer, 1962).
Nella prospettiva funzionalistica, viene sottolineata la natura dimensionale delle emozioni,
ossia la loro variabilità secondo diversi gradi di intensità lungo un continuum. Il carattere di polarità
delle emozioni e la loro natura dimensionale era già stata sostenuta da Wundt (1896) secondo il
quale la loro variabilità era da collocare lungo i tre assi della “gradevolezza- sgradevolezza”,
“eccitazione- calma”, “tensione- rilassamento”. Nella prospettiva funzionalistica più recente, le
emozioni vengono interpretate come una sorta di script socialmente condiviso e biologicamente
predeterminato (Anolli e Ciceri, 1992). Le emozioni sono considerate come rappresentazione e
interpretazione di situazioni strettamente dipendenti da ciascun individuo in base alle proprie
esperienze e alla propria storia. Pertanto esse risulterebbero essere psicologicamente determinate
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oltre che in larga parte socialmente condivise.
Campos (1983) pone in evidenza il ruolo delle emozioni nella regolazione tra organismo ed
ambiente, affermando che tutte le emozioni fondamentali sono presenti sin dalla nascita e
relativamente autonome dalle conquiste cognitive, a cui il loro sviluppo non è subordinato. Le
caratteristiche espressive delle emozioni quali ad esempio i movimenti facciali, i correlati
fisiologici, le azioni ecc., sono intrinseche ma non invarianti e la loro associazione cambia in base
all’interazione tra individuo e ambiente.
Le emozioni sono quindi intese come sistemi di azione che spingono ad esprimere e
soddisfare bisogni che hanno un significato adattivo (Campos,1983). Esse hanno il compito di
regolare i processi psicologici interni e i comportamenti sociali e interpersonali , nel senso che
orientano nella selezione delle informazioni, predisponendo l’organismo all’azione, e permettono di
comprendere il significato da attribuire a comportamenti e ad azioni sociali. Le emozioni hanno,
inoltre, un carattere distintivo rispetto elle altre forme istintuali in quanto dotate di specifiche
configurazioni mimiche e vocali che ne consentono il riconoscimento, ed utilizzano un processo
comunicativo non codificato culturalmente, nel senso che vengono prodotte e possono essere
comprese indipendentemente dall’apprendimento.
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1.2 L’emozione di disgusto
L’etimo della parola disgusto deriva dall’unione del termine “gusto” e del prefisso
dispregiativo “dis”. Disgusto significa quindi “cattivo gusto”(Olatunji e McKay, 2006). Si tratta di
un’emozione di base con distinte componenti comportamentali (tentativi di fuga o evitamento;
Rachman, 2004), cognitive (sensazione di sporcizia e contaminazione) e fisiologiche (nausea,
vomito e svenimento (Rachman, 2004), la cui funzione è quella di prevenire contaminazioni e
malattie (Rozin et al., 1993; Woody e Teachman, 2000).
Darwin nel suo libro “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”(1872) definì
il disgusto come “qualcosa di nauseante in relazione primariamente al senso del gusto” ,sia
provato sul momento che ricordato.
L’emozione di disgusto si origina dunque dal senso del gusto e l’evoluzione ha elaborato
tale risposta emozionale come difesa orale dell’uomo al fine di impedire l’assunzione di sostanze
potenzialmente nocive attraverso la bocca (Darwin, 1872). Anche Miller (1997) definisce il
disgusto come una “emozione cibo-relata” che coinvolge olfatto e tatto, sensi associati al gusto.
Rozin e Fallon (1987) definiscono il disgusto come una “repulsione alla prospettiva di
incorporazione orale di un oggetto sgradevole. Gli oggetti sgradevoli sono contaminanti; cioè se
essi entrano, anche solo brevemente, in contatto con un alimento gradevole, tendono a rendere tale
alimento sgradito”.
Tomkins (1963), invece, identifica il disgusto come una reazione verso un’intimità non
voluta, “reclutata per difendere la propria persona da incorporazioni fisiche o da qualsiasi
aumento di intimità con oggetti repellenti”.
Da questa serie di definizioni si può comprendere come il disgusto sia una risposta di difesa
dall’ingestione di cibi contaminanti, dal trasferimento del cibo contaminato al sé psicologico tanto
quanto al sé fisico (“tu sei ciò che mangi”). L’incorporazione fisica di cibi contaminati può infatti
causare non solo malessere fisico ma anche psicologico (Olatunji e McKay, 2007).
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1.2.1 Caratteristiche distintive del disgusto
Il disgusto non è solo una forma di rifiuto del cibo, bensì una sua tipologia più elaborata.
Rozin e Fallon (1987) hanno identificato e confrontato differenti tipi di rifiuto del cibo, fondati su
motivazioni distinte e con caratteristiche diverse.
La ripugnanza è primariamente motivata da fattori sensoriali, e si manifesta nei confronti
del cibo ritenuto culturalmente commestibile, ma che ha proprietà sensoriali negative, cioè un
cattivo odore, gusto o aspetto. Le differenze individuali nelle preferenze per il cibo si fondano
proprio sull’avversione nei confronti di alimenti il cui sapore, aspetto, odore o consistenza, non è
gradito.
Il pericolo è un tipo di rifiuto del cibo motivato dall’anticipazione delle conseguenze
dannose per il proprio corpo dall’ingestione di alimenti tossici. I cibi poi possono essere
universalmente pericolosi (ad es., funghi velenosi) o rappresentare una minaccia solo per alcuni
individui (v. allergie alimentari).
La non appropriatezza di un cibo si fonda su fattori “ideativi”. Essa si manifesta nei
confronti di oggetti non classificati come cibo all’interno di una precisa cultura. Essi hanno in
genere uno scarso valore nutrizionale e sono spesso materiali inorganici, piante o prodotti vegetali
(carta, vestiti, sabbia, erba). Il rifiuto di tali oggetti non si fonda sul credere ad un loro cattivo
sapore o pericolosità, bensì sulla loro non adeguatezza alla classe degli alimenti.
Il disgusto, invece, è un tipo di rifiuto del cibo motivato dalla conoscenza della natura,
origine e storia del cibo. Diversamente dagli oggetti inappropriati, quelli disgustosi hanno proprietà
sgradevoli che fanno presupporre anche un loro cattivo sapore. Così gli alimenti disgustosi
acquistano un valore negativo in due differenti domini: sensoriale ed ideativo. Gli oggetti disgustosi
poi, diversamente da tutti gli altri, possiedono una proprietà estremamente saliente e peculiare alla
definizione della loro natura: sono oggetti contaminanti, capaci di rendere sgradevoli i cibi
accettabili, attraverso contatto diretto o indiretto.
La contaminazione è una proprietà posseduta esclusivamente dagli oggetti disgustosi, frutto
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delle “leggi del pensiero magico” (Frazer, 1890; Mauss, 1902). La prima legge, quella del contagio,
prevede che “le cose che sono state in contatto una volta continuino sempre ad agire l’una
sull’altra”(Frazer, 1890). Il seppur breve contatto causa un permanente trasferimento di proprietà
dall’uno all’altro oggetto, per azioni di entità invisibili, essenze naturali o spirituali, che si spostano
o si depositano su di essi. La seconda legge del pensiero magico, quella della similarità, invece
sostiene che “l’aspetto eguagli gli oggetti” (Mauss, 1902), in modo tale che se due oggetti si
assomigliano superficialmente, avranno in comune anche tutti gli altri attributi. Contagio e
similarità sono dunque le leggi alla base dell’azione a distanza esercitata dagli oggetti disgustosi su
quelli neutri o potenzialmente gradevoli.
Lo scopo del disgusto va quindi oltre il fine di evitare l’ingestione di alimenti pericolosi
perché tossici o difendere l’uomo da possibili malattie trasmesse da batteri e microbi contenuti nei
cibi. E’ piuttosto una difesa orale dell’uomo da qualsiasi forma di contaminazione, spesso di natura
irrazionale. La motivazione razionale di pericolo, frequentemente fornita per giustificare il rifiuto di
un oggetto, in realtà guidato dal disgusto, maschera un agire meno razionale fondato sul timore
della contaminazione. Ciò è comprovato dai dati di alcune ricerche (v. Rozin et al., 1986), in cui
l’utilizzo di oggetti disgustosi ma sterilizzati (feci, scarafaggi, ecc.) a contatto con cibi gradevoli,
non riduce il numero di rifiuti alla consegna di ingerire o di entrare in contatto con tali alimenti. In
questo caso, la pericolosità dell’oggetto, in termini di possibilità di trasmettere batteri e microbi, è
nulla, ma ciò non riduce l’atteggiamento di rifiuto nei loro confronti.
1.2.2 Evoluzione e domini del disgusto
Diversi studiosi hanno identificato l’emozione di disgusto come difesa da pericoli di varia
natura.
Rozin e collaboratori (1987) e Haidt e collaboratori (1994) illustrarono una precisa tipologia
di disgusto, il core disgust, come difesa orale in relazione a tre differenti domini di stimoli: cibo,
animali e prodotti corporei di rifiuto (feci, urina, saliva, vomito, ecc.). Il core disgust rende l’uomo
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più cauto su ciò che mette in bocca, portandolo a rifiutare i cibi sulla base delle loro qualità
sensoriali (o sgradevolezza) e della loro storia, natura ed origine (chi li ha toccati). Il core disgust
assume il ruolo di guardiano della bocca come frutto dell’evoluzione della risposta di ripugnanza
verso i cattivi sapori, presente già nel regno animale. Tale forma di disgusto si fonda sulla paura di
contaminazione e gli stimoli che per antonomasia hanno alte proprietà contaminanti sono gli
animali ed i prodotti corporei di rifiuto. Il core disgust rappresenta quindi un vantaggio
evoluzionistico per l’essere umano nel processo di selezione naturale, riducendo il rischio di entrare
in contatto con microbi, germi e parassiti. Il disgusto verso tali stimoli si è sviluppato così come
risposta adattiva, durante il processo evoluzionistico umano, quando l’uomo è diventato onnivoro
per arricchire la sua dieta ed è stato minacciato dalla contaminazione microbiologica. Con il tempo
il “dilemma dell’onnivoro”(Rozin, 1976), tra il desiderio di esplorare nuovi potenziali cibi ed il
rischio di tossicità, si è modificato portando il disgusto ad ostacolare l’ingestione di oggetti sterili,
per i quali non esiste alcun pericolo di trasmissione di batteri o malattie, ma ripugnanti.
Seligman (1971) chiama predisposizione associativa la prontezza di certi oggetti a far più
facilmente trasferire su di sé il carattere disgustoso di altri. Questo ad esempio vale per il cibo e gli
animali che, rispetto ai vegetali o ai prodotti inorganici, risultano più facilmente disgustosi. I
vegetali al massimo hanno un cattivo sapore o sono pericolosi perché tossici, ma non disgustosi,
poiché incapaci di contaminare attraverso contatto diretto o indiretto.
L’uomo non consuma cibi od utilizza oggetti che richiamano oggetti disgustosi per paura
che le proprietà che li rendono disgustosi si trasferiscano a lui rendendolo disgustoso. Ciò è alla
base del reputare che “si è quello che si mangia”(Frazer, 1890) per cui le proprietà sgradevoli di un
alimento possono trasferirsi al suo consumatore.
Gli oggetti che acquistano il proprio carattere disgustoso attraverso le leggi dell’associazione
sono detti oggetti di disgusto secondario, contrariamente a quelli la cui natura li rende
primariamente disgustosi.