Capitolo Primo
I numerosi tentativi di istituzionalizzare la tutela dei diritti umani nell’Islam
1.1 La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nell'islam (1981): un
approccio confessionale
Il primo tentativo di codificazione di una Dichiarazione islamica sul tema dei
diritti umani è dovuto all'iniziativa di un organismo privato, il Consiglio Islamico
d'Europa, con sede a Londra, e fondato, con il significativo sostegno del governo
pakistano, da una serie di associazioni di musulmani immigrati in Europa.
Attraverso questa Dichiarazione, che come tale non aveva valore vincolante e che
non ha mai ricevuto l'adesione ufficiale da parte dei Paesi islamici, si intendeva
affermare con chiarezza quali fossero i diritti dei musulmani, che nessun governo
avrebbe potuto violare ed, altresì, mostrare che il Corano e le fonti della dottrina
islamica non sono antinomiche rispetto alla moderna concezione dei diritti
dell'uomo.
In realtà, in spregio alla dichiarata universalità, essa non fa che richiamare i
principi del diritto islamico. Ovvero, risulta “universale” solo nella misura in cui
essa si riferisce all'universalità dei musulmani, di cui enuclea i diritti e i doveri
fondamentali che derivano dalle prescrizioni religiose e risulta, per questa via,
finalizzata a garantire l'esercizio dei diritti e doveri del credente musulmano,
l'esclusivo e pieno soggetto di tali diritti, all'interno di uno Stato musulmano, in
conformità alla sharī'a.
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In aggiunta, tale Dichiarazione non può dichiararsi universale nemmeno nella
misura in cui voglia essere espressione di un consenso islamico universale.
Sebbene nel suo preambolo, pur senza indicarne i nomi, si descrive come
“elaborata da eminenti eruditi, giuristi musulmani, rappresentanti dei movimenti
islamici” (cit. in Ali Merad 1998: 130), non si riesce a sanare il vizio di fondo,
dovuto al fatto che l'organizzazione promotrice, il Consiglio Islamico d'Europa,
non è rappresentativo della totalità del mondo islamico.
La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nell'islam, composta da un
Preambolo e 23 articoli, fu presentata nelle sue versioni araba, francese ed inglese
nella sede dell'UNESCO a Parigi il 19 settembre 1981.
L'orientamento teologico-giuridico dato alla Dichiarazione è immediatamente
percepibile dall'analisi della versione in lingua araba, nella misura in cui ogni
articolo è accompagnato dalla citazione di uno specifico versetto coranico o con il
riferimento ad una sunna profetica, che costituiscono la giustificazione della
rispettiva norma. Tali citazioni non sono soltanto funzionali a stabilire la
congruità del Corano con i diritti dell'uomo, ma esprimono anche il preciso
significato con cui tali diritti debbano essere intesi. Questi riferimenti dottrinari
mancano nelle versioni in lingua francese ed inglese, destinate, evidentemente, ad
un pubblico occidentale; in questo caso è sufficiente un semplice rimando alle
sure o ai versetti del Corano, o alle raccolte di hadīt.
Ma la differenza fondamentale tra la versione araba e quella inglese e francese,
che ha spinto alcuni autori (cfr. Borrmans 1999) a parlare di una doppia
presentazione della Dichiarazione, si manifesta nelle disparità che emergono dalla
traduzione dall'originale arabo.
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A ben vedere, nel testo arabo, si fa riferimento alla sharī'a, la legge religiosa
islamica, mentre i testi in inglese e francese fanno riferimento alla legge dello
stato (law/loi). Così, ad esempio, l'art. 3 sul “Diritto all'uguaglianza” che nelle
versioni occidentali recita “Tutti gli uomini sono uguali secondo la legge”, ha un
significato ben diverso nella versione originale araba, laddove diventa “Tutti gli
uomini sono uguali secondo la Legge islamica”. In effetti, con l'uso del termine
sharī'a, legge religiosa, in luogo del termine qanun, legge civile, si esprime un
concetto di uguaglianza che si traduce nel riconoscere i diritti e i doveri prescritti
dalla legge religiosa per ogni categoria di persone, tra le quali non si deve operare
nessuna discriminazione. Così inteso, il principio di uguaglianza e non
discriminazione è legato all'appartenenza alla propria umma, per cui gli
appartenenti alla umma islamiyya, la comunità universale dei musulmani,
godranno di diritti diversi rispetto a quelli appartenenti alle altre confessioni
religiose rivelate.
In effetti, a ulteriore conferma di questa discrasia tra le traduzioni, ogni qualvolta
si incontra il termine popolo (people/peuple), nella versione araba vi corrisponde
il termine umma e non, come sarebbe stato corretto, il termine shaab (popolo).
Ulteriori elementi di disparità emergono dall'analisi, ad esempio, dell'art. 12 sul
“Diritto alla libertà di pensiero, di credo e di parola” che, nelle formulazioni
inglese e francese, è sostanzialmente conforme alle norme internazionali,
prescrivendo il diritto ad esprimere il proprio credo ed il proprio pensiero
liberamente, a patto di rimanere nei limiti prescritti dalla legge. Nella versione
araba, invece, tali limiti non sono, ancora una volta, quelli della legge civile
(quanun), bensì i limiti generali (hudud) che la Legge islamica ha predisposto in
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materia. Seguendo questa prospettiva, nell'etica islamica esistono dei limiti, non
solo alla libertà di espressione, ma anche alla libertà di pensiero e credo religioso,
derivanti dalle norme sciaraitiche.
Anche le disposizioni sul “Diritto alla giustizia” (art. 4) e sul “Diritto all'equo
processo” (art.5) che nelle versioni occidentali sono assolutamente in linea con le
disposizioni internazionali, scontano il perdurare di questa discrasia tra il
riferimento alla legge civile ed alla legge religiosa nelle differenti versioni.
Invero, assume rilevanza fondamentale, e soprattutto alla luce degli avvenimenti
di più cogente attualità richiamati all'inizio di questo lavoro, quanto disposto
dall'art.7 della Dichiarazione riferito alla tortura ed ai trattamenti degradanti. Il
“Diritto di essere protetto contro la tortura” pone un divieto assoluto di tortura sia
nei confronti del colpevole che, in misura maggiore, dell'imputato: “qualunque sia
il crimine compiuto o la pena predisposta dalla Legge islamica, il valore umano
(del colpevole) e la sua dignità di figlio di Adamo debbono rimanere salvi”.
In conclusione di questa breve analisi sulla prima Dichiarazione islamica,
possiamo senza dubbio affermare che si tratta di un tentativo di codificazione
degno di interesse, nella misura in cui esso è intervenuto per colmare un vuoto
avvertito dalla comunità musulmana e che, pur tuttavia, esso rappresenta soltanto
una tappa sul lungo percorso di ricerca che dovrebbe giungere ad una
riformulazione del messaggio islamico, con linguaggio e contenuti storicizzati ed
adeguati ai tempi.
In effetti, ciò che tale Dichiarazione maggiormente sconta è una sorta di
sovrapposizione dei campi applicativi, che si manifesta nell'inserimento in una
dichiarazione dei diritti dell'uomo di alcuni elementi in grado di limitare
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fortemente l'esercizio di questi stessi diritti. In particolare, la Dichiarazione
sembra fortemente sbilanciata verso gli imperativi di ordine pubblico e di
sicurezza relativi alla società e allo stato, piuttosto che verso la tutela della
persona umana e dei suoi diritti inalienabili che dovrebbero rappresentare
l'oggetto della Dichiarazione. Ovvero, facendo continuamente riferimento ai limiti
previsti dalla legge, la quale, soprattutto sotto i regimi autoritari, rappresenta
l'espressione degli interessi della classe dominante, si configura, a tutti gli effetti,
come espressione di una tendenza conservatrice.
1.2 La Dichiarazione dei diritti dell'uomo nell'islam (1990): un approccio
teologico-giuridico
Il secondo tentativo di una formulazione islamica dei diritti dell'uomo è datato
1990 ed ha per titolo “Dichiarazione dei diritti dell'uomo nell'islam”, presentata
dall'Organizzazione della Conferenza Islamica, nella sua XIX conferenza dei
Ministri degli Affari Esteri.
Se la Dichiarazione del 1981 utilizzava il linguaggio tipico degli intellettuali e si
configurava alla stregua di un vero e proprio manifesto, quest'ultima
Dichiarazione utilizza, invece, un linguaggio prettamente giuridico, tale da
renderla formalmente non dissimile dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del
1948.
Come la precedente, invero, anche quest'ultima Dichiarazione rappresenta una
pura enunciazione teorica, non prevedendo espressamente alcuno strumento di
ratifica ovvero di adesione formale da parte dei Paesi islamici. E pur tuttavia, essa
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può intendersi come maggiormente rappresentativa del punto di vista islamico
sulla questione dei diritti umani, nella misura in cui l'Organizzazione della
Conferenza Islamica che la ha promossa rappresenta la voce ufficiale dei governi
islamici.
Composta da un Preambolo e da 25 articoli, questa Carta è prettamente improntata
allo spirito e alla lettera del diritto islamico, sebbene non vi compaiano riferimenti
espliciti al Corano ed alla sunna profetica. Ovvero, diritti e doveri sono stabiliti in
base alla sharī'a ed a questa si rimanda per stabilirne il contenuto e
l'interpretazione. In effetti, l'art. 24 recita “Tutti i diritti enunciati in questo
documento sono subordinati alle disposizioni della sharī'a”, mentre secondo l'art.
25, “La sharī'a islamica è la sola fonte di riferimento per spiegare e chiarire ogni
articolo di questa Dichiarazione” .
Dal punto di vista dei contenuti, la Dichiarazione dell'OCI si pone sulla stessa
linea teologica conservatrice della precedente. Ad esempio, pur affermando il
principio di eguaglianza di tutti gli uomini “dal punto di vista della dignità umana
e dell'adempimento delle responsabilità fondamentali, senza alcuna
discriminazione di razza, colore, lingua, sesso, religione, appartenenza politica,
condizione sociale o altro” (art. 1), il soggetto dei diritti cui ci si riferisce nella
appare il musulmano credente, nella misura in cui, come recita lo stesso articolo
poco più avanti, “la vera fede garantisce un accrescimento della dignità sulla via
dell'umana perfezione”, in virtù del principio secondo cui “l'islam è la religione
naturale dell'uomo” (art. 10). In altre parole, tacendo dei diritti dei non
musulmani, si riafferma implicitamente la loro posizione giuridica di dimmi.
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Anche le norme sulla libertà di espressione e di coscienza sono radicalmente
limitative rispetto a quanto previsto nella Dichiarazione ONU del '48. In
particolare, l'art. 22 afferma che ogni individuo ha diritto di esprimere liberamente
la sua opinione, purché “in modo non contrario ai principi della legge islamica”.
Altrimenti detto, nonostante l'affermazione di principio sulla libertà d'opinione e
di espressione, l'esercizio concreto di questo diritto viene radicalmente compresso
dalle clausole fortemente limitative riguardanti la sua compatibilità con i precetti
religiosi islamici, accompagnati dal divieto generale di diffondere opinioni che
possano disgregare la società.
Inoltre, l'art. 22b richiama l'istituzione dell'hisba in cui trova espressione giuridica
a livello individuale il principio coranico del diritto/dovere collettivo di
promuovere il bene ed impedire il male. Tale richiamo costituisce una ulteriore
limitazione all'esercizio delle libertà individuali, nella misura in cui si viene a
creare un sistema di controllo reciproco del corretto modo islamico di pensare e di
vivere, che abilita ogni musulmano a fare ricorso ai mezzi offertigli dalla sharī'a
per impedire il compimento di atti contrari all'ortodossia islamica.
Il richiamo alla normativa islamica risulta ancora più esplicito laddove si fissano i
diversi diritti e doveri dei coniugi e si richiamano le disposizioni islamiche in
tema di diritto di famiglia. In effetti, l'art. 6 recita: “La donna è uguale all'uomo in
dignità; i suoi diritti sono equivalenti ai sui doveri. Essa gode dei diritti civili, è
responsabile della sua indipendenza economica e ha il diritto di conservare il
patronimico e i legami familiari. Il marito ha il compito mantenere la famiglia ed
è responsabile della sua protezione”.
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In altri casi, si richiamano norme di diritto islamico che appaiano in perfetta
continuità con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti. È il caso dell'art.
3 che richiama le norme di diritto islamico in caso di guerra, come la proibizione
di uccidere persone non belligeranti, in particolare vecchi, donne e bambini”, di
provvedere alle cure mediche per i feriti, “al cibo, ad un riparo e agli indumenti”
per i prigionieri”, oltre al divieto di “devastare installazioni ed edifici civili
appartenenti al nemico con il ricorso a bombardamenti, esplosivi o altri mezzi”. O
ancora, è il caso dell'art. 22b che proibisce qualsiasi attività che inciti “all'odio su
base etnica o religiosa, così come a qualunque forma di discriminazione razziale”.
Ma l'elemento di maggiore novità introdotto da questa Dichiarazione è costituito
da una netta presa di posizione politica contro il colonialismo e da un'altrettanta
netta affermazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione. In effetti, all'art.
11, si definisce il colonialismo, in ogni suo aspetto, come “la forma di
asservimento più dannosa” e sancisce che “i popoli oppressi dal colonialismo
hanno il pieno diritto alla libertà e all'autodeterminazione” e che pertanto ne
deriva un dovere per tutti gli stati e per tutti i popoli “ad appoggiare le lotte che
mirano a liquidare ogni forma di colonialismo e di occupazione” (art. 11b).
Questa proclamazione solenne trova, anche in questo caso, una sua giustificazione
nei precetti islamici e, precisamente, nel principio secondo il quale “l'uomo è nato
libero; nessuno ha il diritto di umiliarlo, opprimerlo, sfruttarlo. Non può esservi
altra sottomissione che quella a Dio, l'Onnipotente” (art. 11a).
In ogni caso, nel tirare le somme, non possiamo che concordare con chi pone
questa seconda Dichiarazione islamica sui diritti dell'uomo sulla stessa linea
conservatrice della prima. In effetti, anche in quest'ultima Carta, il linguaggio dei
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diritti umani viene integrato nel quadro preesistente della sharī'a, cosicché
quest'ultima non è mai interrogata criticamente per stimolarne un'evoluzione che
sia veramente conforme ai diritti umani sanciti nelle dichiarazioni internazionali
dell'ONU (cfr. Pacini 1998: 14).
1.3 La Carta araba dei diritti dell'uomo (1994): il primato della politica
Il progetto della Carta araba dei diritti dell'uomo è stato formulato dal Comitato
per i diritti dell'uomo della Lega degli Stati Arabi, organismo internazionale con
sede al Cairo che riunisce 22 Stati del mondo arabo. Questo documento
rappresenta una radicale inversione di tendenza rispetto alle precedenti
dichiarazioni, nella misura in cui sembra situarsi su di una linea pragmatica
riformista, espressione diretta non di un orientamento religioso, quanto piuttosto
di un'identità araba nazionalista.
In effetti, a differenza dei precedenti, nel documento non compare nessun
riferimento diretto all'islam, né alla legge religiosa islamica, se si eccettua il
Preambolo in cui si menziona Dio per aver onorato il mondo arabo facendone “la
culla delle religioni”, e si esprime la volontà di voler attuare i principi eterni di
fratellanza e di uguaglianza tra gli esseri umani, così come stabiliti dalla sharī'a e
dalle altre religioni celesti.
La Carta è dotata di una forte valenza politica, legata soprattutto alla questione
palestinese, che si evidenzia in maniera immediata già nel preambolo, laddove si
sancisce “il diritto delle nazioni all'autodeterminazione” unito al “rifiuto del
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