Il dato è significativo in quanto dimostra che nel 2005 il numero di immigrati
regolari in Italia ha quasi raggiunto il numero degli emigranti italiani nel mondo (
retaggio delle emigrazioni del XIX e XX secolo) che ammonta, stando ai calcoli del
“Rapporto Italiani nel Mondo”, a oltre 3 milioni. Dunque, possiamo dire con certezza
che l’Italia, da grande paese di emigrazione, si colloca oggi accanto ai grandi paesi
europei di immigrazione quali: Germania (7.287.980), Spagna (3.371.394), Francia
(3.263.186) e Gran Bretagna (2.857.000)
2
.
Per vedere come la presenza straniera in Italia sia aumentata
esponenzialmente nel corso di pochi anni -sostanzialmente in poco più di una
generazione il numero di immigrati in Italia ha raggiunto quello di nazioni che hanno
una tradizione migratoria centenaria – è opportuno fare un confronto con i dati
relativi alla presenza straniera negli anni che sono intercorsi dall’insorgere
dell’immigrazione fino ai giorni nostri.
Nel XX secolo i paesi industrializzati del Nord Europa erano già da oltre un
secolo meta di grandi migrazioni dall’area mediterranea, dall’Europa dell’Est e
dall’Asia; gli italiani stessi erano stati protagonisti di un esodo di massa verso tali
centri di immigrazione, un esodo che proseguì senza interruzione fino alla fine degli
anni sessanta. Cosa accade da quel momento in poi? Gli anni settanta sono gli anni in
cui l’emigrazione italiana verso l’estero si esaurisce quasi completamente mentre si
riduce sensibilmente l’emigrazione interna dal Mezzogiorno verso il settentrione. Nel
1975 il saldo migratorio è positivo
3
e testimonia una radicale inversione di tendenza
le cui ragioni vanno sicuramente cercate nell’incidenza dell’immigrazione di ritorno
ma anche nel dato non trascurabile di nuovi ingressi: quelli di immigrati stranieri
provenienti dal Terzo Mondo.
Alla base dei rimpatri e dei nuovi ingressi in Italia vi sono sostanzialmente
motivazioni comuni: lo shock petrolifero del 1973 che comportò un radicale
cambiamento delle economie che avevano accolto gli immigrati nel periodo della
ricostruzione
4
, lo sviluppo industriale – essenzialmente petrolcentrico - che era stato
il grande fattore d’attrazione e che aveva garantito ai lavoratori stranieri un notevole
2
Caritas/Migrantes, XVI Dossier Statistico, Al di là dell’alternanza, IDOS, Roma, 2006.
3
Pari a circa 30.000 unità. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, p.61.
4
AA:VV., Storia contemporanea, Manuale Donzelli, Milano, 1997.
4
grado di stabilità occupazionale insieme a un discreto livello di integrazione, si
arresta. La conseguenza immediata fu la riduzione della domanda di lavoro nel
settore secondario e nell’area dei lavori rientranti all’interno del sistema di garanzie
5
e “ L’occupazione a tempo indeterminato non rappresenta più la prospettiva per
coloro i quali entrano nel mercato del lavoro né nel settore industriale né nei diversi
rami del settore terziario in espansione”
6
.
La nuova realtà economica, da una parte incentivò il rimpatrio degli
immigrati, dall’altro richiese una revisione delle politiche dell’immigrazione che
scoraggiasse i nuovi arrivi. Non solo in quel periodo hanno inizio nei paesi di
tradizionale immigrazione politiche regolative degli ingressi, ma tali politiche
mutarono in senso restrittivo rendendo molto difficili i nuovi accessi. In Germania l’
Auslanderpolitik che - seppur scoraggiando la permanenza della forza lavoro
straniera (non facilitando i ricongiungimenti familiari e fornendo incentivi economici
per coloro che decidessero di lasciare il paese) - aveva comunque garantito
l’integrazione sociale degli immigrati definitivi, diviene Anwerbenstop, ossia,
politica di chiusura. Dall’altro lato, l’Italia, sebbene puntando sulla speculazione
edilizia e su un processo di industrializzazione sregolato e traballante, iniziava ad
offrire qualche opportunità sia ai suoi emigranti che sceglievano di tornare in patria
sia ai nuovi immigrati provenienti dal Sud del Mondo a cui era preclusa la possibilità
di recarsi altrove. L’Italia diviene così paese di immigrazione, seppure di ripiego,
proprio in un momento in cui, con le dovute differenze tra un paese e l’altro, tutta
l’Europa attivava politiche regolative dei flussi di persone in ingresso, facendo del
nostro paese una meta obbligata dalla mancanza di alternative. Per queste stesse
ragioni anche paesi del meridione europeo a economia di mercato come Spagna,
Grecia e Portogallo, dove tra l’altro erano intervenuti di recente processi di
democratizzazione, si vedono interessati da importanti processi di immigrazione.
Emergono dunque, a livello internazionale, differenze significative - tanto nel
contesto quanto nei modelli - tra le migrazioni europee della fase che è stata definita
“della ricostruzione post-bellica e dell’espansione strutturale” (collocabile tra il 1945
e il 1973) e le migrazioni della seconda fase, quella della “crisi strutturale e della
5
Per approfondimenti vedi T. Caponio – A. Colombo, Migrazioni globali, integrazioni locali, Il
Mulino, Bologna, 2005.
6
E. Pugliese, op. cit., p.81.
5
nuova divisione del lavoro”
7
, databile tra il 1973 e il 1982, che coinvolgono anche
l’Italia.
Innanzitutto, a fronte di una generale e diffusa riduzione dei fattori di pull e
dell’attivazione nei confronti dei flussi di “politiche di stop”, le migrazioni non
accennano a nessun arresto, anzi, la popolazione straniera continua a riversarsi sul
territorio europeo in maniera massiccia, anche se prevalentemente illegale, spinta
stavolta più dalla necessità di abbandonare il proprio paese che non dall’attrazione
dell’economia europea ormai satura nella sua componente occupazionale. Si
intensificarono e diversificarono i fattori push in tutti i paesi sottosviluppati e in via
di sviluppo, (compresi quelli geograficamente vicini all’Italia, come il Marocco e la
Tunisia, da cui arrivarono le prime comunità di immigrati). In questo momento
risulta pertanto “evidente una crescente sproporzione tra popolazione e risorse nei
paesi del Terzo Mondo, dove i tassi di crescita demografica sono molto alti, mentre
lo sviluppo produttivo è [...] molto modesto. La crisi dell’agricoltura di sussistenza
riduce la capacità di assorbimento della popolazione eccedente e l’offerta di lavoro
insoddisfatta cresce a dismisura e si traduce in pressione migratoria sui paesi
sviluppati”
8
.
Ma la pressione demografica e le crisi economiche nei Paesi del Sud del
mondo non furono i soli fattori di innesco dei nuovi flussi migratori , a questi vanno
aggiunti gli effetti della globalizzazione in senso ampio (globalizzazione della
comunicazione, maggiori scambi culturali ecc.) e, più specificatamente, della
internazionalizzazione del mercato del lavoro e dell’economia. Tale ristrutturazione
della produzione fu innescata per rispondere alla crisi che, già a partire dalla fine
degli anni sessanta, (e quindi ancora prima degli aumenti del costo del petrolio, 1971
– 1973), investì il sistema capitalistico mondiale.
La riorganizzazione economica sfociò nella cosiddetta “nuova divisione
internazionale del lavoro” secondo la quale una quota crescente di attività
manifatturiere e ad alta intensità di manodopera fu trasferita nelle periferie del
sistema capitalistico mondiale (Terzo Mondo ed Est europeo) dove il costo del
lavoro era decisamente più basso.
7
U. Melotti, Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in “Terzo
Mondo”, Milano, nn 37-38, 1979.
8
E. Pugliese, op. cit., p.82.
6
Lì dove la natura stessa di alcune attività non ne rendeva possibile la
dislocazione - come il turismo e l’edilizia, particolarmente importanti per l’economia
italiana, o le prestazioni di lavoro domestico - si rendeva allora utile importare
manodopera dai paesi ad economie deboli permettendo, non solo di mantenere basso
il costo del lavoro (diminuendo gli esborsi tanto per il salario diretto quanto per gli
oneri sociali e fiscali), ma anche di ridurre la rigidità del mercato occupazionale.
Tuttavia l’Italia, pur essendo inserita nelle dinamiche di tale processo,non è stata
particolarmente interessata dal tipo di immigrazione della “nuova divisione del
lavoro”. L’offerta di lavoro che proveniva dalla nostra nazione era essenzialmente
“offerta di lavoro povero” propria dell’economia di un paese di “semi–periferia”
9
interessato dal trasferimento delle industrie altrui sul proprio territorio prima ancora
che dall’importazione di manodopera a basso costo. Per queste ragioni qualche
studioso ha definito quella italiana un’immigrazione “anomala”
10
.
Invero, al di là di una consistente presenza femminile inserita nel lavoro
domestico e della componente nord-africana che viene occupata nel basso terziario,
nel decennio ‘73-‘83 in Italia giungono soprattutto esuli, rifugiati di guerra e
profughi. Le aree di provenienza erano estremamente variegate e non mostravano di
avere alcun tipo di legame storico, politico o economico che sia con il nostro paese.
In questo senso è importante ribadire che l’Italia fu interessata dai flussi migratori
soprattutto per via del fatto che le altre nazioni europee avevano più o meno
efficacemente chiuso le proprie frontiere. Aggiungiamo che, quando l’immigrazione
straniera sul territorio iniziò a divenire un fatto quantitativamente significativo
(1973-74), l’Italia attraversava un periodo di crisi economica in cui la domanda di
lavoro, che per alcuni settori come quello industriale era soddisfatta dall’offerta
interna, si riduceva drasticamente e aumentava per contro la disoccupazione, già in
precedenza più alta che nella maggior parte di paesi europei.
I settori del mercato italiano che negli anni settanta potevano offrire una
qualche possibilità d’occupazione erano il settore terziario, ma soltanto nelle attività
meno qualificate, il lavoro nei campi e il servizio domestico. La particolare
indesiderabilità di tali lavori, non a caso “rifiutati dagli italiani”, dovuta ai bassi
salari, agli orari estenuanti, al carattere stagionale o temporaneo, alle condizioni di
9
Delle Donne, Melotti, Peltilli, Immigrazione in Europa. Solidarietà e conflitto, Roma, 1993, p.41.
10
Ivi.
7
lavoro sgradite e disagevoli, induce a chiedersi quali fossero allora le reali ragioni
per cui un numero sempre maggiore di immigrati scegliesse di approdare, e spesso
restare, sul nostro territorio. Il fatto che la prima immigrazione italiana sia stata in
buona parte motivata dai fattori di espulsione nei paesi di esodo che non dai fattori di
attrazione nel paese ospitante, non è sufficiente a spiegare il ritmo e le dimensioni
che i flussi ebbero sin dal loro inizio. Possono invece essere maggiormente esaustive
tre altre spiegazioni che espongo brevemente:
ξ guardando alla conformazione territoriale e alla posizione geografica del
nostro paese appare facilmente intuibile come l’Italia, rispetto ad altri paesi
europei, potesse essere particolarmente attraente e vulnerabile alla pressione
migratoria esercitata dai paesi del Sud del Mondo. La sua vicinanza alle zone
di esodo (la Sicilia è più vicina all’Africa che non all’Europa) e i suoi 7.458
chilometri di costa, hanno trasformato l’Italia in “porta d’Europa”, esposta
non solo ai flussi che ne facevano la meta definitiva, ma anche alla parte
dell’immigrazione che attraversava il suo territorio per raggiungere le nazioni
a nord del Vecchio Continente;
ξ paese di emigrazione fino a quel momento, l’Italia si trovò a dover
fronteggiare il riorientamento dei flussi senza avere né la legislazione, né le
strutture amministrative, né la mentalità, né l’esperienza di un paese
d’immigrazione. Il risultato fu che l’Italia rappresentasse per gli
extracomunitari la nazione in cui era più facile entrare e restare, magari
illegalmente, anche se poi ci si doveva accontentare, per lo più, di
occupazioni irregolari e precarie. Strettamente connessa a questa situazione è
la terza motivazione:
ξ mentre altre nazioni europee, in particolare Germania, Francia e Gran
Bretagna, già a partire dalle migrazione degli anni cinquanta, avevano saputo,
in un certo qual modo attraverso specifiche politiche, “selezionare” la propria
immigrazione in base alle regioni di provenienza e ai legami storici con
queste aree - quindi la Francia accolse l’immigrazione dalle sue ex colonie
del Nord Africa (Algeria, Marocco, Tunisia), la Germania optò per
l’immigrazione di origine latina e cattolica (Italia, Est Europeo), la Gran
Bretagna accolse soprattutto gli immigrati dei paesi del Commonwealth
8
(India, Pakistan e Africa orientale) – l’Italia, non avendo avuto un’importante
trascorso coloniale che orientasse le sue scelte e soprattutto, non avendo gli
strumenti politici e giuridici per controllare i flussi in arrivo, si trovò ad
accogliere un tipo di immigrazione fortemente variegata e proveniente da
aree geografiche molto distanti territorialmente ma anche e soprattutto
culturalmente. Ciò comportò non pochi problemi per la politica e la società
italiane alle prese con un fenomeno dirompente, non tanto per la sua reale
consistenza numerica, quanto per la sua disomogeneità e per l’assenza di
provvedimenti organici che regolassero l’accoglienza e l’integrazione dei
nuovi arrivati
11
.
Le statistiche sui cittadini stranieri soggiornanti in Italia sono disponibili solo
a partire dal 1970; agli inizi degli anni “70 gli stranieri in Italia erano 121.000, questi
dati del censimento del 1971 sono decisamente discordanti con quelli pubblicati dalla
Caritas di Roma in collaborazione con la fondazione Migrantes relativi all’inizio
dello stesso anno. Secondo tali stime infatti gli stranieri in Italia erano 144.000. A
questo proposito è debito fare alcune considerazioni: le fonti sono l’humus di ogni
ricerca storica. La necessità di disporre di valutazioni sufficientemente attendibili
della presenza straniera, in particolare extracomunitaria, è assolutamente
incontestabile nel quadro di una conoscenza approfondita del fenomeno, tuttavia,
pervenire ad una esatta e univoca valutazione quantitativa non è affatto cosa
semplice. Oltre alle difficoltà derivanti dalla mobilità, e quindi dalla
“sfuggevolezza”, delle migrazioni, che difficilmente si prestano a rilevazioni esatte,
vi sono anche le difficoltà connesse sia alla eterogeneità delle fonti che al fatto che
queste pervengano a dei dati che, pur considerando determinati fenomeni, muovono
da indagini impostate per fini diversi. Tali considerazioni diventano particolarmente
significative nel campo dell’immigrazione straniera irregolare ed indipendentemente
da quale sia la cifra più attendibile, si tratta comunque di un numero di immigrati
sicuramente esiguo - soprattutto se confrontato con quello delle presenze straniere
nelle altre nazioni europee – ma comunque sufficiente perché si possano rintracciare
i tratti distintivi di un tipo di immigrazione che diremo “specificatamente italiana”.
11
Cfr. G. Bolaffi, I confini del patto. Il governo dell’immigrazione in Italia, Giulio Einaudi editore,
Torino, 2001.
9
I primi ad arrivare sulle sponde siciliane furono i lavoratori tunisini in parte
impegnati nel settore primario, nelle aree di agricoltura intensiva, soprattutto nel
trapanese, in parte nel settore della pesca presso le aree costiere della Sicilia,
soprattutto nel porto peschereccio di Mazara del Vallo
12
. In realtà la presenza di
questa componente nord-africana era già significativa molto prima dell’arrivo dei
primi flussi di immigrati, la ragione di questa importante presenza va rintracciata
nella storica dominazione araba sull’isola, basta dire che riferendosi ai primi
insediamenti di maghrebini sulla regione qualche studioso ha usato l’evocativa
espressione di “il ritorno infelice”
13
. Altra componente “pioniera” della presenza
immigrata in Italia fu quella proveniente dal Marocco. I marocchini erano per lo più
dediti al commercio ambulante e dalla Sicilia presto iniziarono a spostarsi a nord
verso le altre regioni peninsulari.
Ma l’immigrazione italiana si caratterizzò subito per la sua massiccia
presenza femminile. Dai paesi cattolici dell’America Latina, dell’Asia e delle ex
colonie italiane del Corno d’Africa, arrivarono flussi di donne che trovarono impiego
quasi esclusivamente nel lavoro domestico di pulizia e di assistenza a infanti o
anziani. Queste prime presenze extracomunitarie non destarono grande interesse, sia
la stampa, sia gli studiosi di scienze sociali, che l’establishment politico erano ancora
concentrati esclusivamente sull’immigrazione di ritorno che restava comunque il
fenomeno più visibile e significativo. È solo con la pubblicazione dei dati del XII
Censimento generale della popolazione del 1981 (Istat 1987) che si prende
pienamente coscienza che l’Italia è un paese di immigrazione. Secondo i dati del
censimento, infatti, “la popolazione residente totale nel nostro paese in quell’anno
risultò pari a 56.250.000 unità: una cifra non solo superiore a quella del censimento
precedente ma – quel che più conta - superiore alla cifra che si sarebbe avuta in
assenza di movimenti migratori. Il cosiddetto “saldo sociale netto”, cioè la differenza
effettiva tra chi è partito e chi è tornato, o arrivato come immigrato, in Italia era di
270.000 unità a vantaggio di questi ultimi. [...]”
14
.
12
Cfr. G. Lorenti, Senza confine. Sicilia, terra di approdi e di speranze, Città Aperta, Troina (En),
2006.
13
Ivi.
14
E. Pugliese, op. it., pp.72-73.
10