CAPITOLO PRIMO: ORIGINE FILOSOFICA, PERCORSO STORICO
E PRETESA UNIVERSALITÀ DEI DIRITTI UMANI
1.1 Definire i diritti umani
Non esiste una definizione unitaria ed esaustiva dei diritti umani, anche se è
consentito affermare, sinteticamente, che si sostanziano in quell’insieme di
diritti essenziali collegati alla natura della persona umana, essendo il termine
persona riferibile sia all’individuo singolo e concreto, sia all’umanità in sé,
recepita come sintesi delle globali, profonde vocazioni e istanze dell’essere
umano.
La nozione di diritti umani (quest’ultimo aggettivo peraltro preferibile alla
dicitura “diritti dell’uomo” per puntualizzare che non si discrimina la
posizione della donna) è inoltre strettamente collegata a quella di libertà
fondamentali, giacché la libertà sottende l’esistenza di un diritto così come il
diritto si manifesta solo se si riconosce la libertà.
1
Una definizione dei diritti fondamentali può aversi specificando la differenza
tra essi e i diritti patrimoniali:
2
nella tradizione giuridica sono entrambi
compresi nel genere dei diritti soggettivi, ma questo è l’unico punto in
comune, per il resto i primi sono stabiliti da ogni costituzione nonché dalle
diverse convenzioni sui diritti umani e il loro carattere specifico è l’essere
attribuiti a tutti, i secondi sono diritti singolari attribuiti ad excludendi alios.
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Corollario di tale distinzione, nonché altro tratto caratteristico dei diritti
fondamentali, è dunque la loro indisponibilità: essi non possono costituire
oggetto di scambio, sono imprescrittibili, non possono subire limitazioni nel
contenuto, non appartengono alla sfera di ciò che è decidibile né da una
maggioranza e neppure da una unanimità.
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G.P. Orsello, Diritti umani e libertà fondamentali, ed. Giuffrè, Milano, 2005, p. 3 e 10
2
T. Greco (a cura di), Violazione e tutela dei diritti umani, ed. Plus, Università di Pisa, 2001, p. 14 ss.
3
La riduzione sotto la stessa categoria ha portato ad equivoci soprattutto terminologici: l’espressione
“proprietà privata”, ad esempio, si usa indistintamente sia per indicare il diritto in generale a divenire
proprietario esclusivo di beni, quindi diritto fondamentale spettante a tutti, sia per indicare il dominio
su una precisa res determinata e scambiabile, quindi stavolta inteso come diritto patrimoniale: con
un’unica espressione vengono definiti due concetti ben diversi.
2
Definizione e fondamento dei diritti umani sono sempre stati al centro
dell’attenzione di filosofi, giuristi e pensatori fin dall’epoca classica greca e
romana, anche se la loro trattazione inizia a delinearsi in modo netto nei secoli
XVI- XVIII e può ricondursi sostanzialmente a due correnti di pensiero: il
Giusnaturalismo e il Positivismo.
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1.2 I diritti umani tra giusnaturalismo e positivismo
La concezione positivistica si sviluppa in Francia nella seconda metà del XIX
secolo e trae la sua origine dalla locuzione “diritto positivo”, contrapposta a
quella di “diritto naturale” che invece è propria del giusnaturalismo, dottrina
sviluppatasi nell’Europa centrale tra il XVI e il XVIII secolo.
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La tradizione
del pensiero giuridico occidentale è sempre stata permeata da questi due filoni,
che sinteticamente trovano spiegazione nella differenza tra ciò che “è” per
natura e ciò che “è posto” invece per convenzione dagli uomini.
Secondo i giusnaturalisti il diritto naturale avrebbe dappertutto la stessa
efficacia, non ha confini, è un insieme di norme conoscibili dall'uomo perché a
lui riferibili ontologicamente; il diritto positivo avrebbe invece efficacia
limitata nelle singole comunità in cui è posto.
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La valutazione di una condotta nel diritto naturale non dipende da nessun
soggetto o autorità, ma esiste indipendentemente da questi, anticipando così la
percezione dei diritti di tendenza universalistica; nel diritto positivo la stessa
valutazione è invece successiva alla codificazione delle norme: prima di esse
le azioni non hanno valore giuridico.
Per il pensiero giusnaturalistico il diritto naturale sarebbe superiore e
antecedente a qualsiasi diritto posto dall’uomo, non si può ignorare la sua
4
N. Bobbio, Il Positivismo giuridico, ed. Giappichelli, Torino, 1996, p. 13
5
Si parla di un “giusnaturalismo antico”, fondato sul pensiero del filosofo Aristotele, per il quale
naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che a uno
sembra buono oppure no; nel XIII secolo si parla del “giusnaturalismo scolastico” il cui esponente è
Tommaso d’Aquino, per cui il diritto naturale è un insieme di principi etici generalissimi; il
giusnaturalismo cui ci si sta riferendo è quello cosiddetto moderno, che si sviluppa a partire da
Thomas Hobbes, con cui ha inizio la dottrina laica, del diritto naturale, concepito come chiaro ed
evidente di per sé e valido anche in guerra e perfino se Dio non esistesse. Da
http://www.lastoria.org/modules.php
6
N. Bobbio, Il Positivismo giuridico, cit., p. 3 ss.
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esistenza in quanto è universalmente valido, fondamento di ogni diritto
positivo, presupposto delle norme proprie di qualsiasi sistema di coesistenza
umana storicamente dato. C’è un diritto civile, ma gli uomini restano
comunque titolari di quei diritti naturali anteriori e superiori a qualsiasi
espressione giuridica, come il diritto alla vita e alla proprietà, diritti
inalienabili e perciò non modificabili dalle leggi.
Per i positivisti solo il diritto codificato è invece da ricondursi alla sfera del
diritto in senso proprio: a questa categoria il diritto naturale non sarebbe
neanche ascrivibile.
Quest’ultima concezione si è poi diffusa, assistendo ad un parziale declino
della dottrina giusnaturalistica, dovuto anche al fatto che nonostante tali diritti
siano stati dai giusnaturalisti ritenuti connaturati all’uomo, il loro
riconoscimento non è stato automatico, unanime ed immediato. L’origine di
tale fenomeno è legata alla formazione dello Stato moderno, che accentra in sé
tutti i poteri, in primis quello di creare il diritto sia attraverso la legge sia
indirettamente attraverso il controllo delle norme consuetudinarie.
Dunque, secondo la dottrina positivista, un diritto naturale svincolato o
addirittura superiore non è concepibile, se non altro perché le leggi naturali
sono per l’uomo da rispettare solo nella sua coscienza: di fronte a se stesso e,
se credente, di fronte a Dio.
Da qui è possibile individuare alcuni caratteri tipici del positivismo: il
formalismo, ossia il fatto che la definizione del diritto è data solo in base
all’autorità che pone le norme, quindi in base ad un elemento formale
prescindendo dal suo contenuto; l’ imperativismo, visto che il diritto è un
comando posto dal sovrano in funzione della coazione; la coerenza, esigenza
che porta automaticamente ad elaborare una serie di criteri per eliminare le
antinomie tra norme non già di per sé coerenti; la completezza, visto che non
esiste comportamento che rimanga senza qualificazione in posizione
indeterminata.
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7
N. Bobbio, Il Positivismo giuridico, cit., p. 23 e 26
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Essendo un teoria monistica, riconosce un solo diritto da trasformare in una
vera e propria scienza e per questo caratterizzato dalla “avalutatività”,
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ossia
dall’assenza, durante una indagine scientifica, di giudizi di valore e di
valutazioni ideologiche.
Se compito della scienza applicata è conoscere la realtà così come si presenta
all’esperienza, anche il diritto non deve aderire ad ideali formulati in modo
teorico e puramente concettuale.
Si studia il diritto come un fatto reale, non come un valore: lo stacco col
giusnaturalismo sta in questo modo di accostarsi al fenomeno giuridico, in
altre parole non si ravvisa più una concezione teleologica della natura, non più
un diritto ideale.
Se per i giusnaturalisti conta il giudizio di valore di una norma giuridica,
questo è piuttosto un giudizio intimo e personale, e perciò stesso mancante di
oggettività; per il positivista conta la validità di una norma, che è appunto
valida nel momento in cui fa parte di un ordinamento reale e non ideale,
concreto, effettivamente esistente in una data società.
1.3 Il rapporto naturalità e storicità nell’evoluzione della retorica sui
diritti umani
Il rapporto tra naturalità e storicità purtroppo, e paradossalmente, non si è
sviluppato in modo direttamente proporzionale e l’universalità’ (peraltro ancor
oggi non piena) e’ stata conquistata molto gradualmente.
La sua affermazione, o meglio il tentativo della sua affermazione, ha coinciso
con le più vaste e devastatrici guerre della storia, dimostrando al contrario che
i diritti naturali non vengono necessariamente intesi in senso univoco. La loro
portata varia infatti da Paese a Paese, le loro caratteristiche sono
geograficamente delimitate: ci sono da sempre condizioni economiche e
sociali troppo diverse per permetterne una percezione uniforme a livello
planetario.
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N. Bobbio, Il Positivismo giuridico, cit., p. 133 ss.
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Ogni volta che si è agito in nome del diritto alla vita, alla libertà, al benessere,
i fatti li hanno sempre contraddetti.
Osservando la situazione in Occidente, si e’ dovuti passare per eventi anche
drammatici, arrivando a toccare il fondo con la sperimentazione del
totalitarismo, in cui i diritti umani sono stati praticamente azzerati.
Alla luce di ciò, può benissimo rilevarsi una costante nella storia dei diritti
umani: ogni diritto viene sempre avvertito come bisogno nel momento in cui
e’ represso dall’ordinamento e dall’autorità, in seguito reclamato e preteso, e
poi codificato.
Affermazione e negazione vanno dunque di pari passo, l’una e l’altra collegate
da un rapporto di causa-effetto.
Da qui la consapevolezza che i diritti umani sono fruibili solo quando vengono
effettivamente a maturarsi le condizioni materiali, economiche e culturali
indispensabili per consentirne sufficienti redistribuzione e godimento.
I paesi in via di sviluppo non hanno che questo problema: tanti programmi
ideali, poco sviluppo a livello pratico dei diritti sociali, poche garanzie
giuridiche effettive e tangibili, tante teoriche promesse ed enunciazioni di
prospettiva ancora da mantenere.
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Il primo documento ad occuparsi sistematicamente dei diritti della persona è la
Magna Charta Libertatum, emanata nel 1215: essa e’ un unicum rispetto alle
altre esperienze storiche, è un’eccezione che conferma la regola, e ciò appare
subito evidente solo considerando la tradizione politica e giuridica secolare
della Gran Bretagna, paese caratterizzato da sempre dalla presenza di un
parlamento, da un sistema di check and balance di poteri che non ha mai
consentito che se ne instaurasse uno assoluto, e appunto da questa Carta delle
libertà, che rappresenta il primo documento fondamentale per la concessione
dei diritti dei cittadini, tra cui il divieto per il Sovrano di imporre nuove tasse
senza il previo consenso del Parlamento, la garanzia per gli uomini di non
essere arrestati, dichiarati fuorilegge, sottoposti a confisca dei beni senza un
regolare giudizio del tribunale.
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C. Cardia, Genesi dei diritti umani, ed. Giappichelli, Torino, 2003, pag. 8-10
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Inoltre la Carta sancisce che il re si impegni a non intromettersi nelle elezioni
delle cariche religiose e a non impadronirsi dei beni ecclesiastici. I rapporti col
sovrano perciò non si regolano più con atti di forza ma con patti, giurati e
sottoscritti, che sottopongono i contraenti a reciproci obblighi.
Se nel 1200 la Gran Bretagna vanta già questa consapevolezza in fatto di
diritti e garanzie, il resto delle potenze versa in una situazione differente :
poche leggi e per giunta totale mancanza di giudici e Parlamento; rapporti
permeati dal principio di reciprocità, un “do ut des” così da stipulare accordi
solo se in vista di vicendevoli vantaggi.
Questa situazione è stata favorita da un positivismo estremo, che porta
all’assolutismo di Stato: positivismo e assolutismo dipendono e derivano l’uno
dall’altro.
Si sviluppa dunque intorno al XV secolo in Europa un sistema politico ed
istituzionale di rottura con la sovranità piramidale e frazionata propria del
sistema medievale, dove la cura della proprietà agraria della nobiltà era
affidata ai contadini ridotti in schiavitù.
10
Tale aristocrazia feudale è la classe politicamente ed economicamente
dominante, che rimane al potere anche in seguito ai mutamenti che il
passaggio allo Stato assoluto ha determinato. La classe sociale che emerge
implica sì un nuovo modo di gestire l’economia, senza schiavitù e basata sullo
sviluppo degli scambi e della produzione di mercato, ma pur sempre
funzionale a mantenere un predominio e uno sfruttamento nella pratica
feudali.
Si assiste ad una riscoperta della tradizione giuridica romana, che
inevitabilmente avrà risvolti anche a livello istituzionale.
Il processo di affermazione del diritto romano investe tutta l’Europa
occidentale e si rivela strumentale addirittura per entrambe le classi sociali in
cui fondamentalmente è divisa la società; infatti da un punto di vista
economico recuperare il diritto classico significa affermare un suo grande
pilastro: la proprietà privata incondizionata, scomparsa nel feudalesimo e ora
10
P. Anderson, Lo Stato Assoluto,ed. Mondadori, Milano, 1980, p. 17 ss.
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fenomeno favorevole allo sviluppo del capitale libero nelle città e nelle
campagne
11
.
Ma nell’antica Roma tutto questo ha avuto un contrappeso decisamente forte
nella sovranità imperiale, formalmente assoluta. Ed è proprio ai principi teorici
di questo “imperium” che le nuove monarchie si rifanno, finendone
profondamente influenzate. L’autorità del potere imperiale romano diventa il
massimo esempio da seguire, sintetizzando la concentrazione del potere di
classe dell’aristocrazia in un apparato statale accentrato, reazione evidente e
ferma della nobiltà allo sviluppo economico.
Che “la volontà di chi governa abbia forza di legge” diviene brocardo di
queste monarchie e con esso l’idea-corollario tale per cui il sovrano è legibus
solutus ossia sciolto, libero da qualsiasi restrizione giuridica.
Non c’è nessuna norma positiva superiore ad esso, dalla quale essere
giudicato: e’ il re a fare la legge, anzi lui stesso è la legge. Non è semplice
discrezionalità ma vero e proprio arbitrio che si concretizza nel pieno controllo
da parte del sovrano su tutto il suo territorio, sottomettendo gli abitanti,
tendendo ad arrivare all’interno delle loro coscienze, cittadini chiamati proprio
per questo “sudditi”.
Il profilo delle monarchie assolute è stato disegnato da professionisti burocrati
esperti in diritto romano; il quadro istituzionale è invece caratterizzato da
alcune novità, che hanno finito per rappresentarne l’espressione tipica:
l’esercito, che diviene professionale assumendo dimensioni enormi; il
commercio, se pur controllato e limitato da divieti di esportare monete e
metalli preziosi; la diplomazia, strumento di rappresentanza dello Stato presso
gli altri.
Il settore decisamente caratterizzante il sistema assoluto è però la burocrazia,
apparato coadiuvante nel momento in cui il Re, avendo assunto potere in ogni
ambito, non riesce più ad intervenire direttamente su tutte le questioni.
Gli uffici di cui l’apparato burocratico si compone sono però venduti ai privati
come proprietà privata alienabile, col risultato di un’integrazione totale della
nobiltà nello Stato assoluto.
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P. Anderson, Lo Stato Assoluto, cit., p. 26
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