2
Tale fenomeno si è, negli ultimi decenni, notevolmente accresciuto ed ha assunto
ampie proporzioni anche perché si è diffusa la tendenza a considerare molte categorie
d’opere d’arte come beni rifugio in cui investire i risparmi da sottrarre agli effetti
l’inflazione
2
, ciò determina, inevitabilmente, un forte incremento dei prezzi e della
domanda.
Peraltro una sua valutazione in termini quantitativi risulta estremamente ardua per la
combinazione di diversi fattori tra i quali la circostanza che committenti, esecutori e
destinatari risultino spesso ignoti.
Parimenti può risultare spesso difficile accertare la provenienza dei beni illecitamente
trasferiti i quali, soprattutto quelli archeologici, non sono né classificati né catalogati dal
paese d’origine o provengono addirittura dal saccheggio di siti archeologici ufficialmente
sconosciuti o di cui non sono ancora state intraprese le operazioni di scavo.
3
All’aumento della domanda si aggiunge la progressiva organizzazione e
specializzazione dell’offerta di oggetti d’interesse artistico, storico, etnografico, trafugati
dai paesi ricchi di beni culturali ed esportati, in violazione delle norme restrittive
4
di questi
ultimi.
Peraltro, solitamente, gli oneri e le misure previste da tali norme sono tanto rigide
quanto poco efficaci, sia a causa di un’oggettiva difficoltà di applicazione delle stesse, sia
a causa di croniche inefficienze o di estese aree di corruzione che caratterizzano gli
apparati burocratici preposti alle funzioni di attuazione e controllo in materia.
Si possono oggi delineare due principali gruppi di paesi interessati a tale traffico: gli
esportatori (Italia, Grecia, Turchia, Egitto, Stati dell’America centrale e meridionale,
dell’Asia, dell’Africa, dell’Oceania) e gli importatori in particolare Stati Uniti, Gran
Bretagna, Germania, Olanda, Svizzera nonché, in generale, i paesi ricchi, avanzati ed
industrializzati. La distinzione tra i due suddetti insiemi di paesi non è rigida ed anzi si può
accogliere solo a condizione che si tenga conto che vi sono stati appartenenti ad entrambe
le categorie tra cui spicca, per importanza e numero d’opere coinvolte nel fenomeno,
l’Italia.
5
1
Sul traffico illecito di beni trafugati vedi BATOR, An essay on international trade in art, in Stanford Law Riview,
1982.
2
Si intende per “beni rifugio” rifarsi a quei beni che rappresentino opere d’arte o beni affini in cui si investe denaro,
rinunciando ad una rendita predeterminata, ma sottraendosi all’inflazione e beneficiando dell’aumento di valore degli
stessi sul mercato.
3
Vedi BATOR, An essay on international trade in art, in Stanford law review, 1982, p. 129 ss., p. 292 ss.
4
Con ciò si intendono le norme che mirano a preservare, limitando la fuoriuscita di beni culturali, il patrimonio storico
artistico degli Stati.
5
Sul punto vedi BROSIO e SANTAGATA, in AAVV, Il mercato delle opere d’arte e i problemi della circolazione a
livello europeo, Milano, 1995 p. 17 ss.
3
Tale differenziazione contribuisce a spiegare l’impianto protezionistico delle politiche
e delle legislazioni nazionali in tema di regolamentazione della circolazione dei beni
culturali, tendenzialmente proprio degli ordinamenti dei paesi esportatori a fronte di un
approccio più liberale di quelli importatori.
Esso si esplica, prevalentemente, non tanto nell’imposizione di criteri più selettivi per
la restituzione quanto nella limitazione delle categorie di beni suscettibili di divieti e di
controlli all’esportazione.
La riproduzione, sul piano internazionale, di tali differenti e contrastanti approcci al
problema della protezione dei beni culturali mobili, propri degli ordinamenti interni
rappresenta una costante, verificabile storicamente a partire dai primi progetti di
regolamentazione internazionale degli anni trenta.
Il delicato equilibrio tra le esigenze di salvaguardia del patrimonio culturale, da un
lato, e di garanzia della libera circolazione dei beni, dall’altro, nonché la ricerca di
soluzioni di compromesso tra le due tendenze indicate, permangono attualmente pur
nell’odierno quadro di una cooperazione internazionale notevolmente accresciuta rispetto
al passato.
Va ricordato, infatti, che, negli ultimi decenni, si è accresciuto l’interesse ad una più
attenta tutela legislativa sia a livello nazionale che internazionale, in considerazione
dell’attualità e consistenza del problema inerente alla tutela del patrimonio artistico, ora
rivalutato anche come elemento caratterizzante l’identità statale.
6
Esaminato il problema nelle sue linee generali, si constata che lo strumento, cui ci si è
rivolti più frequentemente per far rientrare i beni culturali illecitamente esportati nel paese
di loro provenienza, è la restituzione.
Essa ha guadagnato, dunque, negli ultimi anni un ruolo primario all’interno della più
generale tematica della protezione giuridica internazionale dei patrimoni artistici
nazionali. Inoltre si è configurata, nel tempo, non solo come strumento attraverso il quale
rendere operativa una tutela più attenta, ma come obiettivo di specifiche ed autonome
forme di cooperazione tra Stati volte a far riconoscere, sul piano internazionale ed interno,
i legami esistenti fra i beni d’arte ed i loro stati d’appartenenza.
7
Si aggiunge infine che le questioni relative al commercio internazionale di beni
culturali consentono di evidenziare talune significative analogie presenti nell’evoluzione
6
Vedi al riguardo PROTT-O’KEEFE, Law and Cultural Heritage, Vol. I, Abington, 1984.
7
Sul punto vedi BYRNE-SUTTON, Le trafic international des biens culturels sous l’angle de leur revendication par
l’Etat d’origine, Zurich, 1988, LANCIOTTI, La circolazionedei beni culturali nel diritto internazionale privato e
comunitario, Napoli, 1996.
4
delle norme interne ed internazionali alla ricerca di un difficile equilibrio tra l’esigenza di
salvaguardia e di protezione del patrimonio culturale dei così detti paesi d’origine
8
e
l’opportunità di favorire l’eliminazione degli ostacoli agli scambi.
Seguendo l’evoluzione delle discipline elaborate nell’ambito dei singoli ordinamenti
interni è, come è noto, facile constatare come la preoccupazione ricorrente, fin dalle
legislazioni più antiche in materia, riguardi la regolamentazione della circolazione dei beni
culturali sia agendo sulla determinazione del regime della proprietà, sia mediante
l’imposizione di sistemi di controllo all’importazione e soprattutto all’esportazione.
9
La necessità, d’altra parte, di una cooperazione tra gli Stati, sancita dall’elaborazione
di norme internazionali in questo settore trae origine, storicamente, proprio
dall’insufficienza delle sole norme interne a controllare ed arginare il fenomeno.
E’ principalmente eliminando il traffico illecito e le attività a ciò legate, scavi
clandestini, danneggiamenti ai siti archeologici, furti d’opere d’arte, che viene attuata la
protezione internazionale dei beni mobili.
Passando ora alle misure di controllo sul commercio di beni culturali, introdotte dagli
Stati e finalizzate ad arginare la loro dispersione, si osserva una tendenza costante degli
stessi a prevedere, seppur con notevoli differenze, regimi specifici di importazione ed
esportazione dei beni culturali. A tal proposito, si segnala che, nonostante gli sforzi della
normativa internazionale, spesso gli Stati non si sono adeguati, come fanno notare alcuni
autori
10
nei loro saggi, alle nuove norme internazionali; basti pensare alle riserve, apposte
in sede di ratifica da parte dei paesi importatori, al sistema di licenze previsto dall’articolo
6 della Convenzione dell’UNESCO del 1970
11
.
Esso introduce l’importante novità per cui gli Stati si impegnano ad impedire l’uscita
dal loro territorio di beni culturali che non siano accompagnati da un’autorizzazione ed a
pubblicizzare tale sistema, soprattutto nei confronti di coloro che operano nel mercato
dell’arte. Canada ed Australia hanno, per esempio, deciso di porre sotto controllo solo
certe categorie di beni artistici e non rilasciano documenti attestanti che non è domandata
licenza di esportazione se l’esportatore lo richiede.
Austria ed Italia rilasciano, invece, licenze valide per il singolo bene da esportare.
8
Si definiscono paesi d’origine quelli da cui provengono i beni, sono, dunque, gli Stati con cui l’oggetto ha un rapporto
di stretta connessione in quanto fu là prodotto, ritrovato in scavi là ubicati o realizzato da artisti locali.
Spesso essi sono rappresentati da paesi meno avanzati ma ricchi di opere significative, per esempio: Egitto, Stati
dell’Africa e dell’America meridionale.
9
Sulla genesi dell’interesse delle nazioni alla protezione del patrimonio storico- artistico vedi FRIGO, La protezione dei
beni culturali nel diritto internazionale, Milano, 1986, p. 1 ss.
10
Tra questi spicca MARLETTA.
5
In Gran Bretagna esiste, per contro, una sorta di licenza generale che consente di
esportare liberamente la maggior parte delle categorie di oggetti antichi e da collezione.
Questa scelta, sebbene discutibile sotto il profilo della protezione del patrimonio
artistico, è, d’altra parte pienamente in linea con la secolare tradizione delle note case
d’aste anglosassoni che trasferiscono ogni anno nelle più grandi collezioni del mondo
oggetti per svariati milioni di sterline.
Contrastanti sono le posizioni della dottrina sull’utilità della suddetta documentazione,
per alcuni autori essa è solo fonte di corruzione e risulta facilmente aggirabile con falsi
certificati, per altri rappresenta il solo mezzo atto a porre freno alla crescente diaspora dei
beni dai paesi d’origine.
Passando adesso ai controlli sull’importazione di beni culturali provenienti da paesi
esteri va detto che, nonostante una mutata mentalità sui problemi del traffico illecito di tali
oggetti, sono pochi i paesi che hanno adottato disposizioni normative volte a
regolamentare l’ingresso di beni culturali esteri entro i loro confini.
Tale aspetto merita, però, di essere preso in considerazione in quanto alcuni
autori
12
ritengono che l’efficacia di un sistema di controllo all’esportazione dipenda, di
fatto, dall’atteggiamento e dai controlli dei paesi importatori.
Solo Canada ed Australia, attualmente, impediscono l’importazione di beni culturali
privi di licenza d’esportazione.
L’Australia, solo a condizione di reciprocità, si impegna anche a restituire agli altri
Stati i beni artistici illecitamente importati nel suo territorio; tutto ciò in attuazione
dell’articolo 3 della Convenzione dell’UNESCO del 1970
13
.
Gli Stati Uniti, essendo grandi importatori di beni culturali, non si sono adeguati a
questa prassi, se non con leggi decisamente marginali e settoriali, per esempio quella che
limita l’importazione delle sculture e pitture precolombiane
14
.
Essi, perciò, preferiscono attuare un controllo selettivo delle importazioni in virtù del
quale alcuni oggetti illecitamente esportati dal paese d’origine possono tuttavia essere
importati negli USA. L’illecita esportazione da un altro paese non costituisce in America,
in sé, un fatto ostativo all’importazione.
11
Esso prevede che gli Stati introducano un adeguato certificato per l’esportazione, impediscano l’esportazione di beni
culturali dal loro territorio senza tale certificato, si impegnino a rendere nota tale procedura.
12
Tra loro spicca MARLETTA.
13
Esso afferma: “L’importazione, l’esportazione o il trasferimento di proprietà di beni culturali, effettuati in contrasto
con le disposizioni adottate in questa Convenzione dagli Stati parti, saranno illeciti.”
14
Tale legge vieta, a condizioni ben precise l’importazione negli Stati Uniti, di certe categorie di opere d’arte delle
civiltà precolombiane.
6
In dottrina americana si sostiene, infatti, che privare i paesi importatori del potere di
decidere quali siano gli oggetti d’arte di cui è autorizzata l’importazione significherebbe
firmare un assegno in bianco; di conseguenza si dovrebbero applicare le leggi straniere
sull’esportazione di tali beni qualunque esse siano, senza poter più stabilire la loro
compatibilità con gli interessi della Comunità internazionale e secondariamente con i
propri
15
.
Parimenti il Giappone non prevede alcuna misura di controllo sull’importazione. A
tale proposito va ricordata la particolare situazione del mercato giapponese: i prezzi là
praticati sono, quasi sempre, i più alti al mondo e questo fa sì che il volume delle
importazioni sia, di gran lunga, superiore a quello delle esportazioni. Ciò ha determinato
uno scarsissimo interesse all’applicazione di controlli sull’importazione e fa dubitare sulla
adesione nipponica alla Convenzione Unidroit.
Infine in Gran Bretagna non è prevista alcuna possibilità di effettuare controlli
all’importazione e di adottare misure nei confronti di chi importi un bene, la cui
esportazione sia proibita dallo Stato cui quel bene appartiene.
II – Convenzione UNESCO del 1970 sui mezzi per impedire e vietare l’importazione,
l’esportazione ed il trasferimento illecito dei beni culturali: circolazione di beni
culturali ed obblighi internazionali
Il processo di regolamentazione inerente alla tutela dei beni culturali inizia ad
assumere rilievo a partire dalla creazione della Convenzione dell’UNESCO del 1970.
16
In via preliminare si sottolinea che l’attività internazionale relativa alla protezione dei
beni culturali costituisce un fenomeno recente e riguarda prevalentemente il duplice
problema della regolamentazione della circolazione dei beni e quello connesso, relativo
alla restituzione dei beni oggetto di un traffico illecito, cioè i beni trasferiti all’estero in
violazione delle norme del paese d’origine.
La Convenzione UNESCO del 14 novembre 1970, che non ha, a differenza della
Convenzione dell’Unidroit, carattere self executing, rappresenta il testo più importante,
anche in considerazione del numero di Stati che vi hanno finora aderito, sui mezzi per
impedire e vietare l’importazione, l’esportazione ed il trasferimento illecito di beni
15
In tal senso vedi BATOR, An essay on international trade in art, op. cit., p. 275.
7
culturali
17
. Il numero delle adesioni è ragguardevole se si pensa che, in data 27 giugno
2003, era di 100, per l’elenco completo si rimanda alla nota, ma qui giova segnalare
almeno i principali Stati parte: Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Giappone,
Federazione Russa, Spagna, Portogallo, Cina, Brasile, Messico, India, Egitto; spicca tra gli
assenti la Svizzera.
18
La Convenzione, entrata in vigore il 24 aprile 1972
19
contiene, all’articolo 1,
un’elencazione dettagliata dei beni rientranti nel suo campo di applicazione,
20
ricomprendendovi non solo opere d’arte ma anche beni che, pur non potendosi considerare
oggetti d’arte, presentino un’importanza storica, archeologica, letteraria, artistica e
scientifica.
I divieti di trasferimento della proprietà, d’esportazione e d’importazione dei beni
indicati nel testo in esame non sono però assoluti, infatti, spetta a ciascuno Stato
contraente fissare, con leggi interne, quali attività su tali beni siano lecite e quali non lo
siano.
Tale circostanza consente di ricavare una prima caratteristica del testo in questione,
consistente nel rappresentare uno strumento di salvaguardia dei singoli patrimoni nazionali
degli Stati contraenti piuttosto che di un ristretto ed identificato nucleo di beni costituenti
un patrimonio internazionale comune.
In base all’articolo 7 gli Stati si impegnano ad adottare le misure necessarie: i) per
impedire l’acquisizione da parte dei musei situati sul loro territorio di beni illecitamente
asportati dal territorio di un altro Stato contraente; ii) per vietare l’importazione dei beni
culturali rubati in un museo o in altra istituzione pubblica, civile o religiosa, successiva
all’entrata in vigore della Convenzione; iii) per restituire, compatibilmente con le proprie
16
Il processo di regolamentazione prosegue poi con la Convenzione Unidroit del 1995, di notevole incidenza per il suo
carattere innovativo, e, seppur in un contesto settoriale, con quella dell’UNESCO del 2001 sul patrimonio culturale
subacqueo.
17
Vedi GARDELLA, Nuove prospettive per la protezione internazionale dei beni culturali: la Convenzione
dell’Unidroit del 24 giugno 1995, in Diritto del commercio internazionale, 1998, fascicolo 4 (dicembre), pagg. 997-
1030.
18
L’elenco dei paesi comprende: Albania, Algeria, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Azerbaijan, Bahamas,
Bangladeh, Barbados, Belarus, Belize, Butan, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Braile, Bulgaria, Burkina Faso, Cambogia,
Cameroon, Repubblica dell’Africa centrale, Cina, Colombia, Costa Rica, Costa d’Avorio, Croazia, Cuba, Cipro,
Repubblica Ceca, Corea, Congo, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Egitto, El Salvador, Estonia, Finlandia,
Francia, Georgia, Grecia, Grenada, Guatemala, Guinea, Honduras, Ungheria, India, Iran, Iraq, Italia, Giappone,
Giordania, Kuwait, Kyrgikistan, Libano, Libia Araba, Jemahiriya, Lituania, Madagascar, Mali, Mauritania, Mauritius,
Messico, Mongolia, Marocco, Nepal, Nicaragua, Niger, Nigeria, Oman, Panama, Pakistan, Perù, Polonia, Portogallo,
Katar, Korea, Romania, Federazione Russa, Ruanda, Arabia Saudita, Senegal, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Sri Lanka,
Svezia, Siria, Tajikistan, Iugoslavia, Macedonia, Tunisia, Turchia, Ucraina, Gran Bretagna, Tanzania, USA, Uruguay,
Uzbekistan, Zambia.
19
L’Italia la ratificò con legge 30 ottobre 1975 numero 873.
20
Si veda, al riguardo, anche il paragrafo sulla Convenzione dell’Unidroit.
8
leggi, su richiesta dello Stato di origine
21
contraente della Convenzione, ogni bene
culturale rubato ed illecitamente importato.
Gli Stati membri si impegnano, altresì, ad ammettere un’azione di rivendicazione di
beni culturali, perduti o rubati, esercitata dal legittimo proprietario o per suo conto
(articolo 13.c).
Il negoziato che ha condotto all’elaborazione ed all’adozione del testo della
Convenzione ha posto in risalto i contrastanti interessi dei paesi importatori ed esportatori
di opere d’arte e di beni culturali in generale. Le divergenti posizioni espresse al riguardo
ed il carattere di compromesso del testo, possono essere verificati prendendo in esame il
complesso iter di formazione ed il testo finale della Convenzione. Essa è, in effetti, il
risultato di una profonda revisione del progetto preliminare predisposto dal Segretario
dell’UNESCO.
Tale progetto, contrastato soprattutto dagli Stati Uniti, prevedeva l’istituzione di un
rigoroso sistema di controllo all’esportazione mediante l’emissione di un certificato
obbligatorio che avrebbe dovuto accompagnare i beni (art. 7).
Oltre all’obbligo per gli Stati contraenti di istituire un inventario (art. 6) era previsto
un sistema complementare di controllo all’importazione che comportava il divieto di
importare qualunque bene culturale sprovvisto del certificato obbligatorio, previsto dalla
Convenzione.
Al fine di garantire l’applicazione dei meccanismi predisposti dal progetto di
Convenzione erano state inoltre previste delle precise sanzioni per i trasgressori del
sistema di controllo all’esportazione o all’importazione, comprese delle sanzioni penali a
carico dei funzionari, di istituti pubblici o privati, che avessero acquistato beni culturali
senza averne accertata la provenienza (art.7.1).
Proprio con riferimento al problema della circolazione, il testo definitivo della
Convenzione fa registrare i più rilevanti ripiegamenti rispetto alle soluzioni, talora, molto
innovative ma di difficile applicazione, presenti nel progetto preliminare.
In primo luogo, nel testo definitivo, si ha una norma di carattere generale: in base
all’articolo 3 sono, infatti, illeciti tutti i trasferimenti internazionali effettuati in violazione
delle norme adottate dagli Stati contraenti in base alla Convenzione.
Il controllo delle esportazioni viene esercitato mediante l’obbligo degli Stati di
introdurre, a norma dell’articolo 6
22
, un idoneo certificato che dovrà accompagnare ogni
21
Si intende con ciò lo Stato con il quale il bene ha un rapporto stretto e di regola da cui proviene.
9
bene culturale regolarmente esportato con la specificazione dell’autorizzazione
all’esportazione, nonché di vietare l’uscita dal proprio territorio dei beni sprovvisti di tale
certificato (art. 6.b) e di dare pubblicità adeguata a tali iniziative (art. 6.c).
Sempre con riguardo al divieto di esportazione imposto dagli stati, l’articolo 13 ne
riconosce la legittimità come conseguenza del diritto imprescrittibile degli Stati medesimi
di dichiarare inalienabili determinati beni; parimenti deve ritenersi imprescrittibile
l’azione di rivendicazione a seguito dell’esportazione dei beni medesimi.
Quanto invece ai limiti relativi all’importazione gli obblighi sottoscritti dalle parti
sono più elastici e meno incisivi, soprattutto se li si confronta a quelli del progetto
preliminare.
Avendo desistito dall’obbligo generale di vietare l’importazione dei beni privi
dell’idoneo certificato, di cui all’articolo 7 del progetto, l’articolo 7
23
del testo finale si
limita a condannare l’acquisizione di beni illecitamente esportati da parte dei musei e a
vietare l’importazione dei soli beni inventariati e che risultano rubati in un museo o altra
pubblica istituzione civile o religiosa.
L’introduzione del più incisivo obbligo di controllo imposto in quest’ultimo caso non
riguarda tutti i beni illecitamente trasferiti, ma solo quelli rubati e si fonda sulla
presunzione che si tratti, in tale ipotesi, di beni di maggiore importanza.
Si esamina ora il secondo dei due problemi, cui si accennava in principio, quello
inerente alla restituzione dei beni oggetto di trasferimento illecito.
Sotto questo profilo la Convenzione prevede, in primo luogo un obbligo di carattere
generale consistente nel fare in modo che i servizi nazionali competenti facilitino la
restituzione di beni illecitamente importati (art.13b); l’articolo13c prevede, invece, il già
citato obbligo di ammettere, da parte degli Stati, un’azione, atta a facilitare il recupero di
beni, di rivendicazione di oggetti perduti o rubati che venga esercitata dal legittimo
proprietario o in suo nome.
22
Un notevole limite che appare opportuno sottolineare è rappresentato dal fatto che l’articolo 6 costituisce una
versione semplificata del 7c del progetto preliminare che attribuiva, al certificato in questione, la funzione di mezzo di
controllo non solo all’esportazione, ma anche all’importazione.
Tale ulteriore funzione, così come quella di attestazione dell’autenticità del bene esportato, fu eliminata per l’eccessiva
complessità che avrebbe comportato la sua attuazione, mentre si riteneva che la parte relativa all’esportazione fosse di
più facile attuazione.
23
Tale disposizione è inoltre rafforzata dall’articolo 8 che prevede sanzioni penali ed amministrative a carico dei
responsabili di violazioni degli obblighi di cui al 6.b e 7b. essi sanciscono rispettivamente: “Gli Stati si impegnano a
proibire l’esportazione di beni culturali dal loro territorio a meno che siano accompagnati dal suddetto certificato
d’esportazione”; “Gli Stati parti si impegnano a proibire l’importazione di beni culturali rubati da un museo, da un
monumento religioso o pubblico laico o da altra simile istituzione in un altro stato parte di questa Convenzione, dopo la
sua entrata in vigore, per gli Stati ad essa aderenti, purché tali beni siano documentati come di pertinenza di quella
istituzione.”
10
Una volta che sia stata esercitata un’azione di rivendicazione, gli Stati si impegnano a
facilitare la restituzione dei beni dichiarati e classificati come inalienabili dal paese
d’origine (art.13d).
Al di fuori del caso di rivendica la previsione di maggiore importanza è contenuta
nell’articolo 7. b). ii). che impone l’adozione di misure adeguate al fine di porre sotto
sequestro e restituire allo Stato d’origine che sia parte della Convenzione e che ne faccia
richiesta i beni rubati in un museo o altro pubblico monumento di carattere civile o
religioso o in una istituzione similare.
Il meccanismo da esso previsto è il seguente: alla richiesta dello Stato d’origine del
bene culturale parte della Convenzione, gli altri paesi parte si impegnano ad intraprendere
i passi atti a recuperare e restituire ogni bene suddetto importato dopo l’entrata in vigore
del testo in esame; si prevede che lo stato richiedente paghi un compenso all’acquirente in
buona fede o ad una persona che abbia un valido titolo di proprietà. È inoltre necessario
che lo Stato richiedente fornisca la documentazione necessaria a sostegno della sua
pretesa.
Si segnala tale norma in quanto, con essa, si vuole mirare a raggiungere un importante
risultato pratico ossia che tornino allo Stato d’origine opere di rilievo che, però, devono
provenire da luoghi ben definiti, individuati ed indicati dalla norma in questione.
In tale caso gli oneri che ricadono sullo Stato richiedente che, a tale fine deve
utilizzare le vie diplomatiche, sono relativi anzitutto alla prova che legittima la richiesta di
restituzione e, in particolare, il versamento di un equo indennizzo al terzo acquirente di
buona fede, o legittimato alla proprietà da un valido titolo.
Vanno segnalati, a questo punto, alcuni problemi che si sono dovuti affrontare in sede
di realizzazione del testo della Convenzione UNESCO del 1970. Il primo era
rappresentato dall’ostilità di molti Stati, in particolar modo gli importatori, da intendersi
come i paesi ricchi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti ed il Giappone, patria di
facoltosi collezionisti ed investitori, che erano contrari alla realizzazione di strumenti
internazionali tramite i quali si potesse effettuare una facile e rapida restituzione a ciascun
soggetto, pubblico o privato, dei beni illecitamente trafugatigli.
A seguito dell’opposizione di tali paesi, la disciplina in esame si applica soltanto a
beni ubicati in dati luoghi e rispondenti a requisiti molto limitati, tralasciando di applicare
idonei mezzi di tutela per opere altrettanto o, talvolta, persino più importanti solo poiché
non appartengono a musei, istituzioni civili o religiose di paesi contraenti, espressamente
indicati nell’articolo.
11
Un secondo ostacolo ad una disciplina onnicomprensiva era rappresentato dal fatto
che la maggior parte degli interlocutori ed acquirenti fosse costituito, a livello
internazionale, da importanti case d’aste e da istituzioni museali pubbliche o private.
Consistenti problemi sono, poi, sorti anche riguardo alla nozione di “bene culturale”
24
:
occorreva, infatti, realizzare una nozione che potesse considerarsi unitaria e condivisa tra
gli Stati. Tanto più che questa nozione, cui si è con difficoltà approdati, contiene, al suo
interno, concetti non facilmente distinguibili, si pensi, a mero titolo esemplificativo alla
differenza che intercorre tra beni mobili ed immobili.
La distinzione in esame perde, infatti, per esempio, qualunque contorno di certezza se
si rimanda ad un concetto meno netto e definito quale è l’alienazioni di affreschi rimossi
dal sito originario
25
.
III – (Segue): acquisto di buona fede, obblighi di restituzione e relativi problemi
La Convenzione dell’UNESCO del 1970 non è stata in grado di risolvere alla radice
alcuni problemi posti dalla circolazione internazionale dei beni culturali, si pensi, in
particolare, alla questione della restituzione dei beni rubati o illecitamente esportati dal
paese d’origine.
26
In primo luogo in relazione ai paesi non contraenti il traffico considerato illecito dal
punto di vista dello Stato d’origine può, per contro, essere ritenuto pienamente lecito da
altri Stati nei quali il bene sia importato, salvo che il diritto interno di questi sia violato;
sotto questo profilo l’esempio più lampante è rappresentato dalla violazione di norme
interne sull’importazione di opere d’arte
27
.
In secondo luogo anche tra Stati contraenti la Convenzione possono insorgere
difficoltà nel caso in cui la richiesta di restituzione di un bene culturale determinato trovi
ostacolo in situazioni giuridiche riconosciute e protette nel paese in cui il bene è ubicato.
In tali casi sia una richiesta formale di restituzione da parte dello Stato d’origine ex
articolo 7 b) ii)
28
, sia un’azione di rivendicazione ex articolo 13 c
29
possono, infatti,
24
L’articolo 1 afferma che, per le finalità di questa convenzione, il termine “bene culturale” significa beni che, sotto un
profilo religioso o secolare, è designato specificatamente da ogni Stato poiché di rilievo per l’archeologia, la preistoria,
la storia, la letteratura, l’arte o la scienza e che appartenga a certe categorie.
25
Sul punto vedi MARLETTA, La restituzione dei beni culturali, Milano 1986 op. cit. p.10 ss.
26
Vedi CARDUCCI, La restitution international des biens culturelss et des objects d’art, Parigi, 1997, p.299 ss.
27
Vedi FRIGO, La Protezione delle opere d’arte, Milano, 1986, op. cit., p. 332 ss.
28
Vedi, per le modalità, dell’azione il paragrafo precedente.
12
risultare ostacolate dalle situazioni giuridiche suddette ed in particolare dall’esistenza,
riconosciuta nello Stato di destinazione del bene, di diritti reali; si pensi ad un diritto di
proprietà validamente costituito sulla base del possesso di buona fede e di un titolo che sia
astrattamente idoneo.
Va poi aggiunto che il meccanismo di cui al 7 b) ii) non è certamente chiarissimo si
pensi agli aspetti procedurali sulle modalità d’esercizio dell’azione, fissate in modo
generico, al problema di determinare l’esatto contenuto dell’onere della prova a carico del
paese richiedente o all’incertezza circa i criteri e le modalità di computo dell’indennizzo.
Anche nel caso di un’azione fondata sul 13 c si è spesso dimostrata l’importanza che
assume la protezione garantita all’acquirente di buona fede da quei sistemi giuridici che
gli consentono, a certe condizioni, di diventare proprietario del bene in forza del noto
principio “possesso vale titolo”.
30
Quindi i meccanismi di cui agli articoli 7 b) ii) e 13 c, sono limitati, come si è già
evidenziato nel paragrafo precedente, in tema di loro ambito d’applicazione ma soprattutto
hanno il limite di non conferire alcuna certezza sul successo di una domanda di
restituzione, in particolar modo quando il diritto applicabile alla controversia protegge in
modo quasi totale l’acquirente di buona fede.
Il caso più eclatante è rappresentato proprio dal codice civile italiano che, al 1153 del
codice civile
31
, estende la sua applicazione anche ai beni rubati.
32
Difficoltà notevoli si incontrano persino nel caso, apparentemente più semplice, in cui
l’appartenenza del bene allo Stato sia chiaramente ed espressamente dichiarata dalla legge
nazionale dello stato medesimo.
Al riguardo si ricordino le difficoltà incontrate nel far valere l’appartenenza all’Italia,
sancita appunto da legge nazionale, della statua di una Nike trafugata in Sicilia e, poi,
riapparsa nelle sale del Getty Museum di Malibù.
33
29
Esso sancisce: “Gli Stati parti si impegnano anche ad ammettere le azioni per il recupero di beni culturali rubati o
perduti, introdotte da o in nome dei legittimi proprietari”.
30
Cfr. sul punto FRIGO, Diritti reali (Diritto internazionale privato), in Enc. Dir., III aggiornamento, Milano, 1999, p.
511 ss.
31
Il 1153 del codice civile sancisce: “Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne
acquista la proprietà mediante il possesso, purchè sia in buona fede al momento della consegna e sussista un idoneo
titolo al trasferimento della proprietà.
La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è buona fede
dell’acquirente.
Nello stesso modo si acquistano di usufrutto, di uso e di pegno.”
32
Vedi, sul punto, MENGONI, Gli acquisti a non domino, Milano, 1994, p. 192 ss e CARDUCCI, La restitution
international, op. cit. p. 395.
33
Vedi PLATAMONE, Speciale scavi a Morgantina, in REVERDINI, BICARETTI di RUFFIA, FRIGO, La tutela e la
circolazione dei beni culturali nei paesi della CEE, Roma, 1992, p. 172 ss.
13
La centralità del problema della tutela assicurata all’acquirente di buona fede in molti
ordinamenti giuridici nazionali è confermata non solo dalla dottrina ma anche
dall’attenzione che gli è stata dedicata, durante le consultazioni periodiche sui problemi
d’applicazione della Convenzione del 1970, da parte degli Stati membri dell’UNESCO,
nonché dagli esperti incaricati, dall’UNESCO stessa, dalla Comunità Europea, dal
Consiglio d’Europa e dall’Unidroit di occuparsi della questione.
Per riuscire a comprendere appieno il rilievo di tale problema è sufficiente ricordare
l’orientamento prevalente in Italia, basato sull’interpretazione delle norme italiane di
diritto internazionale privato (articoli 51 e seguenti della legge 218 del 1995), applicabili
in assenza di diverse disposizioni specifiche poste all’interno di convenzioni
internazionali. In base a tale orientamento in caso di beni culturali trasferiti in Italia da un
altro paese il possessore di buona fede non acquista la proprietà dei beni se la legge del
luogo in cui tali beni si trovavano, al momento dell’acquisto, non riconosce il principio
“possesso vale titolo”, o se l’applicazione di questo principio sia esclusa da altre
circostanze quali, per esempio l’esistenza di vincoli pubblicistici alla disponibilità del
bene.
Tuttavia fatti sopravvenuti possono intervenire successivamente e modificare
completamente la situazione.
Per esempio può accadere che l’acquirente a non domino trasferisca, a sua volta, il
bene che è in Italia ad un terzo di buona fede con la conseguenza che, in tal caso, si avrà
un negozio giuridico che sarà interamente disciplinato dalla legge italiana.
Quest’ultima attribuirà al terzo acquirente un diritto di proprietà, naturalmente purché
sussistano i requisiti e le condizioni previste dall’articolo 1153 del codice civile, in tema di
effetti del possesso di buona fede di beni mobili.
Alla luce di quanto detto, sebbene la Convenzione dell’UNECO del 1970 rappresenti
un punto di svolta nella cooperazione internazionale in tema di tutela dei beni culturali, i
suoi meccanismi sul controllo della circolazione dei beni e soprattutto per la loro
restituzione si sono rivelati insoddisfacenti.
Riguardo alla restituzione le maggiori difficoltà consistono nell’inidoneità oggettiva di
uno strumento internazionale concepito per operare sul piano della cooperazione
diplomatica a superare gli ostacoli posti dall’ordinaria applicazione delle norme di diritto
internazionale privato e di diritto civile degli ordinamenti interni.
Appare particolarmente significativa, a dimostrazione di ciò, la pronuncia della
Suprema Corte che ha posto fine ad una nota vicenda giudiziaria in cui il Governo
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francese domandava la restituzione degli arazzi rubati dal palazzo di giustizia di Riom e,
poi, acquistati da un acquirente di buona fede in Italia a non domino.
Nella controversia a ciò inerente, nota con il nome di Ministero francese dei beni
culturali contro Ministero dei beni culturali ed ambientali e De Contessini
34
, infatti, la
domanda di restituzione che sosteneva si trattasse di beni indisponibili ed inalienabili,
conseguentemente non commerciabili né in Francia né all’estero e inoltre che non sarebbe
stata dimostrata la buona fede degli acquirenti né l’idoneità del titolo, è stata respinta. Si è
ritenuto non sostenibile la loro inalienabilità, la mancanza di buona fede degli acquirenti
italiani e l’inidoneità del titolo d’acquisto.
La controversia venne decisa in tale senso in primo grado, confermata in appello ed
infine dalla Corte di Cassazione con sentenza 24 novembre 1995.
35
La decisione si fonda, infatti, sull’applicazione della lex rei sitae (in questo caso la
legge italiana) individuata sulla base delle norme italiane di diritto internazionale privato,
quale legge del luogo in cui si trovano i beni al momento dell’acquisto e, pertanto, ritenuta
la legge competente a valutare il titolo idoneo al trasferimento.
D’altro lato la Convenzione dell’UNESCO del 1970 non avrebbe potuto trovare
applicazione non solo, come sostenne la Suprema Corte, non essendo la Convenzione
applicabile in Italia a fatti anteriori alla sua entrata in vigore (2 gennaio 1979), ma anche
perché la Francia non vi aveva ancora aderito.
In effetti l’articolo 7 della Convenzione, che prevede l’obbligo di restituzione nei soli
confronti degli Stati contraenti, non avrebbe potuto in ogni caso essere applicato.
Trattandosi, poi, di un acquisto avvenuto in Italia ed in virtù dell’applicazione della
legge italiana la buona fede dell’acquirente si presume in mancanza di prova contraria.
In secondo luogo neppure le norme internazionali pattizie sottoscritte dall’Italia in
materia, nella specie la Convenzione dell’UNESCO del 1970, prevedono, secondo i
giudici italiani, obblighi implicanti l’automatica estensione, sul piano del diritto interno,
dei vincoli di inalienabilità di beni culturali fissati da altri Stati.
Già il tribunale di primo grado aveva precisato che, con l’articolo 7 b) ii) della
Convenzione, l’Italia aveva assunto un obbligo nei confronti di altri Stati, ma non aveva
successivamente introdotto norme interne che obbligassero l’acquirente di buona fede alla
restituzione del bene proveniente dall’estero dietro corresponsione di un indennizzo.
36
34
Cfr. Cassazione 23 novembre 1995, numero 12166, in Foro italiano, 1996, I, 907 ss.
35
Per le sentenze di primo e di secondo grado vedi in Riv. Dir. Int. Priv.Proc., 1982, p. 625 ss, e in 678 F. 2d Cir., 1982.
36
Vedi sul punto FRIGO, Trasferimento illecito di beni culturali e legge applicabile, in Dir. Comm. int., 1988, p.611
ss., in cui si osserva che al medesimo risultato si sarebbe giunti anche applicando la Convenzione dell’UNECO del
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Sotto un diverso profilo non si deve dimenticare che la tradizionale ostilità della
giurisprudenza e di parte della dottrina rispetto al riconoscimento ed all’applicazione del
diritto pubblico straniero non contribuisce certo a facilitare la restituzione di beni se si
tratta di controversie relative a beni dichiarati di proprietà dello Stato dalle leggi interne di
molti paesi, come è il caso dei beni d’interesse archeologico.
In tali situazioni, considerando che spesso la prova della provenienza non può essere
agevole (si pensi ad oggetti provenienti da scavi clandestini), oltre alla violazione delle
leggi sull’esportazione del paese d’origine l’accertamento della violazione delle norme
sull’importazione di beni nello Stato di destinazione può essere decisivo per il buon esito
della domanda di restituzione.
Dopo aver esaminato la sentenza, a margine delle osservazioni che precedono, si noti
che la Convenzione contiene, specie con riguardo alla concreta attuazione degli obblighi
in materia di restituzioni dei beni, norme che, per limiti intrinseci, sono scarsamente
idonee ad ottenere un’applicazione coerente ed efficace all’interno degli ordinamenti
statali, specie in assenza di norme che ne accompagnino e ne facilitino l’esecuzione in
sede d’adattamento.
Tale osservazione può venire in rilievo anche con riguardo all’ordinamento italiano se
si considera che l’adattamento ha avuto luogo tramite ordine d’esecuzione contenuto nella
legge di ratifica che si limita, secondo la formula di rito, a dare “piena ed intera
esecuzione” alla Convenzione medesima senza introdurre ulteriori disposizioni di
completamento.
Non è stata apportata alcuna espressa modifica alle norme ordinarie presenti
nell’ordinamento italiano cui si è accennato in precedenza.
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Solo Canada, Stati Uniti,
Portogallo ed Australia hanno adottato una legge d’esecuzione idonea a completare il
regime previsto dalla Convenzione.
38
Inoltre in una prospettiva più generale non si può non considerare che, al di là delle
cento adesioni finora raggiunte, un notevole limite del testo in esame è rappresentato dal
fatto che abbia ottenuto poche ratifiche da parte degli Stati usualmente noti come grandi
importatori, tra queste spiccano quelle di Francia e Stati Uniti.
1970 in quanto essa non è idonea ad incidere sugli aspetti di diritto privato, e vedi anche CANNADA BARTOLI, Sul
trasferimento di beni fuori commercio nel diritto internazionale privato, in Riv. Dir. Int., 1989, p. 618 ss.
37
La Convenzione dell’UNESCO ha, dunque, carattere non self-executing, la legge che la rende esecutiva in Italia è la
L. 30 ottobre 1975 numero 873.
38
Gli Stati Uniti hanno adottato la Convention on Cultural Property Implementation Act nel 1983, il Canada il Cultural
Property Export and Import Act nel 1975, l’Australia il Protection of Movable Cultural Heritage Act nel 1986 ed il
Portogallo la Legge del 6 luglio 1985.