differenti, quali ad esempio: gli U.S.A. e l'Europa, oltre che l'India, la Thailandia e la
Corea.
L'opera si conclude con il capitolo 3, in esso, viene esposta un'analisi empirica
effetuata su un campione di aziende manifatturiere italiane, la quale, si pone di
verificare la validità di alcune ipotesi relative agli aspetti sin qui discussi: investment-
cash flow sensitivity, Diversificazione ed Internal Capital Market.
Capitolo 1: Le iterazioni tra le scelte di finanziamento e le
decisioni d’investimento per le imprese: “investment-cash
flow sensitivity quale segnale di vincoli finanziari per le
imprese, confronto fra due diverse scuole di pensiero”.
Nel capitolo primo viene proposto un inquadramento teorico dell’argomento trattato
nel presente lavoro; si vuole dunque richiamare la letteratura finanziaria relativa al
tema dell’investment-cash flow sensitivity e i vincoli finanziari partendo dai principali
modelli teorici relativi alle scelte di finanziamento aziendali. Al riguardo i paragrafi
1.1 e 1.2 espongono le principali teorie inerenti la relazione tra le politiche di
finanziamento e le decisioni di investimento: teorema della separazione di Fischer, la
Trade-off e la Pecking order theory. Successivamente nel paragrafo 1.3 si trattano in
maniera dettagliata le determinanti e le conseguenze relative alle principali scelte
d’investimento subottimali (problemi di Overinvestment e Underinvestment) per poi
continuare nel paragrafo 1.4 con la descrizione dei modelli econometrici che spiegano
gli investimenti aziendali e che sono maggiormente utilizzati negli studi empirici
relativi a tale tema. Il resto del capitolo, ovvero i paragrafi 1.5 e 1.6 trattano
rispettivamente la “querelle tra Fazzari et al e Kaplan-Zingales” riguardo
all’investment-cash flow sensitivity quale segnale di vincoli finanziari per le imprese,
seguita da una rassegna delle principali analisi empiriche in linea con i risultati di
Fazzari et al e di Kaplan e Zingales.
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1.1 I fattori finanziari e le politiche d’investimento per le imprese: dal
teorema della separazione di Fischer, alle teorie delle asimmetrie
informative e dei problemi di agenzia.
In letteratura, le interazioni fra le scelte di investimento e di finanziamento, non sono
state sempre riconosciute determinanti ai fini della creazione di valore economico per
l’impresa. Infatti, relativamente a tale tema, è sorta nel corso del tempo un’accesa
diatriba fra più “scuole di pensiero” contrapposte. Il dibattito, si è sviluppato per
diversi decenni a “colpi di modelli”, finalizzati a confutare o a sostenere (a seconda
delle convinzioni dei rispettivi autori) l’esistenza della suddetta relazione e la sua
influenza in termini di creazione di valore.
Effettuando un breve e mirato richiamo dei più importanti contributi proposti in
letteratura, aventi come oggetto la relazione tra le scelte d’investimento e quelle di
finanziamento, bisogna certamente partire dal lavoro di Fisher (1924). Egli, con
l’affermazione del principio della separazione tra le decisioni reali e finanziarie, gettò
le basi per la formulazione dei più importanti modelli neoclassici di finanza.
Il contributo di Fisher, oltre ad essere assunto nei suddetti modelli neoclassici come
premessa iniziale, orientò l’indagine teorica e la ricerca empirica verso l’analisi delle
opportunità di scambio piuttosto che verso le determinanti della domanda e
dell’offerta.
Successivamente, a rafforzare le basi teoriche di quello che ha rappresentato il
paradigma degli studi di finanza per più di un decennio, contribuirono le tesi sostenute
dai due Nobel per l’economia Modigliani e Miller (1958 e 1961).
Questi, approfondendo la relazione tra costo del capitale e gli investimenti, giunsero a
dimostrare, sotto specifiche ipotesi, che il valore di un’ impresa è indipendente dal suo
grado di indebitamento. In tal modo, la teoria dell’investimento neoclassica e la
vastissima ricerca empirica che l’accompagnò, trovarono un più articolato supporto
teorico di quanto non consentisse l’originaria intuizione fisheriana.
Nella costruzione teorica del modello di Modigliani-Miller, l’indipendenza delle
decisioni di investimento da quelle di finanziamento, rappresenta un punto cruciale:
l’accumulazione di beni di capitali da parte delle imprese e il flusso di risorse che
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questa può determinare sono dati ed indipendenti dalla struttura finanziaria. Quindi, le
decisioni finanziarie dell’impresa possono influire sulla distribuzione delle risorse ai
finanziatori solo se l’impresa stessa ha qualche grado di monopolio su tale flusso. Per
escludere questa ipotesi, il modello introduce due condizioni che appaiono tuttavia,
assai lontane dalla realtà: perfezione del mercato dei capitali, cioè tassi di interesse
analoghi per le imprese e per gli azionisti, e assenza di imposizione fiscale. La prima
condizione consente di assumere che gli investitori possono indebitarsi al posto della
società e allo stesso tasso di interesse; possono cioè replicare qualsiasi struttura
finanziaria che l’azienda intende scegliere. In tal modo, il valore di un’impresa è
determinato esclusivamente dalla sua capacità di produrre reddito, quindi, proprio da
quelle scelte di investimento che si sono considerate date.
La stessa scelta del tasso di dividendo, in un simile contesto, perde ogni aspetto
problematico, in quanto, in mercati perfetti le risorse andate a dividendo possono
comunque essere richieste senza aggravi nei costi, ai datori fondi garantendo quindi,
la copertura di eventuali fabbisogni. L’impresa, risulta così essere in una posizione di
indifferenza: anche se dovesse sostituire tutto il proprio debito con patrimonio,
emettendo azioni per un importo corrispondente al debito complessivo, i creditori
rimborsati potrebbero acquistare azioni in modo da ricostruire esattamente lo stesso
reddito precedentemente percepito, e il loro diritto nei confronti dell’impresa
rimarrebbe invariato.
Risulta evidente che al di là della sua eleganza formale, il modello Modigliani-Miller,
è privo di complicazioni di natura finanziaria. Mancano, infatti, la considerazione dei
vantaggi del debito derivanti dalla deducibilità fiscale degli interessi; gli effetti sul
costo effettivo del debito, il cui peso eccessivo, potrebbe comportare un
deterioramento della situazione finanziaria dell’impresa e quindi limitare la sua
capacità di investimento. Va, inoltre, ricordato che debito ed azione si distinguono,
non soltanto per i differenti flussi di reddito cui danno origine, ma anche per i diversi
diritti sulle attività dell’impresa che incorporano.
Tuttavia, a segnare un progresso nella letteratura dello studio sulla relazione esistente
tra le decisioni finanziarie e le scelte d’investimento, interverrà, come vedremo,
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l’assunzione delle asimmetrie informative e dei problemi di agenzia, che, pur
mancando di una teoria rigorosa, di fatto muterà radicalmente le prospettive con il
capovolgimento delle conclusioni di Modigliani-Miller.
A tal proposito, nella prima metà degli anni Ottanta, in risposta alle discusse teorie di
Modigliani e Miller si formò una nuova “scuola di pensiero”.
Alcuni autori, come Myers e Majluf (1984), Stiglitz e Weiss (1981), rimuovendo
l’assunzione tradizionale dei modelli neoclassici, ovvero l’ipotesi di mercati dei
capitali perfetti, dimostrarono l’importanza del ruolo dei fattori finanziari nelle scelte
di investimento aziendali. Il loro lavoro, oltre ad evidenziare come i fattori finanziari
generino distorsioni delle politiche d’investimento a discapito del processo di
creazione del valore aziendale, si concentrò anche, sul diverso impatto che le fonti di
finanziamento interne all’impresa (cash flow) e le fonti esterne (emissione di debito
oppure azioni) esercitano sulle scelte d’investimento. In merito a quest’ultimo
argomento (oggetto del seguente capitolo), si è formato nel corso del tempo un vasto
ed interessante filone della letteratura finanziaria, il quale, ancora oggi anima la
ricerca e il confronto sia nel mondo accademico sia nella stessa comunità finanziaria.
In particolare, la tesi proposta da Myers, Majluf, Stiglitz e Weiss, sostiene che la
presenza di asimmetrie informative e l’incompleta specificazione dei contratti, sono
entrambe all’origine dell’esistenza di barriere di conoscenza fra manager e finanziatori
(creditori e nuovi azionisti). Queste barriere, a loro volta, creano dei conflitti di
interesse tra i manager, a conoscenza delle effettive potenzialità dei progetti
d’investimento aziendali, e i creditori, i quali, subiscono i problemi derivanti
dall’informazione imperfetta. Il perpetuarsi nel tempo di tali conflitti, si riflette nella
richiesta di un maggiore premio per il rischio da parte degli stessi finanziatori dei
progetti d’investimento.
Tutto ciò, provoca per alcune imprese, sia un aumento del costo delle fonti di
finanziamento esterne (debito e nuovo equity), sia l’esistenza di una forte relazione
positiva tra le fonti di finanziamento interne (cash flow) e le politiche d’investimento
aziendale. In tal modo, quest’ultima relazione, tipicamente indicata in letteratura come
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“investment-cash flow sensitivity”, sarebbe generata da problemi di
“sottoinvestimento” (underinvestment).
Un approccio alternativo a quello della teoria delle asimmetrie informative e
dell’incompletezza contrattuale (anch’esso volto ad “esplorare” l’impatto delle
iterazioni tra le scelte di finanziamento e le scelte d’investimento sul valore aziendale),
è quello derivante dai problemi di agenzia.
Secondo Jensen e Meckling (1976), Stulz (1990), Jensen (1986), i manager potrebbero
usare il loro potere discrezionale per scopi opportunistici, piuttosto che, impiegarlo per
conseguire “l’obiettivo teorico” della massimizzazione del valore per gli azionisti. Tale
situazione, è resa possibile in considerazione del fatto che, le rispettive funzioni di
utilità dei manager e degli azionisti, sono diverse in termini di obbiettivi perseguiti.
Infatti, è stato dimostrato che i manager, oltre ad operare in base al criterio guida della
massimizzazione del valore, agiscono anche, spinti dall’intento di massimizzare i loro
benefici privati. Ciò, potrebbe indurli ad impiegare “opportunisticamente” il free cash
flow generato dall’attività d’impresa, in investimenti a valore attuale netto negativo,
pur di incrementare il loro personale livello di benessere. In tal modo, l’esistenza di
un’elevata “investment-cash flow sensitivity”, segnalerebbe problemi di
“sovrainvestimento” (overinvestment).
In letteratura, nel tentativo di dimostrare come l’esistenza di una relazione positiva tra
cash flow e investimenti, possa segnalare l’adozione da parte del management di
politiche d’investimento “subottimali” e l’esistenza di vincoli finanziari, sono state
formulate diverse tesi.
In generale, secondo Fazzari et al (1988), Devereux e Schiantarelli (1990), Hu e
Schiantarelli (1998), Bond et al (2003), sulla base della teoria delle asimmetrie
informative, questi, sostengono che un’elevata investment-cash flow sensitivity,
supporterebbe la presenza di problemi di overinvestment manageriale.
Al contrario, se si considerano le tesi di Lang et al (1996), Lamont (1997), Miguel e
Pindado (2003) e Del Brio et al (2003), basate sulla teoria relativa ai problemi
d’agenzia, un’investment-cash flow sensitivity positiva, potrebbe essere interpretata a
supporto di problemi di underinvestment.
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Dall’analisi di queste ultime due prospettive (asimmetria informativa e discrezionalità
manageriale), è interessante notare come entrambe, pur condividendo l’ipotesi che
all’aumentare dell’indebitamento aumenti il premio richiesto dagli investitori per
effetto di un maggiore rischio di dissesto finanziario, esse, giungono a differenti
implicazioni. Infatti, mentre la teoria delle asimmetrie informative sostiene che il
ricorso al debito in imprese higth-levered, soggette a vincoli finanziari per via delle
imperfezioni dei mercati, accentui il fenomeno dell’underinvestment, la teoria
dell’agenzia, al contrario, afferma che il debito sia in grado di disciplinare il
comportamento del management, aumentando l’efficienza delle politiche
d’investimento e riducendo di conseguenza i problemi di overinvestment.
In oltre, se per la teoria dei vincoli finanziari e delle asimmetrie informative, la
differenza tra il costo delle fonti esterne e il costo delle risorse interne è riconducibile
al fatto che il costo delle fonti esterne è “troppo alto”, per l’ipotesi di discrezionalità
manageriale è il costo delle risorse interne a essere “troppo basso”.
In conclusione, a differenza dei modelli neoclassici, nei quali i fattori finanziari sono
irrilevanti, in questo contesto le decisioni di finanziamento si mostrano determinanti
sul livello di investimento perseguito dalle imprese, nonché sulla capacità del
management di creare valore.
1.2 Gli altri principali modelli teorici che spiegano le scelte finanziarie per
le imprese : la Trade-off e la Pecking order theory.
E’ oramai noto, come dimostrato dai numerosi modelli teorici e dai relativi contributi
empirici successivi alla Proposizione di Irrilevanza di Modigliani-Miller (1958), che,
le scelte finanziarie delle imprese sono rilevanti e correlate con le decisioni di
investimento.
Se si considerasse il solo vantaggio fiscale riguardante il debito e non il capitale netto,
varrebbe la provocatoria conclusione di Modigliani e Miller (1963) in base alla quale,
le imprese dovrebbero finanziarsi unicamente con debito allo scopo di: minimizzare il
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costo del capitale, scegliere i progetti d’investimento ottimali e massimizzare il proprio
valore.
Ovviamente altri fattori, oltre a quello fiscale, sono successivamente stati presi in
considerazione dalla letteratura sulle scelte finanziarie delle imprese.
A seconda delle caratteristiche delle società e del tipo di imperfezioni del mercato dei
capitali prese in esame, è possibile spiegare la struttura del capitale delle imprese,
attraverso due diversi approcci: la Trade-off theory (TO) e la Pecking order theory
(POT). Questi modelli teorici, offrono un’interpretazione delle scelte di finanziamento
delle imprese, differente dalle già discusse teorie delle asimmetrie informative e dei
problemi di agenzia.
La teoria del TO ipotizza che esistano vantaggi e svantaggi associati all’indebitamento
delle società: il trade-off tra benefici e costi determina un livello ottimale di lungo
periodo del rapporto debito-attivo o debito-capitale netto, che, le imprese devono
cercare di raggiungere se vogliono massimizzare la ricchezza dei propri azionisti,
tramite la scelta di progetti d’investimento ottimali.
Diversi sono i contributi attribuibili alla teoria TO. DeAngelo-Masulis (1980),
considerano il vantaggio fiscale offerto dal debito grazie alla deducibilità dal reddito
imponibile degli oneri passivi; chiaramente, un’impresa è tanto più incline ad
indebitarsi quanto più elevato è il suo reddito e quanto minori sono le fonti alternative
di riduzione dell’imponibile, quali, ad esempio, il riporto delle perdite e le quote
d’ammortamento.
Shleifer Vishny (1992), si focalizzano sulla probabilità di dissesto finanziario e sui
costi di liquidazione; essi, infatti, assumono che le imprese scelgano il giusto mix di
finanziamento sulla base di tali criteri, anche se, per le imprese meno redditizie e meno
caratterizzate da attività tangibili e/o facilmente liquidabili questo approccio risulta
poco efficace nello spiegare le loro scelte finanziarie.
Ross (1977), considera i “costi di segnalazione” e suppone che le imprese di alta
qualità indichino al mercato la propria buona performance, indebitandosi
maggiormente rispetto alle imprese di qualità inferiore.
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Jensen-Meckling (1976) e Myers (1977), analizzano i costi di agenzia derivanti dagli
incentivi dei “prenditori di fondi” ad intraprendere azioni contrarie agli interessi dei
creditori. Il rischio morale (moral hazard) assunto da Jensen-Meckling, provoca quello
che è definito in letteratura l’asset-substitution effect o risk shifting; potrebbe accadere
infatti che, una volta ottenuto il prestito, l’imprenditore o i manager decidano di
scegliere un progetto d’investimento più rischioso, e quindi in teoria più redditizio, di
quello che era stato pianificato insieme al creditore e per il quale era stato concesso il
prestito.
Myers, dimostra che l’impegno contrattuale assunto dall’impresa, nel pagare al
creditore parte del surplus generato da un investimento, disincentiva l’imprenditore o i
manager ad impegnarsi in modo ottimale nella gestione dell’attività aziendale. Ciò,
causerebbe alle imprese con maggiori opportunità di crescita, dei problemi di sotto-
investimento.
Jensen (1986), si concentra sui costi di agenzia tra manager, che hanno il controllo del
cash flow dell’impresa, e gli azionisti, che detengono la proprietà dell’impresa. I
manager, sfrutterebbero il loro potere di controllo effettivo del cash flow, allo scopo di
realizzare progetti a proprio vantaggio, in funzione dei quali, si porterebbero le
dimensioni dell’impresa oltre il livello ritenuto ottimale per gli azionisti. I costi di
agenzia, nelle imprese a proprietà diffusa, danno dunque origine a problemi di sovra-
investimento.
In un simile contesto, l’indebitamento assume un ruolo importante nel ridurre la
discrezionalità imprenditoriale e nell’evitare che siano intrapresi progetti
d’investimento non profittevoli; i manager di un’impresa indebitata risultano, infatti,
meno liberi nel disporre a loro piacimento del free cash flow (ovvero del cash flow in
eccesso rispetto alle opportunità d’investimento profittevoli), dal momento che, la
presenza del debito implica un impegno a distribuire parte della liquidità autogenerata
dall’attività d’impresa per saldare i finanziamenti concessi dai creditori.
Riassumendo, la teoria del TO ipotizza che il leverage e le diverse altre variabili
aziendali, siano positivamente o negativamente correlate secondo un determinato
schema; ad esempio, l’aliquota d’imposta societaria, la composizione delle attività e la
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loro redditività, rappresentano proxy dei vantaggi e dei costi del debito, sulla base dei
quali, si determina un livello leverage desiderato di lungo periodo. In generale, le
imprese più profittevoli, che utilizzano poco le quote d’ammortamento per ridurre il
reddito imponibile, che offrono maggiori garanzie e che sono a proprietà diffusa,
hanno un livello di leverage più elevato ed emettono con maggiore frequenza titoli di
debito.
La POT di Myers-Majluf (1984), viceversa, ipotizza che le imprese seguano una
gerarchia finanziaria (pecking order) ed un’ottica di breve periodo nello scegliere la
propria struttura finanziaria.
In sintesi, questo approccio assume che: i fondi interni sono la fonte finanziaria
preferita dalle imprese; non esiste alcun livello desiderato di leverage; il rapporto
d’indebitamento osservabile in ogni impresa riflette semplicemente la necessità che
una determinata impresa ha di finanziarsi esternamente in uno specifico istante.
Inoltre, la POT prende in considerazione il ruolo delle asimmetrie informative tra
imprese e mercati dei capitali; il management, è meglio informato rispetto agli
investitori esterni sul valore delle attività in essere e sulle opportunità d’investimento
dell’azienda. Pertanto, i manager cercheranno di emettere titoli a prezzi più elevati di
quelli che rispecchierebbero l’effettivo valore dell’impresa, allo scopo di massimizzare
la ricchezza degli azionisti esistenti. Il mercato dei capitali anticipa questo tipo di
comportamento: quando un’impresa annuncia la sua intenzione ad emettere titoli,
quindi gli investitori esterni domandano il pagamento di un lemon premium, tanto
maggiore quanto più i titoli che l’impresa intende emettere sono sensibili ai problema
di asimmetria informativa.
Di conseguenza, le imprese seguono una gerarchia finanziaria: i fondi interni sono
preferiti a quelli esterni per finanziare le opportunità d’investimento; se è necessario
ricorrere al finanziamento esterno, le imprese prediligono emettere prima debito poco
rischioso e come ultima alternativa nuove azioni. Al riguardo la POT, assume che gli
aumenti di capitale vengono effettuati solo quando il ricorso al debito risulti troppo
costoso per l’impresa a causa dell’elevata incidenza dei costi relativi alle asimmetrie
informative.
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Pertanto, è chiaro che la teoria POT, a differenza della TO, non preveda l’esistenza di
un leverage ottimale; infatti, il capitale netto è al primo posto della gerarchia
finanziaria solo se deriva da utili trattenuti, viceversa, se deriva dall’emissione di
nuove azioni, inoltre, il rapporto d’indebitamento osservabile in ogni impresa riflette
semplicemente la necessità di finanziarsi esternamente da parte di una specifica
azienda e non altro.
Infine, un ulteriore elemento di distinzione tra il modello TO e quello della POT, è
dato dalla diversa relazione assunta nei due modelli in merito al legame tra la
redditività e il debito; infatti, se per la TO, tale relazione è di segno positivo, per la
POT, essa, assume segno negativo.
La stessa differenza di segni tra i due modelli, si può riscontrare in merito alla
relazione tra gli effetti fiscali, fallimentari, di segnalazione e di conflitto d’interessi
imprenditoriale ed il livello di leverage; infatti, per la TO tale relazione è di segno
negativo, mentre, per la POT non è prevista l’esistenza di una specifica correlazione
tra le suddette variabili.
In ultima analisi, si evidenzia che anche il legame esistente tra il rapporto con le
banche e il livello di debito assunto dalla singola impresa, viene concepito in modo
differente dai due modelli teorici di finanziamento; infatti, secondo la TO il segno
della correlazione tra le due variabili non è previsto, mentre, secondo la POT tale
segno, risulta positivo. Al riguardo, la POT, assume che le imprese più profittevoli e
prive di una stretta e duratura relazione con una o poche banche, ricorrono meno
all’indebitamento bancario e hanno, quindi, un leverage più basso.
Sebbene a prima vista le implicazioni teoriche della TO e della POT, appaiano
contraddittorie, e per alcuni versi non esaustive nello spigare le decisioni di
finanziamento reali delle imprese, entrambe i due modelli sono supportati in
letteratura, da diversi studi empirici.
Di seguito, nella tabella 1.1.1 si riportano i segni delle correlazioni esistenti tra le
principali variabili aziendali ed il livello di leverage, assunti dalla TO e della POT.
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Tabella 1.1.1 correlazioni tra le variabili aziendali e il leverage assunte dalla TO e dalla POT.
Variabili Segno atteso del leverageTO
Segno atteso del leverage
POT
Dimensione + -
Età dell’impresa + -
Attività immateriali - +
Attività materiali + -
Liquidità +
Redditività + -
Costi di agenzia
del debito +/- -
del capitale +
Costi di fallimento -
Asimmetrie informative +
Razionamento ?
Collateral ?
Leverage ?
Banca +
Durata relazione bancaria +
Fonte: nostra elaborazione
1.3 Principali deviazioni dalle politiche d’investimento ottimali: problemi
di Overinvestment e Underinvestment.
Le scelte di investimento e di finanziamento delle imprese, rappresentano due lati della
stessa medaglia; esse, infatti, incidono entrambe in modo significativo sulla gestione
aziendale. La presenza di interazioni fra scelte di finanziamento e di investimento, può
condurre il management a intraprendere decisioni di impiego di risorse finanziarie non
ottimali; tale ipotesi, genera i cosiddetti problemi di Underinvestment e
Overinvestment, argomenti riconducibili al tema della relazione esistente fra la
struttura finanziaria e il valore dell’impresa (La Rocca 2007).
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Il suddetto legame fra le scelte di investimento e di finanziamento, ha da sempre
rappresentato un tema di estrema rilevanza nella letteratura finanziaria, motivo per cui,
merita di essere adeguatamente trattato nel seguente lavoro.
La leva dell’indebitamento, genera oltre ai benefici fiscali, una serie di vincoli ed
incentivi, capaci di “innescare” conflitti d’interesse in merito all’attività di governo
dell’impresa tra manager, azionisti e creditori. Questi conflitti, a loro volta influenzano
direttamente la fase d’identificazione e scelta dei progetti d’investimento, causando
pesanti ricadute sul processo di creazione di valore aziendale.
La presenza di rapporti conflittuali tra i diversi stakeholder dell’impresa, combinata
alle ipotesi di asimmetrie informative e di incompletezza contrattuale, può portare di
fatto il management, ad intraprendere scelte d’investimento subottimali. Tali scelte, si
caratterizzano per il fatto che, non sono dirette a massimizzare il valore dell’impresa,
ma, il benessere di una specifica categoria di soggetti. In particolare, tenendo conto
della configurazione del capitale, la relazione conflittuale fra manager, azionisti e
creditori potrebbe portare i primi ad agire: 1) nel proprio interesse, scegliendo progetti
subottimali senza un tasso di rendimento adeguato ma con una probabilità di
insuccesso molto bassa, ignorando dunque, le preferenze degli azionisti per progetti a
maggior rischio; 2) nell’interesse dell’azionista, effettuando scelte d’investimento
volte a massimizzare il valore dell’equity e non il valore dell’impresa; tale strategia, in
presenza di mercati inefficienti, potrebbe portare a scelte subottimali a danno dei
creditori (La Rocca 2007). Al riguardo, come è ben noto, l’incentivo a massimizzare il
valore dell’equity, non è necessariamente coerente con l’incentivo a massimizzare il
valore dell’impresa (Myers 1977).
Quanto affermato da Myers, trova conferma nel fatto che, il valore degli asset
dell’impresa si scompone in valore dell’equity e valore del debito; dunque, strategie
che riducono il valore del debito, lasciando inalterato il valore dell’impresa,
aumentano il valore del “capitale di rischio”, trasferendo ricchezza dai creditori agli
azionisti. In sintesi, i potenziali conflitti d’interesse fra manager, azionisti e creditori,
determinano un’influenza reciproca fra struttura finanziaria, attività di governo
dell’impresa e politiche d’investimento; questa relazione, potrebbe essere la causa di
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scelte manageriali inefficienti e investimenti “subottimali” generalmente riconducibili
alle categorie di problemi di “sottoinvestimento” (underinvestment) e di
“sovrainvestimento” (overinvestment).
Il seguente paragrafo descrive i problemi di overinvestment e di underinvestment,
evidenziandone: la differente natura dei due tipi di comportamenti opportunistici che
sono all’origine di tali scelte d’investimento subottimali; le determinanti e le loro
conseguenze sul valore aziendale.
Entrando nel merito dell’argomento, bisogna tenere in considerazione che sia i
problemi di overinvestment sia quelli di underinvestment, possono assumere due
differenti configurazioni; infatti, casi di overinvestment, possono manifestarsi sotto
forma di overinvestment manageriale e di overinvestment in progetti rischiosi (risk-
shifting ovvero asset substitution), mentre, problemi di underinvestment, si hanno
sottoforma di debt overhang (underinvestment à la Myers) e risk avoidance.
Di seguito, viene qui esposta l’analisi in letteratura delle suddette varianti di
overinvestment e di underinvestment, tutto ciò, al fine di cogliere il loro legame con
l’oggetto di questo lavoro, ovvero la cosiddetta investment-cash flow sensitivity.
1.3.1 Analisi problemi di Overinvestment.
La tendenza a “sovrainvestire” tipica di alcune imprese, dimostrata in letteratura da
molteplici analisi empiriche, è riconducibile nella quasi totalità dei casi, all’abuso di
potere decisionale che il management esercita riguardo all’adozione delle politiche
d’investimento aziendali. Tale abuso, può portare alla realizzazione di progetti
d’investimento non profittevoli o eccessivamente rischiosi, i quali, a loro volta,
danneggerebbero non solo gli interessi degli azionisti ma anche dei creditori (Jensen e
Meckling 1976, Galai e Masulis 1976, Jensen 1986, Stultz 1990).
Considerando una politica d’impiego delle risorse aziendali ritenuta ottimale, si
possono presentare problemi di “sovrainvestimento” del tipo: I) overinvestment
manageriale, causati dal conflitto di interesse fra manager e azionisti, oppure II)
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overinvestment in progetti rischiosi (risk-shifting ovvero asset substitution), originati
dal conflitto di interesse fra azionisti e creditori.
I) Overinvestment manageriale.
Considerando un’azienda nella quale esiste separazione tra proprietà e controllo, il
problema dell’overinvestment manageriale, trova origine nel conflitto d’interesse che
influenza la relazione d’agenzia tra manager, i quali, esercitano l’effettivo controllo
dell’impresa e gli azionisti, proprietari della stessa (Jensen 1986).
In un contesto di effettiva coincidenza tra proprietà e controllo, il conflitto d’interesse,
riguarda il rapporto tra: azionisti interni, gruppo di comando o imprenditore-manager,
e azionisti esterni, estranei alla gestione dell’impresa (Jensen e Meckling 1976). Infine,
nel caso di imprese indebitate, si ritiene che il problema in questione, interessando la
riduzione di risorse e di valore aziendale ad opera dell’organo di governo, riguardi
anche i rapporti fra azionisti e creditori (Jensen e Meckling 1976, Lyandres e Zhdanov
2003).
In base a quanto detto, è evidente come in letteratura, trova ampio consenso l’ipotesi
secondo la quale, l’origine del problema di overinvestment manageriale, sia
riconducibile all’esistenza di un conflitto d’interesse tra i vari “attori aziendali”.
Questi, a loro volta, vengono “chiamati in causa” in funzione dell’organizzazione
dell’impresa e della sua struttura finanziaria. A tal proposito, risulta interessante capire
la dinamica tramite la quale si esplica il suddetto conflitto d’interesse.
Secondo la tesi proposta da Jensen e Meckling (1976), il principale fattore alla base dei
rapporti conflittuali tra manager ed è dato dal fatto che, tali categorie di soggetti,
possiedono funzioni di utilità diverse l’una dall’altra. Considerando la validità di
questa teoria, è stato dimostrato come i manager, nel tentativo di massimizzare la
propria funzione di utilità, attuerebbero comportamenti opportunistici in grado di
generare politiche d’investimento subottimali e di ridurre quindi, il valore complessivo
dell’impresa.
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