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stato chiaramente compreso all’inizio, esso rappresenta la prima descrizione della
lesione istologica alla base del T1DM: l’insulite. L’insulite è un processo
infiammatorio, che coinvolge le insule di Langerhans, caratterizzato da un
infiltrato linfo-monocitario che inizia nella zona insulare perivasale e si estende
poi a circondare ed invadere l’insula. Durante tale processo le cellule beta-insulari
appaiono il bersaglio ultimo del processo immunitario e diminuiscono
progressivamente di numero finché, al termine del processo lesivo, l’insula risulta
atrofica e costituita esclusivamente da cellule alfa e delta. La distruzione completa
delle cellule beta comporta la successiva scomparsa, nel tempo, dell’infiltrato. È
indubbio quindi che il processo distruttivo immuno-mediato è chiaramente
focalizzato sulla cellula beta-insulare o su suoi componenti.
Altre evidenze in favore dell’ipotesi autoimmune nella patogenesi del
T1DM sono rappresentate dall’associazione della malattia con determinati assetti
genetici, dalla capacità che talune terapie immunosoppressive hanno di modificare
la storia naturale della malattia, dall’associazione con altre malattie a chiara genesi
autoimmunitaria, come la tiroide di Hashimoto, la malattia di Graves, la gastrite
atrofica e il morbo di Addinson, dalla ricorrenza autoimmune della malattia
diabetica su pancreas trapiantato da gemello monocoriale sano a gemello
diabetico, dalla comparsa di T1DM in soggetti sani dopo trapianto di midollo
osseo da donatore diabetico compatibile, ed infine dalla comparsa, nel siero dei
pazienti con T1DM, di anticorpi rivolti contro varie componenti “self” delle cellule
insulari, come sarà più estesamente trattato in seguito. Ma quali fattori inducono la
comparsa di autoimmunità anti-insulare e quali ne condizionano l’evoluzione? Per
rispondere a questi quesiti è necessario comprendere meglio i meccanismi generali
dei processi autoimmuni.
5
L’AUTOIMMUNITA’
È chiaro che la ricerca di singoli fattori genetici o meccanismi “trigger” atti
a spiegare tutte le malattie autoimmuni appare inadeguata, data la complessità
delle interazioni immunologiche alla base di tali processi, la maggior parte delle
quali è, tutt’oggi, poco conosciuta.
Il processo autoimmune coinvolge cellule “immuno-competenti” che sono
passabili di attivazione dopo contatto con appropriati determinati antigenici.
L’esito di tali reazioni non è, però, scontato potendo evolvere verso la
distruzione del target antigenico, verso la proliferazione di cellule “della memoria”
o verso la produzione clonale di anticorpi.
A tale proposito sia le cellule B, responsabili della produzione di anticorpi,
che le cellule T, effettrici della immunità cellulo-mediata, possiedono sulla loro
superficie recettori unici per l’antigene originatisi in seguito ad elaborati processi
di ricombinazione genetica.
Sebbene le cellule T presentino delle affinità con le cellule B nei
meccanismi genetici responsabili della generazione della diversità dei recettori di
superficie, esse differiscono in quanto sono in grado di interagire esclusivamente
con antigeni complessati a molecole di classe I o di classe II del complesso
maggiore di istocompatibilità (MHC) presente sulla superficie delle cellule
presentanti l’antigene (Antigen Presenting Cells: APC). Fig.1
6
Fig.1: Presentazione dell’antigene da parte di una APC, con il peptide nella tasca della
molecola MHC di classe 2 (DP, DQ o DR).
Le cellule T esprimono recettori di superficie complessati a molecole co-
recettoriali denominate CD4, che interagiscono con molecole HLA (il sistema
MHC umano) di classe II, e a co-recettori CD8, che invece interagiscono con
molecole HLA di classe I.
Differenze nelle molecole HLA tra i diversi individui possono essere
responsabili della risposta individuale ad un determinato antigene ed anche della
possibilità di individuare un determinato disordine autoimmune. Ciò è dovuto alla
capacità potenziale del sistema immune di rispondere ad antigeni “estranei”, ma
anche ad antigeni propri, o “self” come vengono più comunemente indicati.
7
In aggiunta alla richiesta di presentazione dell’antigene nel contesto delle molecole
MHC “primo segnale”, le cellule T esigono, per la loro attivazione, la
contemporanea presenza di un “secondo segnale”, mediato dalle cellule presentanti
l’antigene, il segnale costimolatorio.
La mancanza di un appropriato segnale costimolatorio può indurre tolleranza
o energia immunologica verso uno specifico antigene. Questi concetti saranno
approfonditi più avanti (vedi: Anergia in periferia).
Questo rappresenta un efficace meccanismo per prevenire reazioni mediate
dalle cellule T specifiche per antigeni “self”. Pur tuttavia ciò pone il quesito di
come facciano le APC a sapere quando attivare, con un appropriato “secondo
segnale” il linfocita T necessario ad ottenere una determinata risposta immune.
Un linfocita T, appropriatamente attivato da uno specifico antigene,
contribuisce ad innescare la risposta umorale dell’immunità acquisita, mediata dai
linfociti B. L’attività “help” dei linfociti T nei confronti della immunità umorale si
realizza, a livello linfonodale o splenico, quando un linfocita T, antigene-specifico
e attivato, riconosce l’antigene per cui è specifico presentanto in associazione alle
molecole MHC di classe II sulla superficie di un linfocita B il cui recettore
immunoglobulinico ha già riconosciuto ed internalizzato lo stesso patogeno.
Questo fenomeno è chiamato “linked recognition”, o riconoscimento congiunto, e
assicura che le cellule T e B riconoscano lo stesso antigene, anche se non
necessariamente lo stesso epitopo. Questa interazione comporta la up-regulation
del ligando CD40 sulla superficie della cellula T con conseguente produzione di
molecole attivanti il linfocita B, come le interleuchine 4,5 e 6. La combinazione di
questi segnali stimola la cellula B a proliferare e a secernere anticorpi specifici per
lo stesso antigene.
La necessità di questa interazione, per la corretta attivazione di entrambi i
bracci del sistema immune, rappresenta un valido sistema di controllo nei confronti
dell’autoimmunità. Infatti, se una cellula B autoreattiva non incontra una cellula T,
8
specificamente attiva per lo stesso antigene “self”, nessun anticorpo viene
prodotto.
Pur tuttavia l’incontro di un linfocita T attivato, specifico per un antigene “non-
self”, con un linfocita B che ha fagocitato e presentato lo stesso antigene, ma ha
anticorpi specifici per una proteina “self” può portare l’attivazione di quel linfocita
B ed alla produzione di autoanticorpi con conseguente malattia autoimmune.
Tre sono i principali meccanismi attraverso cui il sistema immunitario si
mantiene tollerante agli antigeni “self”: la delezione intratimica dei linfociti
potenzialmente autoreattivi, il mantenimento, in periferia, in condizioni di energia
dei cloni linfocitari sottrarsi alla delezione ed, infine, la soppressione/regolazione
di tali cloni, potenzialmente capaci di mediare l’autoaggressione [1].
DELEZIONE INTRATIMICA
I progenitori dei timociti raggiungono lo spazio subcapsulare del timo come
cellule non esprimenti ancora né il recettore proprio dei linfociti T né le molecole
accessorie CD4 e CD8 (cellule doppiamente negative).
In seguito, migrano più in profondità, nel corteccia timica, acquisiscono per
riarrangiamento genetico il recettore di superficie ed entrambe le molecole
accessorie (cellule doppiamente positive).
L’interazione con le cellule corticali epiteliali timiche, e con il loro
complesso di superficie peptide:molecola HLA di classe I o di classe II, inizia il
processo definito di selezione positiva dei timociti, per effetto del quale
continueranno la maturazione solo i timociti capaci di riconoscere i peptidi
antigenici nel contesto delle proprie molecole HLA, cioè i timociti “ristretti” per il
proprio HLA. I timociti così prodotti, vista la corretta interazione del CD4 con le
molecole HLA di classe II e del CD8 con quelle di classe I, esprimeranno quindi
solo una delle due molecole accessorie: saranno cioè singolarmente positive, o per
CD4 o per CD8.
9
Il processo maturativo continua con l’ulteriore migrazione dei timociti verso
la giunzione corto-midollare. Qui essi vengono in stretto rapporto con alcune
cellule derivate dal midollo osseo (macrofagi e cellule dendritiche) e pienamente
capaci di presentare loro vari peptici antigenici, compresi quelli “self”, nel giusto
contesto HLA. Gli antigeni “self” espressi a livello timico legano le proprie
molecole HLA ad alta affinità e risultano presenti ad alta densità sulla superficie
delle cellule capaci di presentarli ai timociti di maturazione. Quando tali requisiti
vengono soddisfatti i corrispondenti timociti ricevano da tale interazione un
efficace stimolo apoptotico e vengono eliminati.
Questo processo di eliminazione dei timociti potenzialmente autoreattivi
viene definito selezione negativa intratimica e comporta, in modo molto efficace,
la loro delezione. I restanti timociti, correttamente “ristretti” per il proprio HLA e
tolleranti verso il “self”, completano la maturazione e lasciano il timo attraverso i
vasi linfatici e le venule della giunzione cortico-midollare.
Il processo di selezione negativa intratimica rappresenta la maggiore
garanzia contro l’autoimmunità. Pur tuttavia i timociti specifici per antigeni “self”
non espressi a livello timico o quelli che non trovano il corrispondente antigene
“self” espresso con adeguata densità e giusta affinità per le molecole HLA sulla
superficie delle APC (antigen presentino cells: macrofagi e cellule dendritiche)
possono sfuggire a questo processo e comparire in periferia originando, di fatto,
linfociti pienamente autoreattivi.
ENERGIA IN PERIFERIA
Il secondo meccanismo con cui si mantiene la tolleranza verso il “self” è
quindi quello che si attua in periferia nei confronti dei cloni linfocitari autoreattivi
che hanno evitato la delezione intraritmica.
Questi restano normalmente in uno stato di quiescenza. La loro attivazione e
proliferazione, come per ogni linfocita T, non dipende infatti solo dal
10
riconoscimento attraverso il proprio recettore del complesso autoantigene:
molecola HLA per il quale sono specifici (primo segnale), ma anche, e soprattutto,
dal contemporaneo rilascio di un secondo segnale, il segnale costimolatorio, che
solo le APC “professionali” sono in grado di fornire.
Solo da qualche anno si è dimostrato che il secondo segnale, a lungo
ipotizzato sulla base dei dati sperimentali, è dovuto all’interazione della molecola
accessoria di superficie linfocitaria CD28 con le corrispondenti molecole
macrofagiche di superficie B7.1 e B7.2. Solo la contemporanea provvisione dei
due segnali permetterà al linfocita di attivarsi ed iniziare a proliferare. È stata di
recente descritta anche una costimolazione soppressoria, mediata dall’interazione
tra B7 e la molecola di superficie linfocitaria CTLA-4 [2]. Tale interazione
comporta l’attivazione dell’enzima macrofagico indolamica diossigenaasi e la
conseguente deplezione, nel microambiente, di triptofano, con apoptosi del
linfocita.
È quindi chiaro che, se il linfocita autoreattivo incontra l’autoantigene sulla
superficie delle cellule, quali quelle epiteliali, incapaci di fornire il secondo
segnale per l’attivazione, esso resterà quiescente, ignorando la presenza
dell’autoantigene ed il legame ad esso del suo recettore (primo segnale). Evidenza
sperimentale per tale dato viene dalla immunobiologia dei trapianti. È infatti
provato che la eliminazione dai trapianti cellulari delle APC, ottenibile con
particolari procedure colturali, porta al definitivo attecchimento del trapianto in
organismi allogenici in assenza di qualsivoglia terapia antirigetto. A ciò consegue
che la reintroduzione, in tale sistema instabile, delle APC, e quindi del secondo
segnale, porta al pronto rigetto del trapianto.
Questi concetti sono importanti per comprendere il meccanismo
patogenetico, a cui è stato dato il nome di “mimetismo molecolare” (molecular
mimicry), proposto recentemente per spiegare l’associazione che talora si registra
tra l’insorgenza di alcune malattie autoimmuni e certe infezioni virali. Se infatti un
virus condividesse con un auotantigene una determinata sequenza aminoacidica,
11
sarebbe possibile per un linfocita T specifico per quell’autoantigene essere
impiegato dalla corretta presentazione, su un’APC “professionale”, dell’analogo
peptide virale. Una tale interazione, comportando la provvisione contemporanea
del primo e del secondo segnale al linfocita autoreattivo, sarebbe ora capace di
attivarlo “erroneamente”, interrompendo la sua condizione di energia e dando così
origine ad un clone linfocitario autoreattivo potenzialmente patogenico.
In effetti, l’aumento in talune zone dell’incidenza del diabete mellito di tipo
I è stato di volta in volta messo in relazione ad epidemie sostenute dal virus della
rosolia, della parotite epidemica, dal virus coxsackie B4 e da enterovirus. Del tutto
recentemente il virus coxsackie B4 ha dimostrato di condividere una specifica
sequenza aminoacidica, definita P2C, con la glutammicodecarbossilasi (GAD), un
enzima presente nel tessuto nervoso e nelle insule pancreatiche, che molte
osservazioni epidemiologiche e sperimentali inducono a ritenere un autoantigene
chiave nell’autoimmunità anti-insulare.
SOPPRESSIONE/REGOLAZIONE
Per comprendere quest’ultimo meccanismo di protezione dell’immunità,
anch’esso, come l’energia, operante in periferia, bisogna rifarsi ai modelli animali
di autoimmunità.
Il topo NOD (Non Obeso Diabetico) sviluppa spontaneamente mellito
autoimmune estremamente simile, anatomo-patologicamente e clinicamente, alla
malattia umana. In questo ceppo murino la malattia colpisce circa l’80% delle
femmine ed il 40% dei maschi, pur essendo gli individui tutti egualmente
predisposti genericamente all’autoimmunità. È impossibile, nella colonia,
distinguere alla nascita gli animali che diverranno diabetici da quelli che
resteranno euglicemici. Nel 100% dei casi, però, si sviluppa un movimento
immunitario anti-insulare, come dimostra l’insulite, presenti in tutti gli animali
indipendentemente dal sesso. Il differente destino del singolo animale risiede nei
12
caratteri dell’infiltrato. Gli animali che sviluppano il diabete mostrano tutti
un’insulite “distruttiva”, invasiva e destruente, mentre quelli che rimangono
euglicemici mostrano un’insulite “non distruttiva” in cui i linfociti si accumulano
alla periferia dell’insula senza invaderla e danneggiarla. Nel topo NOD, quindi,
tutti gli animali sviluppano autoimmunità anti-insulare, come prevede il loro
patrimonio genetico, ma solo in alcuni di essi tale processo assume i caratteri
distruttivi che portano all’eliminazione delle cellule beta insulari ed alla comparsa
clinica della malattia.
È chiaro che altri fattori, di natura ambientale, modulano e regolano
l’espressione geneticamente determinata dell’autoimmunità, sopprimendo, in
modo casuale, l’evento lesivo finale. Una parte importante in tale processo sembra
essere giocata dal contatto degli animali con microrganismi ambientali o loro
prodotti. Le colonie NOD mantenute in condizioni di sterilità, infatti, presentano
un significativo aumento dell’incidenza del diabete, che al contrario, diminuisce
nelle colonie mantenute in condizioni ambientali di non sterilità. Bisogna quindi
concludere che, in questo modello animale di autoimmunità, una appropriata
stimolazione immunitaria può regolare ciò che è determinato geneticamente,
modificandone l’esito finale. Queste osservazioni hanno ovvie implicazioni
cliniche. Ma come si realizza una simile deviazione immunologica?
Come sopra accennato, i linfociti CD4
+
sono stati divisi, sulla base della
diversa produzione di citochine, in tre sottoclassi denominate Th0 (probabili
precursori cellulari delle altre due sottoclassi), Th1 (linfociti infiammatori) e Th2
(linfociti helper propriamente detti). I Th1 producono interleuchina (IL) 2, IFNγ e
TNFß, mentre i Th2 producono IL-4, IL-5, IL-6 e IL-10. I due tipi cellulari
mediano, in modo reciprocamente esclusivo, risposte immunologiche diverse. I
Th1 sono per lo più coinvolti nelle reazioni cellulomediate del tipo
dell’ipersensibilità ritardata, mentre i Th2 sono responsabili della funzione helper
per i linfociti B ed intervengono quindi nelle risposte anticorpali.
13
Si è ipotizzato che il diabete autoimmune si produca in individui
geneticamente predisposti quando le risposte mediate da Th1 e Th2 non sono
bilanciate. L’adiuvante di Freund (CFA), una sospensione di micobatteri
tubercolari in olio minerale, è capace di bloccare la comparsa del diabete nel topo
NOD. Una singola iniezione di vaccino antitubercolare (BCG) si è dimostrata
egualmente efficace nello stesso modello animale. Gli infiltrati cellulari che si
sviluppano nel topo NOD dopo trattamento con CFA o BCG (insulte non
distruttiva) sono morfologicamente diversi da quelli che sviluppano nell’animale
non trattato (insulite distruttiva). Le lesioni non distruttive, indotte da terapia
adiuvante, sono inoltre caratterizzate da una predominanza di linfociti producenti
IL-4 (Th2), mentre le lesioni distruttive sono caratterizzate da linfociti producenti
per lo più IFNγ (Th1).
Ciò significa che l’espressione o la prevenzione del diabete autoimmune nel topo
NOD dipendono dalla stimolazione appropriata del sistema immunitario da parte
di fattori che alternativamente promuovono l’espansione preferenziale di linfociti
Th1 o Th2. È chiaro infatti che, in un processo patologico di cui gli effettori finali
di danno tissutale sono rappresentati dai linfociti infiammatori Th1, spostare la
bilancia immunologia a favore dell’immunità umorale (Th2) significa prevenire il
danno.
Questo meccanismo regolatorio di soppressione dell’autoimmunità è, al
contrario degli altri sopradescritti, che si realizzano per la “mancanza” di qualcosa
che risulta indispensabile al compimento dell’autoaggressione immunologica,
assolutamente attivo e dominante: i linfociti autoaggressivi sono presenti e
correttamente attivati, ma non possono svolgere il loro compito distruttivo per il
modificarsi delle popolazioni cellulari e delle citochine nella sede del processo
autoimmune.
Nonostante i meccanismi di controllo della risposta immune sopra
menzionati, e prescindendo dalla possibilità, comunque reale, della comparsa in
circolo di cloni linfocitari “proibiti” autoreattivi per mutazioni che scavalchino i
14
normali controlli immunologici, il sistema immune è potenzialmente capace, con
appropriata presentazione, di reagire ad ogni antigene, compresi gli antigeni “self”.
Varie evidenze sperimentali suggeriscono che la perdita di tolleranza verso un
determinato antigene tissutale, e l’infiammazione conseguente alle reazioni
autoimmunitarie innescate, causa la perdita di tolleranza verso altri autoantigeni
dello stesso tessuto. Questi processi comportano l’amplificazione del danno
tissutale autoimmune e la diversificazione di linfociti T e B auoreattivi.
GENETICA DELL’AUTOIMMUNITA’
Il concetto generalmente accettato è che l’autoimmunità si sviluppi su un
substrato di suscettibilità genetica, in particolare in associazione ad una serie di
specifici alleli HLA. È importante notare che lo stesso allele HLA può proteggere
da un disordine autoimmune e può essere associato con una differente malattia
autoimmune. Per esempio l’HLA DR2 è raro nei pazienti con T1DM, ma è
associato con un’altra malattia a chiara patogenesi autoimmunitaria: la sclerosi
multipla [3,4].
Appare chiaro che la suscettibilità legata a specifiche regioni allaliche
dell’HLA non comporta necessariamente lo sviluppo di autoimmunità, ma
influenza la probabilità che specifici disordini autoimmuni si realizzino.
Gli alleli HLA determinano la suscettibilità genetica alla malattia e per
questo possono anche essere definiti “geni della risposta immune”. La loro
capacità di determinare la suscettibilità alla malattia autoimmune può dipendere
dalla capacità di presentare uno specifico autoantigene o, in alternativa, di alterare
lo sviluppo del repertorio T linfocitario, interferendo sui processi di selezione
positiva intratimica. Pur tuttavia la concordanza per le malattie autoimmuni, nei
gemelli monocoriali, non è mai del 100% e varia tra il 30% e il 70% [5,6]. Inoltre
essa è più alta nei gemelli monocoriali che nei familiari HLA-identici. Entrambe
queste osservazioni suggeriscono che altri geni, al di fuori del sistema maggiore di
15
istocompatibilità contribuiscano a determinare la suscettibilità genetica alle
malattie autoimmuni. Nell’uomo per esempio l’autoimmunità è associata a difetti
del complemento nel L.E.S. [7], a polimorfismo dei geni dell’insulina nel T1DM,
con possibile influenza sulla tolleranza verso di essa [8, 9, 10] ed a mutazioni del
gene AIRE (Autoimmune Regulator) sul cromosoma 21, codificante per fattori di
trascrizione, nella sindrome autoimmune poliendocrina di tipo 1.
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INDUZIONE DELL’AUTOIMMUNITA’
Sperimentalmente è possibile ottenere malattie autoimmuni, in modelli
animali, attraverso l’immunizzazione con proteine “self” in adiuvante. Gli
adiuvanti hanno la funzione di attivare aspecificamente le APC. In tal modo è
possibile indurre un modello sperimentale di sclerosi multipla dopo
immunizzazione con la proteina di base della mielina [11].
Una volta che la malattia è stata indotta è possibile trasferirla ad altri animali
trasferendo esclusivamente i linfociti T. Questi dati dimostrano che linfociti
autoreattivi sono normalmente presenti in ogni organismo e che l’immunizzazione
provvede esclusivamente alla espansione dei cloni autoreattivi.
In modelli animali le manipolazioni genetiche ed ambientali del sistema
immune possono portare ad autoimmunità organo-specifica. La timectomia in età
neonatale sembrerebbe provocare autoimmunità attraverso l’eliminazione di
specifiche sottoclassi di linfociti T regolatori [12, 13]. Nonostante le evidenze
sperimentali, resta spesso impossibile determinare il momento “trigger”
dell’autoimmunità. Pur tuttavia ciò è, in alcuni casi, possibile tanto da permettere
una classificazione eziologica dell’autoimmunità (Tab. 1).
Tab. 1: Classificazione eziologica dell’autoimmunità
Classificazione Esempi
Oncogenica Carcinoma ovario e degenerazione cerebellare
Dietetica Gliadina e malattia celiaca
Farmacologia Penicillamina e miastenia gravis
Infettiva Streptococchi e febbre reumatica
Idiopatica Diabete autoimmune
I tumori possono indurre autoimmunità attraverso l’espressione di specifici
autoantigeni. Una delle più note associazioni in tal senso è quella tra il carcinoma
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ovarico e la degenerazione cerebellare. In questo caso la malattia autoimmune, che
si accompagna alla produzione di autoanticorpi specifici per le cellule del Purkinje,
sembra dovuta all’espressione, da parte delle cellule carcinomatose ovariche, di
antigeni correlati alla degenerazione cerebellare e denominati CDR antigens [14].
Altre associazioni note sono quelle tra il pemfigo ed il linfoma e tra la miastenia
grave e il timoma. Questo tipo di autoimmunità “a distanza” è stata definita
autoimmunità “remota”.
La forma di autoimmunità più comune indotta da alimenti è la malattia
celiaca, caratterizzata da produzione di autoanticorpi anti-transglutaminasi e da
marcata infiltrazione linfocitaria dei villi intestinali con loro distruzione.
Alcuni farmaci sono associati ad un largo numero di differenti disordini
autoimmuni. Tra questi la penicillamina, frequentemente associata allo sviluppo di
miastenia grave, pemfigo bolloso, L.E.S., dermatomiosite ed altre patologie
autoimmuni, sembra agire per aptenazione di varie proteine.
L’autoimmunità associata alle infezioni da virus di Epstein-Barr è invece
correlata all’abilità del virus di infettare direttamente la cellula B. Ciò comporta la
stimolazione e la proliferazione di tali linfociti e la conseguente produzione di
anticorpi policlonali i quali, reagendo con antigeni “self”, possono portare alla
malattia.
Oltre ai fattori ambientali “trigger” dell’autoimmunità, altri fattori
ambientali possono invece sopprimere l’autoimmunità in organismi geneticamente
predisposti. Nel topo NOD le infezioni virali o una singola iniezione di adiuvante
di Freund possono prevenire completamente l’autoimmunità anti-insulare.
La presenza di un gran numero di differenti autoanticorpi verso differenti
autoantigeni in ogni singola malattia autoimmune suggerisce che, sebbene si possa
spesso ipotizzare un insulto iniziale che inneschi l’autoimmunità, la risposta
immune d’esordio causa la liberazione di una serie di epitopi antigenici e di
molecole “self” da parte del tessuto interessato, con conseguente amplificazione