4
in ultima istanza quando non c’è una famiglia affidataria disponibile.
Lo scopo di questo approfondimento è cercare di creare un’occasione per pensare alla
comunità in termini diversi, al fine di evidenziare i limiti e le potenzialità che questo
strumento può offrire rispetto ai bisogni evolutivi di un minore, le cui problematicità
non rendono opportuno altre forme di intervento.
La comunità, quindi, verrà considerata come una struttura di convivenza il cui obiettivo
primario è realizzare un’esperienza ricca di stimoli cognitivi, affettivi e relazionali che
possono, e devono, innescare processi di trasformazione positiva nell’individuo.
L’intervento di comunità assume valore proprio perché avviene in una dimensione
sociale che crea uno spazio in cui minore e famiglia possano ripensare alle loro
difficoltà e, insieme agli operatori ricostruire un nuovo rapporto, più sereno e adeguato.
Credo che la migliore dimostrazione per confermare quanto sopra detto sia accostarsi a
questo tipo di servizio, analizzando la sua realtà organizzativa, per due motivazioni:
- la prima è che descrivere la comunità come organizzazione significa
obbligatoriamente riflettere sulla sua stessa struttura e quindi di come essa si
presenta agli individui che la vivono dall’interno, ma anche di come si fa
conoscere (e percepire) dalla società esterna;
- la seconda è che la sua organizzazione determina direttamente la qualità del
lavoro con i minori che ospita e il raggiungimento o meno degli obiettivi che è
chiamata a raggiungere.
Per sviluppare questa tematica ho scelto di strutturare il testo in sei capitoli.
Il primo capitolo è un’introduzione al mondo della comunità attraverso una descrizione
delle caratteristiche generali di questo servizio e dei suoi giovani utenti, della sua storia,
dei principali riferimenti legislativi, delle sue varie tipologie e degli enti gestori.
Il secondo capitolo affronta, invece, il tema delle realtà organizzativa e dei suoi
componenti: l’ambiente, il clima relazionale e il livello immaginario-simbolico. Si tratta
di definire gli elementi che si sono ritenuti esplicativi delle caratteristiche delle
comunità per minori e delle loro peculiarità: tali aspetti saranno gli argomenti sviluppati
ed approfonditi nei tre capitoli successivi.
Il terzo capitolo, pertanto, parla dell’ambiente organizzativo, che rappresenta le
fondamenta della vita comunitaria. Tale aspetto sarà colto nella sua globalità attraverso
5
l’analisi dei suoi componenti: il luogo, il tempo, le persone, i fini, l’assetto normativo, la
tecnologia, il rapporto con il territorio.
Il quarto capitolo sviluppa il tema del clima organizzativo, in cui si cercherà di far
cogliere l’importanza essenziale dell’aspetto relazionale nella vita comunitaria.
I rapporti tra educatori, minori, famiglie d’origine e gli altri servizi, infatti, giocano un
ruolo importante per uno sviluppo adeguato del minore, nell’intervento della comunità e
del suo clima interno.
Il livello immaginario-simbolico è l’argomento del quinto capitolo e riguarda il ruolo di
guida e influenza che le idee, le aspettative, l’immaginario collettivo circa la comunità
giocano nel determinare il modo di lavorare e di interagire della struttura sia al suo
interno, che con il resto del territorio.
Il sesto capitolo tratterà della stretta relazione tra le caratteristiche dell’organizzazione e
la qualità del servizio dato fornito dalle comunità. Tale riflessione andrà oltre la
questione normativa dell’accreditamento, per porre la necessità di un’adeguata
autovalutazione come valore etico nell’interesse dei minori accolti.
Fatte queste premesse, mi auguro che questo mio lavoro riesca a risaltare il valore di
questo strumento nel difficile percorso di tutela dei minori in difficoltà.
6
CAPITOLO 1
LE COMUNITÀ PER MINORI:
UNA PANORAMICA GENERALE
Prima di addentrarsi nello studio delle comunità per minori intese come organizzazioni,
è utile avvicinarsi a questo mondo tracciandone prima una panoramica generale.
Essa servirà per delineare meglio il contesto più ampio in cui la realtà organizzativa di
queste strutture va ad inserirsi.
1.1 Comunità per minori: una definizione
Sinteticamente possiamo definire una comunità come un luogo, in genere una casa o un
appartamento, in cui un gruppo di ragazzi e/o bambini, di solito non più di una decina,
vivono insieme ad alcuni adulti, mediamente quattro o cinque. In alcuni casi i ragazzi
vivono stabilmente in comunità , in altri casi rientrano in famiglia uno o più giorni la
settimana. Allo stesso modo ci sono realtà in cui gli adulti abitano nella comunità e altre
in cui gli adulti lavorano nella comunità e hanno una casa propria, esterna alla
comunità.
1
Una comunità di accoglienza è un ambiente di vita che intende rispondere ai bisogni di
minori temporaneamente allontanati dal loro nucleo familiare, garantendo un luogo di
vita e di relazioni in cui essi possano trovare risposte personalizzate al loro diritto ad
una crescita equilibrata e tutto il sostegno di cui ogni minore normalmente necessita per
affrontare i suoi compiti di crescita.
La comunità è in genere un luogo di passaggio e, pur se nel quotidiano svolge compiti e
funzioni di sostituzione dei genitori naturali, non intende prenderne il posto, e sostiene,
invece, nel bambino l’appartenenza alla sua famiglia.
Nella gestione dei progetti d’intervento, relativi ai minori che ospita , la comunità si
colloca nella rete dei servizi che a vario titolo si occupano di tutela minorile e con essi
collabora in maniera coordinata e sinergica.
Gli obiettivi che la comunità si prefigge possono essere intesi, fondamentalmente, come
processi evolutivi, e a questo riguardo essa si connota come:
1
L.Babolin, S. Bartellini, C. Figini, G.Gabrielli, G.Izzo, J. Toffanin, Il sapere e il sapore. Le comunità di
accoglienza per minori, Edizioni Paoline, Milano 2000 pp .68-69
7
- un luogo per la costruzione dell’identità personale, nel quale si cerca di dare
continuità alla storia del bambino, aiutandolo a dare significato a ciò che è stato,
e a costruire nuovi significati per il presente e per il futuro;
- un luogo per la costruzione dell’identità sociale, nel quale costruire relazioni
significative sul piano del riconoscimento di se stesso e degli altri;
- un luogo per la ridefinizione del rapporto con l’ambiente. In comunità il
bambino può imparare ad appartenere alla sua famiglia senza esserne sovrastato,
senza soccombere di fronte ai problemi che essa esprime e senza soggiacere alla
sua incapacità educativa.
La vita di chi abita e costituisce la comunità non si esaurisce all’interno della stessa :
ognuno ha le sue attività, i suoi luoghi, le sue relazioni all’esterno della comunità . Per
questo in comunità si fa molta attenzione a valorizzare le altre risorse educative di cui
dispone il bambino, a partire da quelle d’importanza fondamentale, presenti nella sua
famiglia, fino a tutti quei rapporti positivi che il bambino riesce a intessere partecipando
alla vita scolastica e alle opportunità offerte dalla vita sociale del territorio.
L’apertura della comunità all’esterno si esprime anche in un altro senso: la comunità si
pone come occasione per far sviluppare una maggiore attenzione alle problematiche
minorili, favorendo riflessioni e consapevolezza, proponendo e collaborando
all’attuazione di interventi preventivi al disagio, affiancando e sostenendo altre forme di
solidarietà.
2
1.2 I minori che risiedono nelle comunità
La famiglia è il primo luogo in cui l’individuo può vivere esperienze di relazione
interpersonali fondamentali per l’incontro con il mondo esterno. La sua matrice
simbolica è formata da qualità relazionali basilari poste sul versante affettivo ed etico.
La famiglia, infatti, è il luogo per eccellenza del legame affettivo, nonché il luogo
generativo di responsabilità che viene conferita e che deve essere assunta.
Ma non sempre la famiglia riesce a mettere in atto queste sue qualità peculiari a
vantaggio di sé e dei suoi membri, o perché sono insufficienti o perché, per cause
diverse, sono corrotte.
3
2
L.Babolin, S. Bartellini, C. Figini, G.Gabrielli, G.Izzo, J. Toffanin, op.cit. pg.70-71
3
L.Sanicola, Il dono della famiglia, Edizioni Paoline, Milano 2002, pg. 22.
8
Si parla in questi casi di situazioni problematiche di abuso o maltrattamento all’infanzia.
L'espressione "abuso di minore" comprende varie categorie di atti, quasi sempre violenti
(che tuttavia non sempre si configurano come un reato), che possono provocare danni
fisici o psichici.
4
In particolare per maltrattamento s’intendono gli atti e le carenze che turbano
gravemente il bambino, attentano alla sua integrità corporea, al suo sviluppo fisico,
affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di
ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura
del bambino.
5
Si possono individuare varie forme di maltrattamento: violenza fisica, psicologica,
abuso sessuale, grave trascuratezza e disagio/devianza sociale.
Altra forma di violenza è l’abbandono vero e proprio e i casi di minori stranieri non
accompagnati.
Il percorso di protezione e tutela dei bambini e dei ragazzi nelle situazioni di rischio e
pregiudizio, nonché i rapporti e le competenze tra i vari servizi coinvolti, si articola in
cinque fasi principali.
La prima fase è relativa all’informazione, cioè alle modalità e ai contenuti di possibili
segnalazioni dirette ai servizi di tutela dei minori d’età e provenienti da altri soggetti
individuali (cittadini) e collettivi (scuole, altri servizi, associazioni, etc.).
La seconda fase riguarda la stima dell’informazione ricevuta, vale a dire i
comportamenti da adottare per valutare la notizia acquisita e le conseguenti azioni da
intraprendere, che dipenderanno dal contenuto appreso.
La terza concerne la diagnosi e gli interventi di sostegno, da proteggere e realizzare, in
connessione con le risorse individuali e familiari presenti o attivabili, per contenere e
superare la situazione di pregiudizio per il minore d’età. Ciò senza intraprendere il
percorso conflittuale con il ricorso all’Autorità giudiziaria.
La quarta fase considera la compatibilità dell’intervento con il complesso dei poteri, dei
doveri e delle responsabilità che la legge attribuisce ai genitori nei confronti dei figli.
Ciò in relazione all’opportunità di segnalare il caso all’Autorità giudiziaria, ovvero alla
doverosità della segnalazione stessa in quanto obbligatoria.
4
Microsoft® Encarta® Enciclopedia, Enciclopedia plus, © 1993-2002 Microsoft Corporation
5
Colloquio criminologico, Consiglio d’Europa, Strasburgo 1978 in A.Campanini, Maltrattamento all’infanzia,
Nuova Italia Scientifica, Milano 1993
9
Infine, la quinta dimensione richiama le competenze e le attività di monitoraggio e di
vigilanza, soprattutto in riferimento ai bambini e ai ragazzi allontanati dalla loro
famiglia e affidati a famiglie affidatarie o inseriti in comunità residenziali.
6
Le comunità d’accoglienza nascono così per rispondere a situazioni di disagio familiare,
caratterizzate dalla presenza di bambini o ragazzi per la quale non è sufficiente ricorrere
ad interventi di tipo domiciliare nei casi meno gravi e per i quali il Tribunale per i
Minorenni e i servizi sociali provvedono ad allontanarli dalla loro famiglia d’origine
con l’obiettivo di tutelarne la crescita, l’educazione, lo sviluppo sereno ed equilibrato.
L’allontanamento può avvenire con affido consensuale dei genitori o con
provvedimento giudiziale anche contro la volontà della famiglia.
L’affido costituisce senz’altro lo strumento privilegiato per rispondere, laddove la
situazione lo consenta, ai bisogni di quei minori che vivono un allontanamento
temporaneo: una famiglia affidataria è quanto di più similare a una famiglia si possa
pensare e può garantire al minore l’ambiente di cui ha bisogno per crescere, senza
precludere il mantenimento dei suoi legami più importanti. Sicuro è che una famiglia
affidataria è l’ideale per bambini particolarmente piccoli e/o bisognosi di particolari
attenzioni.
Va invece detto che altri minori hanno bisogno proprio di una permanenza in comunità,
che con le sue particolari relazioni interne normative e modalità educative può aiutarli
ad una riappropriazione di sé e del senso della loro vita.
In quel momento essi devono essere allontanati dalla loro famiglia e dal loro ambiente e
anche una destinazione ad un affidamento eterofamiliare non sarebbe fatta per loro.
Alcuni minori, infatti, per i loro problemi legati a storie ed esperienze familiari
travagliate o patologiche non sopporterebbero di andare in un’altra famiglia oppure
perché appare improbabile che ci sia una famiglia accogliente e sana che con le
modalità di vita proprie della famiglia sia in grado di supportarli e contenerli.
Un particolare ruolo lo hanno le comunità che intervengono per situazioni di emergenza
e come luogo di misura penale per minori autori di reato.
Perciò non si deve essere costretti a scegliere fra permanenza in famiglia, affidamento
familiare o accoglienza in comunità in relazione a ciò che si ha disposizione, ma tenere
presente quale risorsa può essere più utile in quel momento per quel minore. Occorre
6
Regione del Veneto, La presa in carico, la segnalazione e la vigilanza. Linee guida 2005 per i servizi sociali e
sociosanitari, Venezia 2005, pg. 27
10
soprattutto riscoprire in positivo il significato della scelta della destinazione di un
minore in comunità, allo scopo di vedere caso per caso se per quel minore il modello di
convivenza comunitaria costituisce la modalità educativa più propria.
7
1.3 Evoluzione storico-legislativa delle comunità per minori
L’evoluzione delle risposte ai bisogni dei minori in difficoltà nel nostro Paese può
essere letta attraverso due linee di tendenza che s’intersecano:
8
- dall’assistenza all’educazione;
- dallo Stato agli enti locali;
La prima tendenza segnala come la presa di consapevolezza dei bisogni dei minori
abbia via via spostato l’attenzione da quelli relativi all’assistenza verso quelli riferiti
all’incremento di sviluppo della personalità. In questo cammino si può individuare
anche l’evoluzione delle strutture residenziali preposte alla risposta.
Esso si può leggere in termini d’individualizzazione sempre maggiore dell’intervento
passando dai tradizionali istituti alle comunità.
La seconda tendenza, invece, segue l’evoluzione delle politiche sociali nel settore e
vede il passaggio da un ruolo predominante dello Stato all’assunzione di sempre
maggiori competenze da parte degli enti locali, fino ad arrivare, nel corso degli ultimi
anni, ad un’interessante integrazione di questi soggetti. Lo sfondo, rispetto ad entrambe
le linee di tendenza di quest’evoluzione, è offerto dal dibattito politico-culturale-
pedagogico sviluppatosi nel nostro Paese intorno ai temi dell’infanzia e
dell’adolescenza, particolarmente con riferimento alle situazioni di disagio familiare.
1.3.1 Nascita ed evoluzione delle Comunità per minori
Sino agli anni ’60 il collocamento di un minore al di fuori della sua famiglia d’origine si
risolveva essenzialmente nel suo inserimento in istituto. L’istituzionalizzazione
rappresentava, infatti, l’intervento prioritario di protezione dei minori: di fronte alla
compromissione delle condizioni familiari, fossero di tipo economico o morale,
proteggere il minore significava allontanarlo definitivamente da quel contesto per
procurargli condizioni di vita più adeguate.
7
P. Pazé, Le comunità per i diritti del minore, Minori e Giustizia n.1/1997, FrancoAngeli, Milano
8
C.Girelli, M.Achille, Da istituto per minori a comunità educative, Erickson, Trento 2000, pg. 29-30
11
Questo intervento, sino a quegli anni piuttosto diffuso, era quindi di tipo protettivo e
sostitutivo, mirato cioè ad assicurare al minore la sopravvivenza fisica (fornendogli
vitto, alloggio e tutela alla salute) e garantirgli quell’educazione che la sua famiglia non
riusciva a dargli.
In questo senso, si può dire che gli istituti assolvessero essenzialmente, nei confronti del
minore, funzioni di assistenza (nei termini di custodia e accudimento) e di educazione,
in sostituzione dei genitori.
Un istituto poteva ospitare alle proprie interne centinaia di minori, con un rapporto
personale/bambino anche di 1 a 40.
Gli istituti per l’infanzia determinavano nei loro assistiti uno stato di separatezza
rispetto al mondo esterno, che non è certo la migliore condizione per assicurare una
crescita serena ed equilibrata.
La durezza propria di tal genere di istituzioni, l’appiattimento delle soggettività dei
singoli utenti, la burocrazia interna, l’arbitrarietà dei criteri d’accoglienza e di
dimissione e soprattutto, come già notato, la rigida separazione rispetto all’ambiente
esterno, hanno fatto sì che anche gli istituti per l’infanzia incorressero in un severo
processo di riconsiderazione critica.
9
1.3.2 Il processo di deistituzionalizzazione e nascita delle comunità d’accoglienza
Verso la fine degli anni ‘60, il diffondersi della critica alle istituzioni totalizzanti e della
consapevolezza del bisogno di vicinanza genitoriale e di affetto come fondamento della
crescita psicologica verso una personalità adulta e integrata, ha determinato una
significativa svolta nel processo di deistituzionalizzazione.
Si è riconosciuta la necessità di creare condizioni di accoglienza dei minori che
superassero la spersonalizzazione tipica del ricovero nelle grandi strutture, diffondendo
una cultura dell’accoglienza in comunità a dimensione familiare, in grado di svolgere le
funzioni di assistenza e di educazione dei minori all’interno di relazioni significative
con le figure adulte attraverso una progettualità educativa individualizzata.
Gli anni ’70 sono quelli che vedono il diffondersi delle prime esperienze di questo tipo,
accanto all’avvio di una drastica riduzione del numero di minori collocati al di fuori
9
M.G Ruggiano, L’infanzia perduta per sempre e il superamento degli istituti di assistenza, Minori e Giustizia
n.1/1997, FrancoAngeli, Milano
12
della loro famiglia: negli anni successivi si passa, infatti, dai circa 200.000 rilevati
all’inizio degli anni ’70, ai circa 15.000 riscontrati dal censimento del 1998.
10
Il diffondersi, a partire da quegli anni, di esperienze anche molto diversificate tra loro,
ha determinato una diffusa cultura dell’accoglienza, che sempre più privilegia ed
enfatizza gli aspetti educativi, rispetto a quelli, comunque essenziali, dell’assistenza.
1.3.3 La svolta degli anni ’80 e ‘90
Negli anni ’80 si assiste al superamento del concetto di protezione dell’infanzia, con
l’introduzione del più ampio concetto di tutela del minore.
Si viene così a sottolineare l’intento di privilegiare la dimensione della temporaneità
dell’accoglimento: si pensa alle comunità per minori come luoghi di transito
professionalizzato, e all’allontanamento da casa non più come intervento conclusivo,
ma piuttosto come avvio di un processo di intervento sul minore e la sua famiglia.
Le comunità sono così chiamate ad intervenire sempre di più in situazioni estreme,
legate essenzialmente a fenomeni di maltrattamento intrafamiliare nelle sue varie forme.
Verso la metà degli anni ’80, perciò, hanno così origine esperienze specifiche di
comunità che al taglio educativo dell’intervento affiancano, privilegiandolo, quello
tutelare, inteso come integrazione tra gli aspetti protettivi e quelli di valutazione delle
future prospettive di vita del minore.
Queste comunità costituiscono un’esperienza pilota rispetto al ruolo delle strutture
residenziali per minori negli interventi sui casi di maltrattamento.
Punto centrale dell’agire della comunità diventa l’adattamento dell’intervento
individualizzato di tutela del minore all’interno di un progetto globale di comunità più
specificatamente educativo e che, come tale, meglio si adegua ad una fase successiva
del processo d’intervento, tendente a sostenere una funzione di sostituzione/integrazione
alla famiglia d’origine.
All’inizio degli anni ’90 nascono i due principali coordinamenti nazionali delle
comunità per minori: il CNCM (Coordinamento nazionale comunità per minori di tipo
familiare) e CNCA (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza).
10
A.Angeli, Le comunità per minori: un servizio in evoluzione, Animazione sociale n.12/2001 pg.18-25.