(Mohammed Atta, il presunto capo degli attentatori, si era laureato presso l’università di
Amburgo).
Il termine šahīd (pl. šuhada, martire), indica “colui che rende testimonianza”, “colui
che attesta” la propria fede verso Allah. Lo šhahīd è anche colui che muore in
combattimento per l’affermazione della propria fede. Sacrificando la sua stessa vita per
la religione, diventa un paradigma meritevole di stima, un modello da imitare. Con il
termine istišādī (pl. istišādiyyūn), si indica invece il martire che si sacrifica
consapevolmente al martirio.
Il concetto di martirio può essere compreso solo alla luce di un altro concetto islamico
al quale è strettamente legato: il ğihād.
Il ğihād è, infatti, il supporto ideologico delle operazioni di martirio. Il termine è entrato
prepotentemente a far parte del linguaggio comune con una connotazione piuttosto
negativa. Viene infatti tradotto scorrettamente con l’espressione “guerra santa”
(espressione che tra l’altro non appartiene al mondo islamico, ma a quello cristiano).
Quest’uso scorretto e riduttivo del vocabolo pone l’accento esclusivamente sulla sua
natura violenta e guerriera, senza tener conto del fatto che in realtà il termine possiede
una serie di significati molto più complessi, oltre che designare atteggiamenti
completamente dissimili tra loro.
Ğihad deriva dal verbo ğahāda che significa, letteralmente, “sforzo immane”, impegno
lungo la via di Allah. Secondo la tradizione classica il credente può intraprendere
quattro tipi di ğihād: “con il cuore” (o animo), “con la lingua” (o parola), “con le mani”,
oppure “con la spada”.
La teoria classica del ğihād distingue il grande ğihād (ğihād al-akbar), inteso come lotta
interiore, come purificazione dell’anima corrotta da sentimenti superficiali che non
devono essere però totalmente annullati, ma temperati e disciplinati in modo tale da
raggiungere uno stato di armonia interiore, dal piccolo ğihād (ğihād al-asğar) inteso
come lotta contro gli empi (quella che noi conosciamo come “guerra santa”).
Il martirio è, dunque, la lotta sulla via di Allah condotta dal credente con lo scopo di
testimoniare la veridicità della propria fede agli occhi di Dio e che culmina, nel caso
dello šahīd, con la “morte sacra”.
Il supporto ideologico e religioso del ğihād è fondamentale, poiché attraverso la
garanzia dell’approvazione divina (oltre che della ricompensa paradisiaca), e la
6
convinzione che l’atto sia condotto per una giusta causa, il potenziale martire riesce a
superare la paura della morte.
Lo scopo della mia tesi è spiegare il fenomeno dei martiri suicidi in modo obbiettivo e
chiaro, cercando di non cadere in facili semplificazioni e mettendo soprattutto in rilievo
le diverse motivazioni (la componente religiosa è indubbiamente presente ma non è
l’unica), che possono spingere individui, provenienti da contesti sociali, storici e
culturali, spesso completamente differenti tra loro, a compiere lo stesso terribile atto.
Il mio lavoro è articolato in tre parti: la prima parte è dedicata al martirio nell’islām
classico (il cui prototipo è rappresentato dalla figura dell’imām Husayn, nipote di
Muhammad, morto nella battaglia di Karbalā contro l’esercito omayyade), e al martirio
nell’islām medievale (rappresentato dagli hashīshīyyun o Assassini che seminarono il
terrore nel mondo musulmano sunnita compiendo una serie di omicidi-suicidi mirati).
La seconda parte è dedicata al concetto di ğihād e ai suoi diversi significati e ad una
serie di personaggi storici che sono considerati i “padri ispiratori del ğihād” (Ibn ‘abd-
al-Wahhab, Muhammad ‘Abduh, Rashid Ridā, Hasan al-Banna’, Abu al-A‘la al-
Mawdūdī, Sayyid Qutb e Ruhollah Khomeinī).
La terza parte della tesi è dedicata al concetto di šahīd e di šahāda (testimonianza); alle
logiche che stanno alla base del terrorismo suicida (strategica, sociale ed individuale);
ed infine alle organizzazioni del terrorismo suicida, a partire dal modello Bassiğe
iraniano, passando per Hamas, Hezbollah e al-Qa‘ida, fino a giungere al fenomeno
delle martiri palestinesi e cecene.
7
CAPITOLO I - IL MARTIRIO NELL’ISLAM CLASSICO E
NELL’ISLAM MEDIOEVALE
1.1La lotta per la presa del potere: i primi contrasti in seguito alla morte di
Muhammad e il periodo dei califfi “Ben guidati”
La morte del Profeta Muhammad, avvenuta l’8 giugno del 632, portò la giovane
comunità musulmana ad affrontare una serie di difficoltà dovute al fatto che lui stesso
trascurò l’importante compito di stabilire preventivamente la propria successione. La
comunità si trovò quindi senza una guida, senza un punto di riferimento cui demandare
sia le questioni laiche e civili come ad esempio gli affari economici, militari e politici,
sia le questioni più prettamente religiose o spirituali, quali ad esempio l’interpretazione
del messaggio divino o la codificazione degli atti di culto. Inoltre la non omogeneità che
la caratterizzava comportò l’esistenza di opinioni divergenti in diversi campi che
sfociavano facilmente in veri e propri scontri. Le divergenze più accese sorsero quando
si trattò di stabilire le modalità della successione.
Tutti però si trovarono in sintonia su due punti essenziali: l’esistenza stessa della
comunità era legata alla presenza di una guida efficiente e capace in tutti i campi e,
essendo Muhammad il “Sigillo dei Profeti”, il suo successore non avrebbe
assolutamente avuto nessuna caratteristica profetica. L’importanza della scelta di una
guida inoltre era avvallata dallo stesso Corano il quale recitava: «O voi che credete,
obbedite ad Allah e al messaggero e a coloro di voi che hanno l’autorità».
2
(Corano
4/59)
La situazione si aggravò ulteriormente in quanto ricomparvero le antiche rivalità tribali
e presero vita i primi fenomeni di apostasia (ridda), soprattutto da parte delle comunità
beduine la cui islamizzazione fu un fatto superficiale, in quanto la scelta di aderire alla
nuova religione avvenne più per convenienza politica che per una sincera adesione
all’Islam. Insomma la neonata comunità musulmana sembrò inizialmente cadere a
pezzi. In questo contesto di vacanza di potere emerse la figura di Abū Bakr, membro
2
Alessandro Bausani, Il Corano, Sansoni, Firenze, 1961.
8
della tribù dei Quraiš ( la stessa di Muhammad), fedele compagno del Profeta sin dai
tempi della rivelazione, nonché suo suocero, in quanto Muhammad aveva sposato la
figlia Āiša. La sua elezione, avvenuta nelle ore successive alla morte del Profeta, venne
ad essere riconosciuta mal volentieri da parte del gruppo degli “ausiliari”
3
medinesi
(ansār), i quali non accettarono il primato degli “emigranti” meccani (muhāgirūn) che
erano stati i primi e più fedeli Compagni del Profeta. Altri sostennero la non legittimità
di tale elezione, poiché era avvenuta senza la presenza dei familiari più stretti del
Profeta, impegnati nei preparativi della cerimonia funebre, resa ancor più inaccettabile
in quanto solo nella diretta discendenza del Profeta si sarebbe dovuto scegliere il suo
successore. Eliminate le obiezioni degli ausiliari, gli indirizzi che prevalsero furono due:
quello di coloro i quali propugnavano un criterio elettivo basato sul merito che tenesse
comunque conto della leadership dei Quraiš, e quello invece di coloro che difendevano
la discendenza dei familiari del Profeta
4
, della cosiddetta “Gente della Casa” (ahl al-
bayt). Nonostante ciò Abū Bakr, detto “il veritiero” (as-siddiq), dichiarò sin da subito la
sua intenzione di seguire la Sunna
5
(consuetudine o regola di condotta) e riuscì, grazie
soprattutto al suo carisma, alla sua forza e alla sua intelligenza, a reprimere le velleità
scissionistiche delle tribù beduine e calmare gli animi più inquieti. Apparve, infatti,
necessario far capire a tutti che i rapporti tra gli uomini erano ormai cambiati, in quanto
ai legami di sangue e agli accordi tribali si era sostituito il vincolo nella comune fede
verso Allah
6
. Abū Bakr nominato intanto Khalīfa
7
( califfo o vicario) del Profeta portò
avanti una serie di spedizioni punitive chiamate guerre della secessione (hurūb al-
ridda), in seguito alle quali riuscì a sottomettere le tribù beduine ed ad imporre loro il
3
Medinesi convertiti alla fede islamica.
4
Tale tendenza inizialmente non si concretizzò in una precisa opposizione, solo successivamente si
trasformò in una vera e propria fazione che diede vita al partito di ‘Alì (shī‘a‘Alī).
5
Con il termine Sunna s’intendono i detti e i fatti più significativi del Profeta, cioè la “Sunna del Profeta”
(Sunnat an-nabī). Attraverso il suo comportamento Maometto ha in qualche modo rappresentato il
prosieguo della rivelazione essendo l’unico interprete del messaggio divino, diventando in tal modo un
esempio autorevole per tutti i credenti. L’insieme dei detti e fatti del Profeta vennero poi raccolti e
considerati come vere e proprie norme giuridiche, religiose e sociali. La narrazione del fatto era
accompagnata dalla citazione del nome di colui che per primo l’aveva raccontato e da chi costui l’aveva
appreso, fino a giungere allo stesso Profeta o ai suoi Compagni. In questo modo nascevano gli Hadit
(nuova notizia), ossia tutti quegli aneddoti che avevano come protagonista Maometto e il suo esempio in
ogni particolare della sua vita. Per tutto ciò per cui il Corano non aveva fissato norme, il musulmano
trovava ora negli Hadit degli esempi concreti e delle regole.
6
Ventura Alberto, L’islam sunnita nel periodo classico (VII-XVI secolo),in Giovanni Filoramo (a cura di),
Islam, Editori Laterza, Roma, 2002, p. 81.
7
Alla guida di diritto da parte del Profeta in qualità di ricevente ed esecutore del messaggio divino,
succede la direzione di diritto attraverso il sostituto del profeta. Da questo momento in poi esiste solo un’
autorità umana derivata senza qualità profetiche, cioè un autorità politica e giuridica.
9
pagamento di una tassa, stabilendo l’islam anche oltre i territori già sotto diretto
controllo di Muhammad. Per evitare un’ennesima crisi politica Abū Bakr scelse il suo
successore prima della sua morte, avvenuta nel 634, nella persona di Umar ibn al-
Khattab, anch’egli vecchio compagno di Muhammad, suo suocero (attraverso sua figlia
Hafsa), nonché suo fidato consigliere. Il secondo califfo, famoso per il suo forte senso
di giustizia e per la sua devozione, si fece chiamare non solo “successore dell’inviato di
Dio” (khalīfat rasūl Allāh), come Abū Bakr, ma anche “comandante dei fedeli”(amīr al-
mu’minīn), unendo in questo modo all’autorità tradizionale del capo tribù l’autorità del
capo supremo della comunità
8
. Sotto il suo governo vi furono importanti innovazioni
dal punto di vista giuridico, con l’introduzione di nuove figure (ad esempio il giudice o
qadi) e di una nuova regolamentazione
9
tra musulmani e non musulmani (le cosiddette
“Genti del Libro”) nei territori di nuova conquista. Umar, dopo appena dieci anni di
governo morì improvvisamente, assassinato da un suo schiavo. Il suo posto fu preso nel
644 da ‘Utmān ibn ‘Affān
10
, un ricco commerciante proveniente dalla famiglia meccana
degli Umayya (Banū Umayya), legato al Profeta in quanto suo genero. Il terzo califfo
incontrò durante il suo governo innumerevoli contestazioni dovute sia al fatto che egli
non proseguì la politica estera di conquista, sia al fatto che interruppe la direzione
politica interna portata avanti dal suo predecessore, basata soprattutto sulla tolleranza
nei confronti dei non musulmani e sullo sviluppo dell’apparato burocratico-
amministrativo e fiscale. La disaffezione nei suoi confronti crebbe ancor di più nel
momento in cui fu palese agli occhi di tutti che egli privilegiava gli interessi dei soli
membri della sua famiglia e quelli di altre ricche famiglie meccane (i cui membri
diventarono governatori mostrando in molti casi la loro incapacità e immoralità), senza
invece prestare sufficiente attenzione alle nuove classi di convertiti. ‘Utmān non prese
nessun energico provvedimento per evitare la decadenza del suo governo, anzi il tempo
mostrò che egli non era assolutamente all’altezza dei suoi autorevoli e risoluti
predecessori. Il generale e diffuso malcontento portò a vere e proprie manifestazioni di
8
Küng Hans, Islam. Passato, presente e futuro, Rizzoli Editore, Milano, 2005, pag. 206.
9
I musulmani non dovevano assimilarsi agli abitanti dei territori conquistati, ma dovevano restare una
casta elitaria; i non musulmani dovevano pagare una tassa (gizya) ottenendo in tal modo la protezione
(dhimma) che comportava la possibilità di ottenere una certa autonomia religiosa e politica ma con
l’implicito riconoscimento della superiorità dell’Islam rispetto alle altre religioni. Per quanto riguarda i
cosiddetti “infedeli”, ossia i politeisti, costoro erano invece obbligati alla conversione.
10
A lui si deve la raccolta delle singole sure del Corano, fino a quel momento trasmesse solo per via
orale, e l’adozione, attraverso una commissione di redazione, di un testo unico da imporre
indistintamente a tutti i fedeli.
10
protesta che sfociarono nel suo assassinio. L’avvenimento provocò un trauma nella
comunità, anche perché per la prima volta il “successore dell’inviato di Dio” fu ucciso
dagli stessi suoi compagni di fede. La responsabilità morale ricadde su ‘Alī ibn abī
Tālib, cugino e genero del Profeta, la cui elezione avvenuta nel 656 fu fortemente
contrastata, in quanto lo stesso califfo, invece di arrestare e punire gli assassini di
‘Utmān, fu eletto grazie proprio al loro sostegno. Ciò provocò un forte sentimento di
vendetta soprattutto tra i componenti della famiglia Omayyade capeggiata dal cugino di
‘Utmān, il governatore della Siria Mu‘āwiya ibn abī Sufyān, il quale oltre a rifiutarsi di
rendere omaggio ad ‘Alī, sollevò un esercito contro di lui sostenuto in questo da Siria ed
Egitto. Le lotte fratricide che ne seguirono ampliarono ancora di più la frattura tra le due
fazioni in lotta provocando il più grande scisma della storia dell’Islam noto come
Sciismo
11
, da shī‘at‘Alī (partito di ‘Alī).
Venendosi a trovare in una situazione difficile, in quanto ormai privo dell’appoggio
anche dei vecchi Compagni del Profeta e dei loro discendenti, ‘Alī, contro ogni
tradizione precedente, spostò la residenza del califfato da Medina a Kufa in Iraq,
trasferendo in questo modo il centro del potere politico fuori dall’Arabia. L’intero
califfato di ‘Alī fu contrassegnato dalla guerra civile, anche se tra gli stessi componenti
del suo partito vi furono coloro i quali si rifiutarono di far ricorso alla violenza delle
armi. Prevalse però la tendenza opposta, ossia quella di coloro che spinsero per la lotta
armata quale unico strumento di lotta politica. Nel 656 contro ‘Alī e il suo seguito si
pose la stessa moglie del Profeta, Āiša, seguita da due importanti Compagni del Profeta:
Talha e Zubayr, parenti della prima moglie di Muhammad, Khadīga, i quali, sostenuti
da un esercito, si diressero verso l’Iraq del sud per istigare le città di Kufa e di Bassora
contro il califfo. ‘Alī riuscì però a sconfiggerli nella cosiddetta “battaglia del cammello”
facendo prigioniera la stessa vedova del Profeta. Un anno dopo, nel 657, fu costretto ad
affrontare l’esercito di Mu‘āwiya che raggiunse le truppe del califfo nell’alto Eufrate,
nella piana di Siffīn. Nonostante diverse settimane di scontri, la lotta terminò alla pari e
molti iniziarono a mostrarsi perplessi a proseguire una lotta che fino a quel momento
aveva comportato solo inutili spargimenti di sangue. Si giunse così nel 659 alla
11
Gli sciiti rappresentano circa il 10 per cento della popolazione musulmana mondiale, concentrato
soprattutto in Iran, Iraq e Libano. Essi sostengono che la successione dal Profeta dipende solamente
dall’ordine divino o dall’annunciazione dello stesso Profeta. Essi affermano in particolare che ‘Alī
sarebbe stato designato dallo stesso Profeta, durante il ritorno dal “pellegrinaggio dell’addio” presso lo
stagno Humm il 16 marzo 632, come capo supremo della umma (imām).
11
decisione di affidare le sorti della disputa ad un arbitrato (tahkīm) nel quale, dopo lunghi
negoziati, si decise a favore del partito di Mu‘āwiya. Alcuni partigiani di ‘Alī si
sentirono fortemente amareggiati da questa decisione, ritennero di essere stati ingannati
durante le trattative ed accusarono lo stesso califfo d’arrendevolezza in quanto, invece
che al solo giudizio divino si era sottomesso a quello degli uomini. Essi decisero dunque
di “uscire” (kharaga)
12
e di continuare la battaglia cercando di convincere lo stesso
califfo a riprendere la lotta. In seguito al suo rifiuto compirono una vera e propria
secessione, diventando i suoi più accaniti nemici. Fu proprio uno di loro che attuò la
vendetta di sangue nei confronti del califfo: nel 661 lo sfortunato cugino del Profeta
venne pugnalato sulla porta di una moschea a Kufa con una lama avvelenata, morendo
tra atroci sofferenze pochi giorni dopo. Si chiuse così, con la morte di ‘Alī, il periodo
cosiddetto dei califfi Ben guidati (rashidun).
1.2 Il giorno di ‘Āshūrā: il martirio di Karbalā
La morte improvvisa del nobile ‘Alī aprì definitivamente la strada al potere di
Mu‘āwiya il quale si fece eleggere califfo nel 661 nella città santa di Gerusalemme. Il
nuovo califfo spostò il centro del potere politico a Damasco dove governò per quasi
venti anni (661-680) riuscendo a rispettare o in ogni modo a non inimicarsi i capi tribù,
ma nel contesto di uno stato di governo fortemente centralizzato. Esercitò
personalmente il suo potere in Siria, mentre negli altri territori lasciò liberi i suoi
governatori di agire in modo autonomo. Quando Mu‘āwiya fece il suo ingresso a Kufa,
roccaforte degli sciiti, al-Hasan ibn ‘Alī, primogenito di ‘Alī, resosi ormai conto
dell’impossibilità di portare avanti una lotta armata contro il nuovo califfo, decise di
rinunciare definitivamente al califfato.
13
In un secondo tempo i due conclusero una pace
12
I Kharigiti inizialmente si presentarono come movimento popolare composto soprattutto dalla tribù
beduina dei Tamīn e basato principalmente sulla militanza combattiva. Ciò non significa però che
anch’essi non abbiano sviluppato una propria speculazione dottrinale la quale si basa essenzialmente sulla
questione del capo legittimo. Essi riconoscono la legittimità non solo di Abū Bakr e di Umar, ma anche
quella di‘Utmān e di ‘Alī sino all’accettazione dell’arbitrato. Dopo i califfi Ben guidati solo il “miglior
musulmano” può aspirare a diventare la guida, indipendentemente da qualsiasi appartenenza tribale o
familiare, ma solamente in base al merito.
13
Secondo le narrazioni sunnite abbandonò l’Iraq e fino alla sua morte condusse una vita felice ma priva
di risvolti pubblici. Grazie ai suoi innumerevoli matrimoni (si narra da 60 a 90 mogli e da 300 a 400
12
inconcludente in quanto Mu‘āwiya dichiarò alla popolazione irachena che non avrebbe
mai mantenuto nessuna delle promesse fatte ad Hasan. Il primo figlio di ‘Alī, dopo
questa pace visse circa nove anni e mezzo in condizioni estremamente difficili ed
opprimenti in quanto la sua vita fu sempre in pericolo, persino all’interno della sua
stessa casa (venne, infatti, avvelenato dalla sua prima moglie). Dopo la morte di Hasan
(avvenuta nel 670 o 678) diventò imām
14
suo fratello Husayn, mentre il posto di
Mu‘āwiya (morto nel mese di rajab dell’anno 61 dell’Egira)
15
fu preso da suo figlio
Yazid, un uomo arrogante, amante del lusso e famoso per la sua condotta di vita non
conforme ai principi del Corano. Questo giovane dissoluto assunse il titolo di califfo
secondo la volontà del padre ed in base ad un criterio di successione mai utilizzato
prima: il principio dinastico, dunque indipendentemente dalle qualità di una persona
(concezione kharigita) o dall’appartenenza alla famiglia del profeta (concezione sciita).
Appena assunse il potere, ordinò a suo cugino Walid ibn Utbah, governatore di Medina,
di fare in modo che Husayn gli promettesse fedeltà (bay’ah) e nel caso in cui si fosse
rifiutato, di decapitarlo e inviargli la sua testa. Il governatore di Medina fece quindi ciò
che suo cugino gli ordinò. L’imām Husayn chiese del tempo e lasciò Medina
dirigendosi alla Mecca dove arrivò il 3 del mese di shabān dell’anno 61
16
dell’Egira.
Poco prima del mese di dhū l-hijja (mese del pellegrinaggio) gli abitanti di Kufa
inviarono all’imām numerose richieste d’aiuto e promesse di sostegno nella lotta contro
il despota omayyade. Husayn inviò a Kufa suo cugino Muslim ibn Aqīl per informarsi
della situazione. Intanto il califfo Yazid, resosi conto dei fermenti rivoluzionari, inviò
anch’egli il suo braccio destro Ubayd Allāh ibn Ziyād a controllare la situazione.
Quest’ultimo ordinò il rogo delle case dei simpatizzanti di Husayn, la confisca dei loro
beni e la condanna a morte dei colpevoli. Avvisato dell’invio alla Mecca di un gruppo
di sicari travestiti da pellegrini per assassinarlo, Husayn partì verso Kufa poco prima dei
riti del pellegrinaggio seguito da un manipolo di fedeli, dalle sue mogli e dai suoi figli.
Tutte le strade che portavano alla città furono però bloccate dalle armate di Yazid.
Giunto a conoscenza del soffocamento della rivolta degli abitanti della città,
concubine!) e alla sua numerosa progenie venne nominato “detentore del record di divorzi” (al-mitlaq).
Secondo le narrazioni sciite invece Hasan non rinunciò al califfato ma venne avvelenato da Mu‘āwiya.
14
La dottrina sciita si differenzia da quella sunnita principalmente sulla questione dell’imamato, infatti
mentre i sunniti riconoscono la sunna del Profeta e dei quattro califfi Ben guidati, gli sciiti riconoscono la
sunna del profeta e degli imām suoi successori di cui ‘Alī fu il primo.
15
Marzo del 680.
16
9 maggio del 680.
13
dell’uccisione del cugino Muslim e di alcuni messaggeri inviati a dare notizia del suo
arrivo in città, Husayn si rivolse ai suoi compagni annunciando la sua decisione di non
sottomettersi a Yazid e di combattere fino alla morte. Sciolse inoltre dall’obbligo di
fedeltà i suoi compagni, cosciente del fatto che li avrebbe mandati verso una morte
sicura. Tuttavia, oltre alla sua famiglia, restarono al suo fianco una quarantina di
fedelissimi. Come risposta all’intento dell’imām di proseguire verso Kufa, numerosi
soldati si diressero nel deserto per bloccare la sua avanzata. La milizia omayyade
intercettò la carovana di Husayn il 1 ottobre del 680. «Il 2 ottobre, il secondo giorno di
Moharram dell’anno 61 secondo il calendario islamico, il serraglio di Hussein si
accampò presso Kerbela, un borgo dell’Eufrate a circa sessanta chilometri a sud di
Kufa»
17
.Quando Ubayd Allāh ibn Ziyād ne venne a conoscenza v’inviò il suo esercito
comandato da Umar ibn Said ibn Abī Waqqā (figlio di uno dei “Compagni del
Profeta”), il quale s’incontrò più volte con Husayn per indurlo a prestare giuramento di
fedeltà e a sottomettersi al califfo omayyade, ottenendo sempre risposte negative.
Il 7 del mese di muharram, Umar obbligò Husayn a spostare le sue tende verso il
deserto e bloccò tutti i rifornimenti d’acqua vicini all’ accampamento. Il 9 dello stesso
mese Umar radunò le sue truppe con l’intento di catturare il primogenito di ‘Alī
inviandogli prima un ultimatum. All’alba del 10 di muharram dell’anno 61 dell’Egira
18
,
il giorno di āshūrā
19
, l’esercito di Yazid lo attaccò. Dopo una serie di combattimenti
corpo a corpo, ci fu l’attacco della cavalleria omayyade a metà della mattinata; la
resistenza dell’imām e dei suoi fedeli fu eroica e disperata ma verso mezzogiorno si
compì il suo triste destino. Il primo ad essere ucciso fu il suo primogenito ‘Alī al-
Akbar
20
, ma nel giro di un’ora nessun maschio, tranne lo stesso imām e suo figlio ‘Alī
ibn-al-Husayn (futuro quarto imām), rimasto nelle tende perché malato gravemente, fu
risparmiato dalle spade dell’esercito nemico.
21
Dopo queste tristi morti Husayn si
17
Kermani Navid, Dinamite dello spirito. Martirio, Islam e Nichilismo, Aquilegia Edizioni, Milano,
2007, pag. 30.
18
10 ottobre 680.
19
L’ āshūrā sarebbe stata istituita dal Profeta Maometto, prima dell’introduzione del digiuno del
ramadan, e consisteva in un periodo di digiuno di due giorni, il 9 e il 10 di muharram, a imitazione del
digiuno ebraico dello Yom Kippur. A questo iniziale significato, gli sciiti aggiunsero la commemorazione
del martirio di Husayn e dei suoi compagni morti da martiri come lui. Il lutto per l’evento dura 40 giorni.
20
Si dice che costui fosse il ritratto vivente di Muhammad.
21
Secondo la tradizione sciita, la madre di ‘Alī al-Asghar, l’ultimogenito di Husayn (aveva solo sei mesi),
pregò il suo sposo di chiedere dell’acqua per il suo bambino che stava morendo disidratato all’esercito
nemico. Husayn si recò con in braccio il neonato tra le truppe avversarie e, dopo aver dissetato suo figlio,
un soldato uccise il piccolo tra le braccia del padre.
14