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La musica nella nostra civiltà si è snodata attraverso i secoli con ritmi storici diversi
rispetto a quelli delle altre arti. La sua dimensione storica si prospetta con modalità
diverse, sollecitando quindi una memoria storica diversa.
Sino a tempi molto recenti, la musica, non viveva molto oltre la sua prima esecuzione,
per lo più curata dallo stesso compositore. Si è spesso affermato che ciò dipendeva dal
tipo di notazione di cui si serviva il musicista, così imperfetta e perciò inadeguata alla
sua realtà sonora. Ma questa affermazione potrebbe forse anche essere totalmente
rovesciata, e si potrebbe quindi dire che in realtà la musica era affidata ad una notazione
imperfetta proprio perché non si prevedeva un suo prolungamento di vita nel futuro.
Indubbiamente l’idea di un’esistenza così precaria nel tempo, affidata per lo più
unicamente al breve spazio della sua esecuzione, non poteva non generare una
coscienza storica di tipo assai diverso da quella degli altri artisti, i quali sono stati
abituati a lavorare non solo per il presente, ma anche per il futuro e in stretto
collegamento con il passato.
Nel panorama delle arti, se la musica ha sempre occupato un posto a sé, un po’ isolato
discosto dalle altre sorelle maggiori o minori che siano, ciò è dovuto in buona parte
proprio a questa mancanza di coscienza della propria storicità. Una causa di questo
fenomeno è la vita effimera della musica, sempre legata all’esecuzione,
all’interpretazione e quindi all’attimo, seppur intenso e vitale, che la fa
provvisoriamente vivere, ma subito dopo svanire. La notazione può supplire a questo
“inconveniente”, ma il semplice fatto che, solo in tempi recenti si sia perfezionata tanto
da poter rappresentare un valido strumento di memoria storica, un documento
sufficientemente preciso per una trasmissione fedele della musica per la posterità, può
costituire un buon motivo per ritenere che nel passato non ci fossero studi sufficienti a
spingere i musicisti a preoccuparsi del problema della posterità e quindi del
perfezionamento della notazione.
D’altra parte vi sono civiltà musicali (es. la musica ebraica e la musica popolare e
folcloristica di tutti i paesi), che sino ad oggi non solo non si sono preoccupate di
inventare una corretta notazione, ma si sono interamente affidate ad una trasmissione
orale del loro patrimonio musicale.
Esiste forse un’altra causa dell’anomala storicità della musica a monte del problema
della notazione e dello “status” di provvisorietà di questa rispetto alle altre arti, causa
più profonda e strutturale: la musica sino a tempi recentissimi, praticamente sino all’età
barocca, ha sempre assolto ad una funzione artistica marginale, o meglio, la sua
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esistenza è sempre stata vista in funzione di altri fini, come, ad esempio, per
accompagnare la poesia, come complemento e sottolineatura della funzione liturgica,
come cornice dell’azione teatrale ecc. .
Questa secolare marginalità della musica ha contribuito non poco al mancato costruirsi
di una coscienza storica. E questo fatto ha anche contribuito alla formazione di un altro
curioso fenomeno, proprio solo della musica e non riscontrabile nelle altre arti. Infatti la
musica, da Pitagora sino a tempi molto vicini ai nostri giorni, nella storia della cultura
occidentale, da una parte veniva emarginata spesso come arte minore, come esercizio
manuale privo dunque di implicazioni intellettuali, come arte servile; dall’altra
rivalutata sino ai più alti gradi nei suoi aspetti non udibili, non tangibili, cioè come pura
astrazione, come filosofia prima, simbolo che rimanda all’essenza stessa del mondo. Ma
la musica in quest’ultima accezione non è la musica dei musicisti e degli esecutori, ma
quella puramente pensata; essa è, in altre parole, la filosofia della musica. Il risultato di
questa curiosa frattura è che attraverso gli scritti dei filosofi, si può ricostruire una
specie di storia della musica, o meglio, una storia della teoria, del pensiero, dei dibattiti
musicali della più remota antichità sino ai tempi più recenti, pur senza poter conoscere
nulla della produzione musicale vera e propria.
In conclusione si può riconoscere che la musica mette in atto un diverso modello di
storicità, un diverso modello di coscienza della propria storicità, e di conseguenza, un
diverso modello di memoria storica. La storia in genere la si studia e la si ricostruisce
sui libri, negli archivi, nelle biblioteche, ecc.; ma la si può studiare e forse vivere anche
in altro modo. La musica ha offerto, soprattutto per quanto riguarda il passato, un
modello inedito di come si può vivere e tramandare la storia, la propria storia, al di fuori
dei canali aulici e accademici, modello né migliore, né peggiore del modello umanistico
e storicistico. Ma, per l’appunto, la musica è fatta di suoni e non di parole, di pietre o di
colori sulla tela.
1.2 DAL MONDO ANTICO AL MEDIOEVO.
1.2.1 Antica Grecia.
Ricostruire anche solo una traccia del pensiero musicale nell’antica Grecia, presenta non
poche difficoltà poiché le testimonianze, se pur numerose, risultano frammentarie:
lasciano intravedere una società in cui la musica occupava un posto di non secondaria
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importanza, ma non sono sufficienti a fornirci una sua immagine fedele del periodo
greco poiché mancano quasi totalmente le fonti dirette, cioè le musiche vere e proprie.
Dai tempi di Damone di OA e di Platone le testimonianze non si presentano più in
modo frammentario e rappresentano lo sviluppo di un articolato pensiero inserito in un
complesso contesto filosofico, ma del resto, ricostruire un pensiero sulla musica senza
poter minimamente tener conto della concreta produzione musicale dell’epoca,
costituisce pur sempre una grossa difficoltà.
Tuttavia, nonostante questa grave e incolmabile lacuna, nel pensiero greco si ritrovano
le radici stesse della nostra civiltà musicale.
Ciò che domina questo pensiero è il tema della rilevanza etica, positiva o negativa, della
musica nella società. Si potrebbe parlare di una concezione utilitaristica della musica o
comunque strumentale, nel senso che la musica può servire nella società per
l’educazione dell’uomo. Lo Pseudo Plutarco nel suo trattato “De Musica” , che risale al
III sec. d. C. e rappresenta una delle più importanti fonti per ricostruire il pensiero
musicale nell’antichità, afferma, riferendosi alla figura del centauro Chirone, che esso
era “maestro non solo di musica, ma di giustizia e di medicina” anticipando così alcuni
dei temi chiave del pitagorismo sulla musica.
La scuola filosofica in cui la musica ha assunto una rilevanza speciale fu la scuola
pitagorica. La musica infatti, occupa una posizione centrale nella cosmogonia e nella
metafisica dei pitagorici basate sul concetto di armonia. In tutto il cosmo regna
l’armonia ed essa viene concepita anzitutto come unificazione dei contrari: “l’armonia
nasce solo con i contrari, perché l’armonia è unificazione di molti termini mescolati, e
accordo di elementi discordanti” (Filolao).
Se il cosmo è armonia anche l’anima è armonia per i pitagorici. Tale concetto si
completa con quello di numero, nozione peraltro assai oscura; così afferma Stobeo:
“nulla sarebbe comprensibile se non ci fosse il numero e la sua sostanza”, ma se il
numero e l’armonia rappresentano in qualche modo la legge immanente del mondo, il
fondamento della sua conoscibilità, è essenziale cogliere lo stretto legame tra questi
concetti e la musica. Infatti per i pitagorici la natura più profonda dell’armonia e del
numero è rivelata proprio dalla musica.
Va chiarito pertanto ciò che in questo ambito si intendeva per musica. Secondo Filolao,
filosofo di scuola pitagorica, i rapporti musicali esprimono nel modo più tangibile ed
evidente la natura dell’armonia universale e perciò i rapporti tra i suoni, esprimibili in
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numeri, possono essere assunti come modello dell’armonia universale. La musica perciò
è un concetto astratto che non coincide necessariamente con la musica che risuona alle
orecchie dei comuni mortali.
Musica ovvero armonia può essere quindi non solo quella prodotta dal suono degli
strumenti, ma anche a maggior ragione lo studio teorico degli intervalli musicali o
ancora la musica prodotta dagli astri che ruotano nel cosmo secondo leggi numeriche e
proporzioni armoniche. Questa sarebbe appunto la “musica delle sfere”, concetto che
avrà tanta fortuna non solo nella cultura greca, ma ancora nel Medioevo e persino nel
Rinascimento e oltre. Lo studio matematico degli intervalli musicali, così come la
divisione della scala, nasce proprio da questo concetto di armonia e di numero.
Si è già detto che secondo i pitagorici anche l’animo è armonia; di qui discende un altro
principio di basilare importanza nel pensiero greco: la musica ha un grande potere sul
nostro animo, nel bene e nel male, e tale potere si fonda proprio sull’affinità della natura
della musica con quella dell’anima.
La musica inoltre può ricostruire l’armonia turbata del nostro animo grazie al fatto che,
essendo armonia, può contribuire a ricostruire l’armonia propria dell’animo turbato da
qualche fattore estraneo.
Nei testi dei pitagorici ricorre a questo proposito, frequentemente, il termine catarsi
(“purificazione”), indicando con ciò anche una parentela tra la musica e la medicina. La
musica infatti veniva considerata come la medicina per l’anima. Giamblico affermava
che Pitagora “usava soprattutto questo modo di purificazione, come egli chiamava la
medicina esercitata per mezzo della musica”. A Pitagora si attribuisce pure
l’affermazione della relazione tra la musica e l’animo umano, concetto ripreso e
sviluppato da tutta la filosofia greca nei secoli seguenti. Damone, filosofo, musicista e
uomo politico del V sec. fu tra i primi ad accentuare questo aspetto della musica
mettendo in rilievo il suo potere etico, positivo o negativo a seconda dei casi, sull’animo
umano. Ogni tipo di musica “imita” un certo carattere; questa imitazione avviene in vari
modi e i teorici ne hanno dato spiegazioni diverse.
Secondo Damone di Oa, la musica, può, non solo genericamente educare l’animo, ma
anche specificamente correggere le sue cattive inclinazioni. Questa correzione è
prodotta da una musica che “imiti” la virtù che si vuole inculcare nell’animo e che
perciò cancelli il vizio e la cattiva inclinazione. Si è parlato in questo caso di catarsi
allopatica. Diversamente Aristotele ritiene che la correzione del vizio si possa ottenere
attraverso l’imitazione dello stesso vizio da cui l’animo si deve liberare. In tal modo i
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vizi diventano “inoffensivi” e l’animo si purifica da essi nell’ascolto di una musica che
imitando i sentimenti che ci opprimono quali “pietà, paura ed entusiasmo”, si trova nelle
condizioni di chi è stato risanato e purificato. In questo caso si può parlare di catarsi
omeopatica.
Comunque la si intenda, ciò che importa sottolineare è il concetto di ethos musicale che
si ritrova in entrambe le accezioni del concetto di catarsi.
Tutta la dottrina pitagorica sulla musica, a cui si è qui solamente fatto cenno, era
destinata a diversi e contrastanti sviluppi; il pitagorismo rimarrà pertanto un punto di
riferimento fondamentale nella storia del pensiero occidentale sulla musica e
praticamente ha esteso la sua influenza sino ai nostri giorni.
Nella filosofia di Platone, la musica ha quasi sempre una parte assai importante e l’idea
già affermata da Damone, circa il valore etico di questa, diventa centrale. Non è facile
ricostruire le sue idee sulla musica, dal momento che in quasi tutti i dialoghi questa
compare secondo una sfaccettatura diversa. Platone infatti, sembra oscillare tra una
particolare condanna della musica e una sua incondizionata esaltazione quale forma
suprema di bellezza e verità.
Nella “Repubblica” per esempio, prevale la condanna della musica (poiché viene
accomunata ad arti spregevoli quali gli spettacoli da fiera ): non solo non accenna ad
alcuna sua virtù educativa, ma mette in luce il fatto che il suo ascolto ci allontana dalla
contemplazione della bellezza in sé.
Nell’attribuire alla musica solo l’effetto di produrre piacere, Platone sembra discostarsi
dalla tradizione pitagorica che la considerava soprattutto per le sue virtù etiche. La
musica in quanto fonte di piacere è anzitutto una “techne” cioè un’arte e non una
scienza.
La musica è dunque un fare, la cui utilità è indubbia perlomeno per produrre un piacere,
ma la cui legittimità è da vagliarsi attentamente. Questa concezione parzialmente
negativa e limitativa , si ritrova ogni qualvolta Platone considera la musica come
esercizio effettivo di un’arte, intendendo arte nel senso greco del termine cioè come una
techne. Sotto questo profilo pratico la musica potrebbe essere giustificata e ammessa,
purché il piacere da essa prodotto non agisca in senso contrario alle leggi e ai principi
dell’educazione.
Il piacere prodotto dalla musica non è dunque un fine, ma un mezzo: tutta la musica
produce piacere, sia quella buona che quella cattiva; in una prospettiva educativa
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bisogna sfruttare il piacere prodotto dalla musica buona dopo aver messo al bando
quella contraria alle leggi dello stato. Per Platone le musiche buone sono quelle
consacrate dalla tradizione mentre, le musiche cattive sono invece quelle del suo tempo,
quelle che puntano esclusivamente al diletto dell’orecchio. È necessario ricordare che il
filosofo si trovava di fronte ad un periodo di profonde innovazioni presentate dalla
musica, innovazioni che nel loro insieme rappresentavano la cosiddetta rivoluzione
musicale del V secolo. Di fronte ad essa, il filosofo manifesta la sua più profonda
avversione e ostilità, ancorandosi alla più antica e salda tradizione musicale e poetica.
La posizione di Platone, così conservatrice, si spiega meglio considerando il suo
pensiero sulla musica ampliato in altre direzioni. La musica infatti non è solo oggetto
della ragione, e allora in quanto scienza può avvicinarsi alla filosofia sino a identificarsi
con essa, intesa come dialettica e suprema sapienza (sophia). Ovviamente questa idea
non rispecchia il concetto di “musica che accarezza le nostre orecchie”, ma si riferisce
ad una musica puramente pensata. È proprio la musica che non si ode quella in cui
ripone l’attenzione il filosofo poiché questa musica astratta dalla sua sonorità è
paragonabile al filosofare, anzi è il grado più alto dello stesso filosofare. Questo
concetto di musica ci riporta ad un’atmosfera pitagorica e può essere inteso solo se
ricollegato al concetto di armonia.
L’armonia della musica secondo Platone, rispecchia l’armonia dell’anima e al tempo
stesso quella dell’universo. Perciò la sua conoscenza rappresenta sia uno strumento
educativo nel senso più alto del termine, in quanto può riportare l’armonia
nell’equilibrio turbato dell’anima, sia uno strumento di conoscenza dell’essenza più
profonda dell’universo, poiché l’armonia rappresenta l’ordine stesso che regna nel
cosmo. La musica diventa allora il simbolo stesso di questa unità e di questo ordine
divino di cui sono compartecipi l’anima e l’universo intero.
Ma questa musica non è quella degli strumenti, ma è quella puramente pensata come
armonia. Così Platone può affermare nella “Repubblica” – cioè nel dialogo in cui aveva
con maggior energia proclamato la condanna di questa specifica arte e delle arti in
generale, che il “vero musico” sarà colui che realizzerà “il perfetto accordo dell’anima”.
Il presupposto di questa dottrina è che l’armonia che costituisce la musica sia dello
stesso tipo di quella su cui si reggono sia l’anima dell’uomo che l’universo.
In pratica è come se coesistessero due poli all’interno dei quali si muove il pensiero
platonico, da una parte la musica reale e concreta e dall’altra quella del tutto astratta: il
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concetto di educazione può sembrare quindi essere il principio mediatore capace di
ricomporre in una certa misura la frattura “tra le due musiche”.
Conservare la tradizione significa conservare alla musica il suo valore di verità e di
legge. C’è quindi una possibilità di introdurre la musica nella città senza venir meno ai
principi educativi e al carattere normativo della musica stessa, purché ci si tenga lontano
dalle sregolatezze musicali del proprio tempo. In questo caso la musica, nella sua
concretezza fisica, può diventare il puro intelligibile.
Il filone del pensiero musicale di ispirazione pitagorico - platonica è stato senza dubbio
preponderante e vincente nell’antichità greca e nella cultura occidentale, almeno sino al
Rinascimento.
Tuttavia non si deve pensare che non ci sia stata un’opposizione al platonismo: nella
Grecia del tempo le filosofie materialistiche, scettiche ed epicuree accentuavano, contro
le correnti moralistiche, il valore edonistico della musica scindendolo da qualsiasi
contenuto educativo.
Aristotele riprende tutti i temi del pensiero musicale pitagorico e platonico, ma al tempo
stesso tiene conto di tutte le istanze del pensiero edonistico ed epicureo: ne risulta una
sintesi originale che rappresenta una tappa importante nel pensiero musicale
dell’antichità greca.
Legando il problema della musica a quello dell’educazione Aristotele si esprime
considerando come fine della musica il piacere e, in quanto piacere, essa rappresenta un
ozio, cioè qualcosa che si oppone al lavoro e all’antichità.
Il suo inserimento nell’educazione dei giovani si giustifica solamente considerando il
fatto che anche per il riposo sono necessarie “nozioni e pratiche”, perciò la musica
doveva essere utilizzata come modo per occupare i periodi di ozio.
Fondamentalmente il pensiero aristotelico si basa sull’opposizione e la separazione tra
la pratica musicale connessa al mestiere dell’esecutore e la fruizione musicale.
La novità che apporta Aristotele rispetto alle altre trattazioni filosofiche, è l’attenzione
rivolta soprattutto ai problemi di natura psicologica riguardanti sia la musica che la
fruizione musicale.
Il punto di partenza è pur sempre l’etica musicale damoniana e platonica. L’obbiettivo
era, in poche parole, quello di vedere se in qualche modo la musica influisce sul
carattere e sull’anima.
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Aristotele aveva di fronte a sé due diverse teorie: da una parte la teoria pitagorica
(secondo cui la musica è in relazione diretta con l’anima perché questa, come la musica,
è armonia e perciò la musica può riportare l’armonia quando essa fosse turbata);
dall’altra, la teoria che si può far risalire a Damone (secondo cui il rapporto tra la
musica e l’anima va visto in relazione al concetto d’imitazione: infatti certe melodie,
certi ritmi e certe armonie imitano sia le virtù che i vizi).
Egli, pur non scordando la prima, preferisce sviluppare la seconda teoria in chiave
psicologica: “nelle melodie c’è una possibilità naturale di imitazione dei costumi,
dovuta evidentemente al fatto che la natura delle armonie è varia quindi ascoltandole
nelle loro diversità ci si dispone in modo diverso di fronte ad ognuna di esse”.
La musica in quanto arte è dunque imitazione e suscita sentimenti sia positivi sia
negativi: perciò è educativa nel senso che l’artista può scegliere più opportunamente
l’oggetto della sua imitazione ed influire così positivamente sull’animo umano. Il
beneficio che può venirne all’uomo passa attraverso il meccanismo della catarsi.
La musica pertanto è una medicina per l’anima proprio quando imita le passioni o le
emozioni che ci tormentano e dalle quali vogliamo liberarci o purificarci. La catarsi per
lui non si identifica quindi con l’educazione nel senso platonico del termine; può al
limite essere una tecnica per ottenere un maggior benessere per l’uomo.
“La musica non va praticata per un unico tipo di beneficio, ma per usi molteplici poiché
può servire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il
sollevamento dell’animo e la sospensione delle fatiche.”
Da questo si nota quindi che c’è possibilità di usare tutte le armonie, dal momento che i
principali fini che raggiunge la musica non sono separati, ma si integrano uno con
l’altro.
Con Aristotele dunque, si accetta il “piacere come fattore organicamente connesso alla
fruizione musicale e questa prospettiva ad una considerazione della musica in maniera
più svincolata da propositi moralistici, permarrà esilmente nel corso della storia del
pensiero musicale.
1.2.2 L’età ellenistica.
La ricerca psicologica che affiorava nel pensiero aristotelico (in generale in tutta la
scuola peripatetica) si accentua nel pensiero di Aristosseno, filosofo e teorico della
musica nonché allievo di Aristotele. Egli per la prima volta cerca di scindere
l’esperienza musicale dalla filosofia, accentuando l’importanza della percezione uditiva