2
per tutto l’arco dell’età evolutiva: deve avere un medico responsabile e
coordinatore, deve tenere conto in modo globale di tutti i bisogni del
bambino e famiglia oltre che della disabilità nelle diverse aree funzionali
e delle abilità residue, definisce la prognosi di sviluppo, individua gli
obiettivi e i programmi riabilitativi specifici, definisce il ruolo dell’
equipe riabilitativa e delle competenze necessarie al raggiungimento
degli obiettivi, viene discusso e comunicato ai familiari e a tutti i
componenti dell’equipe ed è aggiornato periodicamente.
L’approccio riabilitativo di tipo olistico ed ecologico implica una
collaborazione continua e prolungata nel tempo fra operatori della
riabilitazione e famiglia.
Il gruppo di lavoro deve essere composto da personale specializzato
(medici, psicologi, terapisti, psicomotricisti, infermieri, etc.), deve essere
numericamente adeguato al bambino in carico operare con la famiglia,
che deve poter disporre di sostegno psicologico, solidarietà sociale, e
agevolazione dei materiali, la scuola e le altre comunità infantili sono
parte integrante del mondo del bambino e devono essere coinvolte nella
riabilitazione.
Elemento essenziale nel progetto riabilitativo è l’integrazione degli
interventi, per evitare il rischio di frammentazione, che può provocare
atteggiamenti di rifiuto da parte del bambino e quindi vanificare
qualsiasi programma terapeutico.
3
CAPITOLO 1
LA PRESA IN CARICO GLOBALE
Per presa in carico intendiamo idealmente un luogo di ascolto e di
pensiero, uno spazio di consultazione e di contenimento, un momento di
supporto e di sostegno, dove possono essere accolti e considerati i molti
problemi sofferti dal bambino con PCI e dalla sua famiglia e vengono
individuati e proposti interventi più idonei per affrontarli e renderli
tollerabili. Essa costituisce l'elemento di continuità dell'intero progetto
rieducativo, poiché lo accompagna longitudinalmente dal momento
dell'accoglienza della stipula del contratto terapeutico alla restituzione
finale, e lo attraversa diametralmente interessandosi del soggetto(il
bambino con PCI), del suo nucleo familiare, del contesto sociale(scuola
e altre comunità) e del possibile ambiente fisico di vita. Coincide con
erogazione di interventi di chiaro significato terapeutico diretti al
bambino e al suo nucleo familiare. Per la restante parte, che in termini di
durata e di complessità può essere considerata almeno quantitativamente
la maggiore, la presa in carico, proprio per la sostanziale incapacità
dell'intervento terapeutico di risolvere radicalmente il problema,
rappresenta un intervento di sostegno, tecnico ma non terapeutico, il più
possibile ampio e adeguato, che accompagna il paziente per tutta la sua
storia riabilitativa, allo scopo di favorire uno sviluppo adattivo
interattivo e reciproco in grado di estendersi dall’educare il disabile
all'educare al disabile. La presa in carico può essere intesa come
un'interazione di funzioni all'interno delle equipe riabilitativa, non
essendo ambito dell'agire di alcuna singola figura professionale, ma
espressione di un processo messo in atto dalla equipe riabilitativa nel suo
insieme.
4
Nella presa in carico la forte integrazione delle funzioni, che la rende un
processo complessivamente unitario, è da subito determinante per
governare l'incertezza sul da farsi ed evitare la frantumazione del
bambino come per aiutare genitori a elaborare il lutto, valorizzandone le
competenze attuali e potenziali e soprattutto facilitandone la relazione
con il figlio. Per questo è cruciale che i genitori siano riconosciuti come
soggetti attivi anche del processo di ricezione ed elaborazione delle
informazioni sulle problematiche inerenti alla patologia del figlio. Con il
termine gestione possiamo indicare il sostegno dato al bambino e alla sua
famiglia nei problemi della vita quotidiana allo scopo di risolvere gli
stessi mediante l'utilizzo di abilità residue (o recuperate) da parte del
bambino e mediante l'impiego di ausili e di adattamenti ambientali che
incrementino le possibilità di autonomia effettiva nel proprio ambiente di
vita, con lo scopo di ridurre la dipendenza di migliorare la qualità della
vita. Il termine trattamento indica poi il insieme dei provvedimenti che
nel corso della vita del bambino con PCI sono intese a generargli il
miglior futuro funzionale, psicologico e sociale in una prospettiva
globale e contestuale. La qualità della vita raggiunta attraverso questo
processo deve essere naturalmente misurata in relazione alla natura della
menomazione, deve tenere in uguale considerazione il paziente e la sua
famiglia.
1.1 COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI
La presa in carico inizia formalmente con la comunicazione della
diagnosi, intendendo fare riferimento non alla diagnosi di “lesione”,
compito della unità di terapia intensiva neonatale o in generale delle
strutture pediatriche, ma alla diagnosi di “paralisi”, compito delle
strutture di riabilitazione.
5
Nella storia del bambino con PCI, il periodo perinatale è dominato da un
senso di pesante incertezza, di attesa angosciante, di paura di morte,
evento di fronte al quale il rischio di sopravvivenza a costo di lesioni
permanenti può anche apparire razionalmente accettabile.
Nei mesi successivi, quando la diagnosi di lesione viene trasformata in
diagnosi di paralisi, domina la paura di gravi anormalità nel bambino.
L’esplorazione della modificabilità e quindi della capacità di
apprendimento del paziente, rappresenta in questo contesto l’esatto
opposto del concetto di paralisi moderatamente inteso. La formulazione
della diagnosi conclude idealmente il periodo di gestazione e da inizio a
quello della riparazione. Accolta la diagnosi e con essa l’idea di una
prognosi differenziale influenzabile dalla fisioterapia, compare nei
genitori la paura di insuccesso ed il timore che quanto si sta facendo non
sia adeguato alle necessità del bambino o non sia sufficiente per i suoi
molti bisogni.
Spesso la famiglia oscilla fra la convinzione che esista, nascosta da
qualche parte, una terapia che guarisce e l’idea opposta della perfetta
inutilità di qualunque intervento, che la porta a rinunciare anche a ciò
che è realmente possibile raggiungere.
Il problema della comunicazione della diagnosi non può essere risolto ed
esaurito ragionando esclusivamente in termini di competenza e di
chiarezza espositiva di chi la deve esprimere, ma deve considerare anche
la capacità di comprendere e di contenere di chi la deve ascoltare.
La comunicazione, come trasferimento di notizie, tende a premiare:
- la rapidità di formulazione (abilità diagnostica);
- la precisione (affidabilità diagnostica);
- la completezza (competenza diagnostica);
- la chiarezza espositiva e la comprensibilità (proprietà terminologica);
6
- la concisione (capacità di contenere il disagio tanto di chi la riceve
quanto di chi la trasmette);
La diagnosi di paralisi, intesa come forma stabile delle funzioni messe in
atto da un soggetto la cui struttura sistema nervoso è stata
irreparabilmente lesa, è per sua natura un fenomeno evolutivo, un
processo che non finisce, ma che esige un costante aggiornamento, che si
alimenta e si arricchisce delle informazioni fornite dal paziente stesso,
dai suoi familiari e soprattutto dai suoi terapisti.
Possiamo immaginare che la comunicazione della diagnosi duri tanto
quanto il trattamento rieducativo e che la sua conclusione finisca per
coincidere con la dimissione del bambino dalla terapia.
A differenza della comunicazione, la comprensione della diagnosi, è un
processo che necessita di preparazione emozionale quanto di esperienza.
L’impatto emozionale blocca nei genitori la capacità di assimilare le
informazioni cliniche che vengono loro comunicate e la possibilità di
elaborarle.
Spesso, di fronte alla descrizione di “come” il bambino potrà realizzare
una certa funzione, il genitore rimane disorientato, non disponendo di
concrete modelli esperienziali cui ispirarsi per poter comprendere, e
fiutando a priori quelli offerti dall’interlocutore, perché viziati dal non
tenere conto di quanto con il proprio amore e con il proprio impegno
(delirio di onnipotenza), egli potrà certamente realizzare a favore del
proprio bambino.
Nella domanda “riuscirà a camminare?” è contenuta una richiesta più
ampia che abbraccia l’intera gestalt della normalità e testimonia la ferma
volontà del genitore di non “subire” la diagnosi. Solo in parte la
comprensione della diagnosi è influenzata dal livello di cultura del
genitore. Dubito si possa parlare di totale accettazione della diagnosi.
7
Fra diagnosi e terapia esiste una ineliminabile contraddizione
terminologia, finendo l’una per essere la negazione dell’altra. Ambiguità
che non si riduce quando, a fronte del concetto di paralisi cerebrale come
turba persistente, viene sostenuta l’idea della plasticità del SNC e del
potenziale residuo.
Si può immaginare che l’accettazione della diagnosi finisca più
facilmente per coincidere con la restituzione del paziente al termine della
terapia, piuttosto che con l’attivazione della sua presa in carico.
Esistono per lo meno due fasi del processo di accettazione della
diagnosi: la prima è quando i genitori consapevoli che il cervello del
bambino è leso (danno irreversibile), ma si può fare un trattamento e
quindi ci si può aspettare che qualcosa cambi; la seconda è quando si
arriva a capire che la terapia è inutile, perché il bambino non può
cambiare. Con la sospensione della terapia ed il tramonto della speranza
di poter modificare il bambino, la famiglia è costretta ad accettare la
diagnosi di paralisi, processo fino ad allora rimandato. Perciò la famiglia
tende ad allontanare questo momento, cercando di mantenere il più
allungo possibile il bambino in terapia. È in seguito alla sospensione del
trattamento ed alla delusione delle proprie attese, che la famiglia inizia a
preoccuparsi di quanto potrà avvenire dopo, a partire dal proprio
invecchiamento.
Argomento difficile è la conclusione del contratto terapeutico, che
generalmente fino all’ultimo non viene affrontato ne dai tecnici ne tanto
meno dai genitori, quando andrebbe invece esplicitato e preparato sin
dall’inizio, perché non resti un fantasma nella mente di tutti.
Nel mondo affettivo dei genitori, e in particolare della madre, la
posizione del bambino con PCI è certo più vicina all’immagine mentale
del bambino temuto, rivisitazione emotiva di vecchi conflitti, di traumi,
8
di paure, propria del normale processo di regressione che in qualche
modo ogni madre deve fare come anticipazione della maternità, piuttosto
che all’immagine del bambino desiderato, proiezione fantasmatica di
tutte le proprie aspettative. Nella mente dei genitori, tende
inevitabilmente a dilatarsi lo spazio che separa il bambino reale, che
cresce con la pesantezza del bisogno, da quello immaginario, che si
alimenta con la leggerezza della speranza, del quale prosegue ininterrotta
la gestazione.
Il vero obiettivo della terapia, nell’aspettativa dei familiari, dovrebbe
essere quello di colmare questo spazio, fino a consentire una impossibile
ricongiunzione fra il bambino reale e quello immaginario. Per questo, la
sospensione della terapia, almeno nella sua forma più attiva, è più
importante per il processo di accettazione della diagnosi di quanto non
risulti la sua attivazione.
1.2 COMUNICAZIONE DELLA PROGNOSI
La presa in carico deve saper essere anche comunicazione della
prognosi.
Fare prognosi nell’ambito della PCI può essere particolarmente difficile
perché:
¾ alla conoscenza della normalità, necessaria per la diagnosi, si
deve affiancare una non minore conoscenza della evoluzione della
patologia (PCI come sviluppo della paralisi anziché come paralisi
dello sviluppo);
¾ il contratto terapeutico mantiene una profonda ambiguità: imporre
al bambino la copiatura della normalità o aiutarlo a realizzarsi con
le proprie differenze? Specie nel pretermine, la capacità dei
genitori di cambiare l’immagine del proprio bambino per
9
adeguarla alla crescita avvenuta, si rivela sempre molto
difficoltosa;
¾ le attese della famiglia nei confronti del terapista e reciprocamente
quelle del terapista nei confronti della famiglia, condizionano
fortemente il giudizio sulla qualità e sulla quantità del risultato
raggiunto;
¾ il rimpianto per il bambino desiderato e la sua idealizzazione in
quello immaginario e il rimorso verso il bambino temuto e
riconosciuto in quello reale, condizionano in modo determinante i
processi di attaccamento e di identificazione, la propositività e la
partecipazione del soggetto al proprio possibile recupero;
¾ l’adeguatezza del progetto terapeutico ed il concorso alla sua
realizzazione i tutte le parti interessate ( sanitarie, familiari, sociali
) devono concretizzare l’efficienza della pianificazione e
l’efficacia degli interventi proposti;
¾ le convinzioni del terapista, la fiducia nelle proprie capacità e la
sicurezza nelle proprie conoscenze, come le esperienze
precedentemente maturate, influenzano il suo impegno nei
confronti del trattamento, sia sul piano operativo che su quello
emotivo;
¾ la contrapposizione deficit – risorse, bisogni – desideri, promesse
e risultati a livello individuale, familiare e sociale, condizionano il
giudizio finale sulla stessa utilità della riabilitazione.
Obiettivo dell’azione terapeutica, è indurre nel paziente la comparsa di
modificazioni stabili migliorative, rispetto a quanto idealmente previsto
nella evoluzione della storia naturale della sua forma clinica.