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CAPITOLO 1: IL MOBBING
Inizio dello studio del fenomeno.
L’interesse per il mobbing è nato in Svezia alla “corte” di un gruppo di studiosi
coordinati e diretti da Heinz Leymann, i quali hanno avuto il merito di teorizzare un
fenomeno di cui si avvertiva inconsapevolmente la presenza nel mondo del lavoro.
Se da un lato il problema è di pressante attualità, dall’altro esistono documenti che si
riferiscono ai primi fenomeni osservati e studiati circa quarant’anni fa. Il primo ad
occuparsene, dal punto di vista medico e scientifico, fu appunto il professor Leymann che
negli anni ’60 individuò e descrisse manifestazioni di “bullismo” da parte dei bambini proprio
nell’ambiente scolastico. Oggi esso è considerato il massimo esperto internazionale in tema di
mobbing negli ambienti di lavoro. Dalle sue numerose osservazioni e da altre sono emerse
alcune evidenze dalle molteplici manifestazioni anche fisiche che si possono notare sulla
vittima.
La cosciente conquista è cominciata nei primi anni ’80, partendo proprio da uno studio
condotto sulle condizioni psico-fisiche di alcuni soggetti che si presentavano in cura per
problemi psicologici. Un esame degli effetti, visto con la lente delle difficoltà incontrate
sull’ambiente di lavoro da soggetti denunzianti, ha consentito di individuarne le cause. Solo
nel 1984 è comparsa la prima pubblicazione scientifica con la quale veniva formalizzato l’uso
del termine mobbing quale forma di vessazione esercitata nell’ambiente lavorativo ed il cui
risultato è l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro. In quest’occasione Leymann
decise di utilizzare quest’unica parola, “mobbing”, per indicare quella “forma di
comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui verso
un altro individuo che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa”.
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Nel volgere di breve tempo, una simile teorizzazione ha avuto modo di diffondersi in
buona parte del contesto europeo ed in quelli, altrettanto ad economia avanzata, statunitense e
australiano, accomunando numerosi studiosi, mossi dall’intento comune di individuare e
combattere le distorsioni del mondo del lavoro, spesso causa scatenante delle patologie
psichiche dei lavoratori. Di contro, nel contesto italiano il fenomeno ha cominciato ad
assumere rilevanza solo più tardi e soprattutto grazie agli studi condotti da Harald Ege. In
ogni caso, anche se tutto (osservazioni ed evidenze) è più recente, non per questo l’Italia parte
in svantaggio.
Nell’ulteriore sforzo di definire e calibrare il concetto, è corretto affermare che con
tale fenomeno siamo in presenza di una vera e propria forma di molestia morale realizzata nei
luoghi di lavoro; ovvero di un terrore psicologico sul posto di lavoro; ovvero ancora di
vittimizzazione psico-sociale sul lavoro.
Che cos’è il mobbing?
L’”Associazione contro lo Stress Psico-sociale ed il Mobbing” definisce ufficialmente
il mobbing “come una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra
superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata è posta in una posizione di debolezza e
aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone in modo sistematico,
frequentemente e per un lungo periodo di tempo, con lo scopo e/o la conseguenza della sua
estromissione dal mondo del lavoro. Questo processo viene percepito dalla vittima come una
discriminazione”.
Il mobbing è una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro
attraverso attacchi ripetuti da parte dei colleghi o dei datori di lavoro. Le forme che può
assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle
continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti dequalificanti
alla compromissione dell’immagine sociale nei confronti dei clienti e superiori. Nei casi più
gravi si può arrivare anche al sabotaggio del lavoro ed azioni illegali.
Questo fenomeno indica un complesso di comportamenti arroganti attuati da pochi e
subiti dai più, che si manifestano proprio nei luoghi di lavoro, ambienti nei quali, in non rari
casi, si trascorre la maggior parte della propria vita. Comportamenti che si traducono in
problemi di salute fisica e mentale tutt’altro che banali.
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Le ricerche hanno, infatti, dimostrato che le cause del terrore psicologico sul posto di
lavoro vanno ben oltre i fattori caratteriali: si fa mobbing su una persona perché ci si sente
surclassati ingiustamente o per gelosia, ma anche per costringerla a licenziarsi senza che si
crei un caso sindacale.
Esistono vere e proprie strategie aziendali messe in atto a questo scopo.
Il mobbing ha conseguenze di portata enorme: causa problemi psicologici alla vittima,
che accusa disturbi psicosomatici e depressione, ma danneggia anche sensibilmente l’azienda
stessa, che nota un calo significativo della produttività nei reparti in cui qualcuno è
mobbizzato dai colleghi.
Le ricerche condotte all’estero hanno dimostrato che il mobbing può portare fino
all’invalidità psicologica, e che quindi si può parlare anche di malattie professionali o
d’infortuni sul lavoro.
Si tratta di uno stress di cui sono vittime inconsapevoli soprattutto lavoratori
dipendenti che subiscono una particolare persecuzione psicologica in ufficio o in fabbrica da
parte di coloro che esercitano un potere (piccolo o grande che sia) di comando.
Non è casuale che in alcune aziende si ricorra al “mobber” (cioè ad un capo
”aggressore”), che svolge sistematicamente un’azione psicologica su un proprio subordinato,
tipo quella di criticare esageratamente il minimo errore, seminare zizzania, minacciare
ingiustificatamente, non gratificare i successi, con lo scopo di demoralizzarlo per indurlo a
licenziarsi. Vi sono casi in cui il “mobber” esercita queste azioni di mobbing perché il capo
vede nel proprio subordinato un possibile ostacolo, in quanto considerato “concorrenziale” nel
percorso di carriera. In tal caso il mobbizzato, cioè la vittima di una persecuzione psicologica,
è portato inevitabilmente a mettersi da parte, perché “avvilito” e “rattristato” per quanto gli sta
accadendo, rinunciando ad una collaborazione positiva con l’azienda e quindi lasciando via
libera al proprio mobber, cioè al capo.
Le forme di persecuzione esercitata sul lavoratore, possono essere determinate da vari
comportamenti “quali la pressione psicologica, la crudeltà mentale, l’isolamento sociale e le
molestie, tra cui quelle sessuali”, problemi che riguardano, con sempre maggior frequenza, la
vita lavorativa e complessivamente rientrano nel termine di violenza o persecuzione. Si tratta
di problemi molto seri con effetti gravi e dannosi sia sui singoli lavoratori sia sul gruppo di
lavoro se non vengono valutati e gestiti in tempo. Questi effetti possono tradursi in stati
patologici, mentali e fisici, che a volte possono diventare cronici, e sfociare addirittura in un
rifiuto della vita lavorativa e della collettività che opera nell’ambiente di lavoro.
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Occorre in ogni caso ricordare che non può essere classificata come forma di mobbing
qualsiasi forma di conflitto sui posti di lavoro; fondamentale è il requisito temporale: le
violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche e durare nel tempo.
E’ da notare come gli elementi qualificanti di una condotta mobbizzante siano
l’intenzionalità, la frequenza e la ripetitività. Infatti, la definizione esclude i conflitti
temporanei e focalizza l’attenzione sul momento in cui la durata del comportamento
vessatorio determina condizioni patologiche dal punto di vista psichiatrico e psicosomatico. In
altre parole la distinzione tra conflitto sul lavoro e mobbing non consiste su “ciò” che viene
inflitto alla vittima e sul “come” viene inflitto, ma piuttosto sulla “frequenza” e “durata” di
qualsiasi trattamento vessatorio venga inflitto.
Ha origine con il lavoro e la competizione. In questo senso esiste da sempre, anche se
l’attuale significato di mobbing si può applicare solo laddove vi siano determinate
caratteristiche della situazione lavorativa e dei comportamenti umani. L’importanza di
diffondere la conoscenza del fenomeno e di prevenirlo, attraverso corsi di formazione
specifica e d’interventi da parte del personale specializzato, rimane basilare.
Il nostro paese si trova ad uno stadio iniziale della ricerca, ma l’interesse e l’attenzione
nei confronti del fenomeno certamente non devono venir meno poiché tale piaga lavorativa
coinvolge tutta la società.
Che cosa non è mobbing?
È necessario iniziare a porre l’accento che cosa è mobbing e cosa non lo è. Nel 1997
Ege scrive: “Il mobbing è una forma di terrore psicologico che è esercitato sul posto di lavoro
attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi o dei datori di lavoro. Scopo del mobbing è
quello di eliminare una persona che è o è divenuta in qualche modo scomoda, distruggendola
psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle
dimissioni”.
Col passare del tempo la definizione di mobbing si è affinata. La ripetitività degli
attacchi e l’accanimento con cui il mobber cerca di eliminare la vittima sono i parametri
essenziali per poter parlare di mobbing; secondo Leymann è necessario che le azioni si
verifichino almeno una volta la settimana e per un periodo di almeno sei mesi. Infatti, è
proprio a causa della frequenza e dell’eccessiva durata che questi maltrattamenti portano a
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conseguenze negative per il soggetto sia da un punto di vista sociale che da un punto di vista
psicologico e psicosomatico.
In genere tendiamo a differenziare il nostro mondo sociale tra chi ci è amico e ci vuole
bene da chi costituisce una potenziale minaccia. Non è sempre facile imbatterci in persone che
riusciamo a classificare da subito come appartenenti ad una o all’altra classe di persone; per lo
più nella nostra vita incontreremo persone che in momenti diversi della nostra vita possono
darci gioie e dolori, soddisfazioni e frustrazioni. Quando però l’atteggiamento diventa
sistematico, ripetitivo nel tempo e che vanno sempre nella direzione dall’annientamento
dell’altro, allora si può parlare, secondo i casi, di mobbing o bossing o bullying. Sempre e
comunque è, però, necessario studiare a fondo la situazione andando oltre ad un primo
giudizio di persecuzione. Si vuole quindi porre l’attenzione su quanto può essere pericoloso
avvalersi di certe etichette in determinate situazioni dove sarebbe meglio, invece, indagare a
fondo.
Principali studiosi del mobbing.
Come già detto Heinz Leymann è considerato il pioniere della psicologia sul lavoro.
Nasce in Germania nel 1932 e nel 1955 si trasferisce in Svezia dove avvia i suoi studi sul
mobbing lavorativo grazie ai fondi del governo svedese. Fonda a Karlskrona una clinica per il
trattamento delle malattie provocate dal mobbing che chiuse pochi anni prima della sua morte;
avvenuta nel marzo 1999. Per Leymann il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste
in una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più
individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione
in cui è privo d’appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzate.
Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (almeno una volta la settimana)e
su un lungo periodo di tempo (per una durata di almeno sei mesi).
Invece, per quanto riguarda il contesto italiano il maggiore studioso di mobbing è
Harald Ege, ricercatore tedesco che vive e lavora in Italia dalla prima metà degli anni
Novanta. E’ uno specialista in relazioni industriali, ha svolto alcune ricerche nell’ambito della
psicologia del lavoro. A partire dal 1996, all’interno della sua collana di libri sul mobbing, ha
pubblicato gli unici testi in italiano sull’argomento. Ha fondato a Bologna l’organizzazione
no-profit “Prima Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psico-sociale”, che si occupa
d’assistenza e formazione per vittime della violenza psicologica sul lavoro. Per lui con la
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parola mobbing s’intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata
attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte di colleghi o superiori.
Importante è anche il contributo di Tim Field autore inglese che scrive libri sul
bullying lavorativo. Prima di fondare il primo telefono amico britannico per mobbizzati, la
UK National Workplace Bullying Advice Line, era capo dell’Assistenza Clienti di
un’importante azienda che produceva computer. Nel 1994 divenne il bersaglio di un capo
tiranno: i continui soprusi misero in pericolo il suo equilibrio mentale e fu costretto a
licenziarsi. Negli ultimi anni è diventato molto famoso nel mondo di internet grazie al suo sito
Bully on Line.
Il bullying, per Field, è la manifestazione d’inadeguatezza (sociale, personale,
relazionale, comportamentale, professionale) proiettata sugli altri attraverso il controllo, la
sopraffazione, il biasimo, l’isolamento, ecc…. Il bullying viene alimentato dal rifiuto di
ammettere la responsabilità (respingere le accuse, contro-accusare, atteggiarsi a vittima) e
perpetuato in un clima di paura, ignoranza, silenzio, rifiuto, incredulità, omertà, occultamento
e gratificante (ad esempio promozioni) per il colpevole.
Derivazione del termine.
“Mobbing” è un termine inglese, (derivante dal verbo “to mob”, che nella traduzione
letterale può significare assalire, accerchiare, avvilire, rattristare) usato dai biologi dell’800
per descrivere il comportamento aggressivo di alcune specie d’uccelli che per difendere il loro
nido volano attorno all’aggressore. Il primo ad utilizzare questo termine è stato l’etologo
Konrad Lorenz che nei suoi studi così definiva il comportamento di alcuni animali della stessa
specie che, coalizzati contro un membro del proprio gruppo, lo attaccano ripetutamente al fine
di escluderlo dalla comunità d’appartenenza. Infatti, per gli studiosi del comportamento
animale il mobbing è “l’esclusione di un individuo dal branco”.
L’utilizzo di un termine di derivazione anglosassone è sembrato il modo più opportuno
per definire il processo in esame, soprattutto per la sua sinteticità. Il termine inglese ha, al suo
interno, diversi sinonimi: work abuse, psychological terrorization, bossing, harassment,
employee abuse e bullying, ma è bene non considerarli come intercambiabili e basarsi sulla
definizione data da Leymann di mobbing. È importante specialmente fare chiarezza sui
termini mobbing e bullying: il primo è più legato al mondo lavorativo, il secondo riguarda
l’ambito scolastico-giovanile.
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Si tratta di una parola nuova che descrive situazioni vecchie; tra l’altro presenti non
soltanto nel mondo del lavoro, ma anche in altri aspetti della vita sociale come, ad esempio, il
“bullismo” fra gli studenti e il ”nonnismo” nella vita militare; infatti, le dinamiche che
all’interno di un’azienda portano all’insorgere del mobbing sono anche quelle che, all’interno
di una classe scolastica o in una caserma o in gruppo di ragazzi, possono sfoggiare in
atteggiamenti e comportamenti vessatori continui da parte di uno o più vittime.
I metodi di aggressione.
In una situazione di conflitto esiste una differenza di comportamento fra uomo e
donna. Quasi tutti gli scienziati che si occupano del fenomeno hanno evidenziato che anche la
strategia mobbizzante è diversa tra i sessi. Si può ipotizzare che queste differenze risalgano
alla diversa educazione tra uomo e donna e al diverso sviluppo della persona.
Infatti, a parte qualche eccezione, lo stereotipo delle civiltà occidentali ci mostra che i
maschietti sono incoraggiati a giocare con le pistole, i soldatini, le macchinine; mentre le
bimbe con bambole, tegamini e vestitini. Di conseguenza, nell’infanzia i conflitti maschili si
risolvono con una “lotta aperta”, che può essere un semplice litigio o un vero e proprio
richiamo, o in ogni caso in modo aggressivo. I conflitti femminili invece sfociano nelle
piccole gelosie, nei pettegolezzi e nel “mettere il broncio” a qualcuno, in un modo quindi più
indiretto. Succede quindi che, una volta adulti, gli uomini hanno già avuto modo di misurare
la propria forza; mentre le donne, essendo abituate a metodi diversi, non faranno altro che
adattarli alle circostanze.
Anche Leymann ha trovato delle efficaci differenze di comportamento tra, da un lato,
mobber e mobbizzati femminili e, dall’altro, mobber e mobbizzati maschili; soprattutto per
quanto riguarda le strategie mobbizzanti. Per esempio, sotto l’aspetto psicologico, il mobber
uomo preferisce azioni passive, vale a dire che non puntano sulla cattiveria aperta ma su
quella nascosta. Il mobber donna, invece, preferisce generalmente il mobbing attivo, come:
sparlare di qualcuno, prendere in giro qualcuno davanti agli altri o far girare voci infondate su
di lui.