Le mie intenzioni iniziali di studio prevedevano alcune settimane di ricerche
bibliografiche ad Hanoi per poi svolgere finalmente la mia ricerca sul campo nel
villaggio di una delle minoranze etniche più esigue del Vietnam, i R’mam.
La scelta non era casuale.
I R’mam, secondo le ultime fonti bibliografiche vivono concentrati in un villaggio nel
distretto di Sa Thay, provincia di Kontum.
Lo studio di questa minoranza coniugava le mie esigenze di studio sul perchè una
minoranza così numericamente infima (solamente alcune centinaia di appartenenti)
fosse stata classificata ufficialmente dal Governo vietnamita come una delle
cinquantatre minoranze del paese e la curiosità di riuscire a vedere finalmente questi
celeberrimi altipiani centrali del Vietnam, luogo misterioso e teatro nel corso della
storia anche recente di presunte guerre, rivolte, morti, repressioni reali o putative che
periodicamente si riverberano a livello internazionale, spesso a cavallo delle festività
cristiane.
Il problema etnico in Vietnam, a dispetto degli attuali stereotipi circolanti sui mass
media, non è un problema di pulizia etnica, di libertà religiosa o di soppressione della
diversità culturale (intesa in senso lato) all’interno del paese da parte del Governo o
dell’etnia dominante, quella Kinh (Viet).
Il problema etnico in Vietnam è un problema di sviluppo socio-economico da parte di
un paese (o popolo) che fino a cinquant’anni fa era considerato da parte dei colonialisti
francesi come primitivo, collocato al gradino più basso nella scala della civiltà,
superiore forse solamente ai Tasmaniani o agli aborigeni australiani.
Le politiche susseguitesi a partire dall’avvento del regime comunista nel nord nel 1954
e nel sud dopo la riunificazione del 1975 sono sempre state mirate a colmare questo
divario di sviluppo socio-economico rispetto agli arroganti ex-colonizzatori attraverso
una aggressiva politica espansionistica nazionalistica, verso una sempre maggiore
autarchia.
All’interno di questa prospettiva è chiaro concepire il “problema etnico” come un
“problema nazionale” tanto che per G. Evans «if an observation can be made about the
economic transformations iniziated by the DRV in the 1950’s they had a much greater
and traumatic impact on the peasant culture of the majority Viet population than on the
people of the highlands, where the communists moved much more gently. Oddly,
vii
anthropologists elsewhere have been so fixated on tribal groups they have overlooked
this elementary fact».
1
Il Governo vietnamita così come gli etnografi vietnamiti si sono sempre adoperati per
cercare di uscire da questo stato di minorità in cui sono vissuti fino ad oggi per
diventare un paese ed una disciplina degni di rispetto a livello internazionale,
prestigiosi, sullo stesso livello di sviluppo dei vecchi paesi “borghesi/capitalisti”
scontrandosi contro i tanti nemici attentatori dell’unità nazionale, della stabilità del
Governo, dello sviluppo economico.
La schiera dei “contro”, l’antagonismo, raccoglie sempre una folta schiera di nemici:
anticomunisti veraci, boat people, americani-sti revanscisti, organizzazioni
internazionali di vario genere sensibili al rispetto dei diritti umani, in particolare nei
paesi comunisti.
Questa tesi, nelle mie intenzioni iniziali, doveva essere un “lavoro” classico sulla
cultura delle minoranze etniche attraverso una ricca ricerca bibliografica e una
relativamente breve esperienza sul terreno in un villaggio di una delle più piccole
minoranze del Vietnam coniugato con il tentativo di trasformare le idee derridiane di
différance, dell’essere e dell’origine in due principi analitici dalle potenzialità
straordinarie, quello della differenzialità e dell’assenza dell’origine dei
significanti/significati applicati ad un oggetto anch’esso altrettanto sconosciuto, gli
etnonimi.
Il principio differenziale coinvolge tutti gli ambiti antropologici in quanto capace di
reintempretare il passaggio dinamico lévi-straussiano fra la natura e la cultura come in
realtà una co-originarietà dei due significanti affermando fondativamente il loro
necessario carattere differenziale.
Non esiste la cultura senza la natura. Non esiste la natura senza la cultura.
Tornando alle minoranze etniche ed ai loro confini, i caratteri contestuali e situazionali
delle relazioni e dei confini etnici barthiani presuppongono sempre una differenza fra le
identità etniche viste dal punto di vista logico come etnonimi/significanti.
In realtà, come avviene sempre nella vita, i limiti reali e le costrizioni a cui siamo
soggetti comportano sempre delle modifiche, dei riadattamenti, dei dietro-front che
portano ad un irriducibile scarto tra l’ideale ed il reale.
Nel mio caso, la mia esperienza sul campo mi ha permesso di comprendere i due più
grossi limiti della mia idea, del mio progetto iniziale.
1
G.EVANS, “Vietnamese Communist anthropology”, Canberra Anthropology 8 (1-2), 1985, p. 130
viii
Da un lato la politica, onnipresente in ogni azione, discorso, concetto, stereotipo che
riguardi il Vietnam, in particolar modo su un argomento “scottante” ed attuale come il
“problema etnico”, che ha limitato la mia esperienza sul campo trasformandola in un
continuo tentativo di perforare questo “muro di gomma” che mi circondava.
Dall’altro l’oggetto stesso della mia ricerca sembra essere svanito ed essersi perso
irrimediabilmente in quel processo di modernizzazione, industrializzazione ed
integrazione (per usare una terminologia vietnamita) intrapreso dal paese nel periodo
post-coloniale, a sua volta incluso in quel processo mondiale in cui viviamo che si
chiama globalizzazione.
Le minoranze etniche in Vietnam, intese in termini essenzialismi, probabilmente non
esistono più e quei pochi gruppi rimasti rappresentano oramai gruppi marginali,
nascosti nelle montagne degli altipiani centrali o nelle zone più impervie della catena
montuosa delimitante il confine sino-vietnamita.
Il processo a cui si è assistito riguardo le 53 minoranze etniche del Vietnam in questi
decenni può essere definito come un processo di “etnicizzazione”, con la
trasformazione dei gruppi etnici in identità etniche e gruppi di interesse, per usare una
terminologia di Cohen, dove il contesto urbano è stato sostituito con quello nazionale.
Le minoranze etniche sono quindi innanzitutto etnonimi denotanti gruppi di interesse
senza storia fissati nell’immaginario collettivo forse dei vietnamiti ma soprattutto della
platea internazionale che abbia un minimo interesse per questo paese.
Il celeberrimo libro di Dang Nghiem Van, Chu Thai Son, Luu Hung, Ethnic Minorities
in Vietnam, nel corso delle tre edizioni del 1984, del 1993 e del 2000 è rimasto
praticamente immutato, tranne alcune novità nell’introduzione con le modifiche sulla
composizione linguistica del paese ed all’interno del libro con un aggiornamento sulla
consistenza numerica delle minoranze.
A questo riguardo il titolo dell’altrettanto celebre libro di B. Anderson, Comunità
immaginate, sembra sintetizzare perfettamente lo “status” principale delle minoranze
etniche del Vietnam, sia in prospettiva “emica” sia in prospettiva “etica”.
Le minoranze etniche sono soprattutto diventate quindi, secondo la teoria modificata di
Cohen, dei gruppi di interesse non urbani con organizzazioni informali che rivendicano
maggiori risorse per il proprio sviluppo iniziando, per la regione di Tay Nguyen, dalla
risoluzione della questione fondiaria e dall’integrazione fra la leggi vietnamite ed il
diritto consuetudinario delle esigue minoranze stesse.
ix
La decisione di fondare ad Hanoi un museo etnografico dedicato alle minoranze etniche
presenti all’interno del paese risale al 1981 ed è stata ufficialmente approvata nel 1987.
Se fino agli anni ’80 la reale, oggettiva diversità etnica doveva essere soppressa
attraverso delle politiche integrazioniste alla cultura dominante Kinh e la propaganda
governativa doveva enfatizzare i tratti comuni, il rapporto familiare, paternalistico fra i
gruppi minoritari e l’etnia maggioritaria Kinh includendo la storia stessa delle
minoranze all’interno della Storia del Vietnam, la nascita del museo etnografico segna
la presa di coscienza della ormai inesorabile scomparsa oggettiva e materiale delle
minoranze etniche e la loro eternizzazione su un piano immateriale, ideale, quello della
musealizzazione.
Gli anni ’90 segnano quindi, in concomitanza dell’apertura del paese alla comunità
internazionale ed alle organizzazioni umanitarie, una inversione di tendenza nella
politica “ufficiale” governativa con un sempre maggiore impegno da parte del Governo
nella salvaguardia e tutela dell’enorme varietà etnica rimasta presente all’interno del
paese.
Per una strana ironia della sorte, la diversità culturale doveva essere soppressa quando
era presente e tutelata quando ormai agonizzante, dando comunque un senso di
continuità alle politiche stesse governative
In tutte queste considerazioni, almeno da parte dell’autore, non ci sono aspetti
valutativi, tantomeno negativi.
Il Vietnam sta ripercorrendo le tappe dello sviluppo politico mondiale, cioè la
formazione degli Stati/Nazione integrati sia dal punto di vista linguistico,
amministrativo e soprattutto territoriale, con almeno un secolo di ritardo rispetto a paesi
come l’Italia o la Germania, due rispetto gli Stati Uniti etc.
Concordo pienamente con la dott.sa Sandra Scagliotti del Centro Studi Vietnamiti
quando afferma la necessità di considerare la storia attuale del Vietnam in una
prospettiva storicista, secondo cioè la prospettiva di questo onni-pervasivo “ritardo”
rispetto allo sviluppo mondiale, includente anche la giovane etnografia, con un apparato
teorico-metodologico classico fermo ai primi del Novecento.
Il Vietnam dopo quasi un secolo di colonizzazione ha ottenuto l’unificazione nazionale
nel 1975, più di un secolo dopo stati come l’Italia o la Germania, subendo le
conseguenze dell’unificazione e della creazione dello Stato/Nazione in una fase storica
mondiale in cui la maggior parte dei paesi aveva già concluso questo processo da
secoli.
x
In questa prospettiva unificazionista, è chiaro come qualunque tentativo separatista da
parte delle “minoranze etniche” degli altipiani centrali che attenti all’integrità
territoriale debba essere considerata inaccettabile.
Se si potesse anticipare la nascita delle varie organizzazioni per i diritti umani o del
Partito radicale di qualche secolo, sarei curioso di sapere quali sarebbero stati i loro
giudizi sulla corsa verso l’ovest (con annesso sterminio degli indiani successivamente
rinchiusi in riserve) della giovane confederazione americana, della repressione
perseguita negli anni successivi l’unificazione in Italia oppure delle reali motivazioni
della guerra anglo-boera agli inizi del Novecento.
Ritornando in ambito etno-antropologico, dalla nascita della R.S.V nel nord nel 1954
l’etnografia vietnamita ha subito una sua evoluzione endogena e filo-sovietica (sia dal
punto di vista del numero di ricercatori, della qualità della ricerca e delle strutture
istituzionali) fino agli anni ottanta per instaurare successivamente un rapporto dialettico
di cooperazione con numerose istituzioni internazionali occidentali.
Sicuramente la vera svolta per il paese è stato il VI congresso del Partito Comunista
Vietnamita del 1986 e la conseguente politica del Doi Moi (letteralmente
Rinnovamento), un cambiamento che ha avuto ripercussioni in ogni sfera del paese e
quindi anche nella giovane Etnografia comunista.
Gli anni successivi alla sua implementazione sono stati segnati da questo faticoso
percorso di rinnovamento nelle istituzioni, nelle politiche ma soprattutto nella stessa
ideologia marxisto-leninista fondamento del paese.
Quello che si è verificato nel 1986 non deve essere concepito come un reale
rinnovamento, come un cambiamento radicale nelle varie sfere, ma come apertura nei
confronti di paesi precedentemente considerati, per ragioni ideologiche e politiche,
come nemici, oppressori, colonialisti, attraverso innanzitutto il ripristino delle normali
relazioni internazionali bilaterali (dopo la fine dell’occupazione Cambogiana nel 1989,
la fine dell’embargo americano nel 1993 e l’ingresso nell’ASEAN nel 1995) e l’inizio
di un dialogo successivamente trasformatosi in collaborazione e cooperazione con molti
paesi.
Il risultato di due anni di ricerche è una tesi divisa in due parti.
La prima parte, a differenza dei pochi documenti esistenti a riguardo (tranne alcuni
lavori di O.Salemink, P.Koh e P.Pelley) che studiano l’etnologia vietnamita da una
prospettiva storico-politica nei confronti delle minoranze stesse, analizza in modo
xi
completo lo sviluppo istituzionale e le caratteristiche dell’etnografia vietnamita
concentrandosi successivamente sulla classificazione etnica secondo una prospettiva
etno-politica e soprattutto diacronica.
L’Etnografia o Antropologia vietnamita non è un fenomeno sociale statico e neanche
omogeneo al suo interno, caratteristiche forse comuni a qualunque fenomeno sociale
quando analizzato rigorosamente e forse uno dei maggiori meriti di questo lavoro è
proprio quello di dare un senso storico, un movimento ad una disciplina considerata
finora staticamente.
Nel capitolo I si delinea lo sviluppo istituzionale della disciplina sia in ambito
universitario, sia in ambito governativo cercando di mostrare il suo sviluppo secondo
una sempre crescente autarchia e ricerca di prestigio da parte degli etnografi vietnamiti.
All’interno di questo sviluppo, le svolte maggiori dell’etnografia vietnamita sembrano
essere da un lato la separazione istituzionale (e molto formale!) dell’Etnografia dalla
Storia avvenuta nei primi anni ’90 a seguito della nuova politica del Doi Moi, dall’altro
il cambiamento epocale di inizio secolo con la trasformazione “teorica” dell’etnografia
vietnamita in Antropologia secondo il modello anglofono.
Il capitolo II illustra in sequenza come viene concettualizzata l’etnologia nell’ambito
universitario attraverso la sua definizione, la sua posizione all’interno delle scienze,
l’oggetto teorico di ricerca, le finalità reali dell’etnografia vietnamita, le sue
caratteristiche peculiari derivanti dal collocamento del paese sotto la iniziale
dipendenza ed influenza ideologica della madre-patria sovietica con la sua conseguente
somiglianza con “l’etnografia” dei paesi comunisti confinanti ed infine i suoi limiti,
riassumibili nel suo carattere descrittivo, nella scarsità di risorse finanziarie e nella
totale dipendenza dalla Politica nazionale.
Nel capitolo III, il primo paragrafo delinea una storia delle classificazioni etniche in
Vietnam susseguitesi attraverso le vari fasi storiche a partire dal colonialismo per
terminare con l’ultimo censimento nazionale disponibile del 1999, smentendo lo
stereotipo dell’ideologia comunista vietnamita sulla associazione fra le politiche divide
et impera attuate anche dai colonialisti e le classificazioni tendenti a rendere una
visione complessa e variegata della composizione etnica del paese.
Fra tutte le classificazioni etniche proposte più o meno “ufficialmente” in Vietnam, la
lista provvisoriamente ufficiale del 1979 è di gran lunga la più numerosa.
xii
Anche in questo caso sembra esserci una apparente contraddizione fra il piano dei fatti
e quello delle idee, delle categorie o più generalmente del linguaggio portante ad uno
“strano” paradosso.
Se per i colonialisti la loro politica di alleanze e divisioni fra le varie componenti
etniche del paese doveva essere celata da una classificazione sommaria tendente a
mostrare il carattere poco frammentario del paese, per il giovane Governo comunista la
necessità di rispondere politicamente ad alcune promesse “vendute” durante le guerre di
indipendenza, soprattutto per quanto riguarda la politica della nazionalità e l’annesso
principio di autodeterminazione, dovevano in qualche modo essere realizzate attraverso
il riconoscimento di alcuni gruppi etnici precedentemente inesistenti.
La classificazione etnica del 1979 non è una classificazione più scientifica delle
precedenti - in quanto questo attributo non deriva necessariamente dall’applicazione di
criteri (pseudo)scientifici - ma sicuramente è la classificazione più precisa che il paese
abbia mai avuto, grazie soprattutto al “giocare in casa” da parte degli etnografi
vietnamiti rispetto agli studiosi stranieri.
Se da un lato la scientificità stessa dei criteri è indimostrabile e la loro applicazione
concreta non controllabile, dall’altro le enormi difficoltà che ancora oggi affliggono
l’eterno lavoro di classificazione derivano indubitabilmente dalla persistente
concezione primordialista del gruppo etnico, o detto in termini marxisti da una
concezione materialista dei gruppi etnici e dei loro confini.
La seconda parte del capitolo tratterà quindi la concezione primordialista dell’etnicità
come derivante dalla definizione staliniana della nazione in quanto risultato delle teorie
evoluzioniste, diffusioniste e malinowskiane del volgere del secolo ereditate dalla
tradizione etnografica sovietica post-rivoluzionaria ed acquisite come dogma
successivamente dai più giovani rivoluzionari vietnamiti con la Rivoluzione d’Agosto.
D’altronde, se potessimo immaginare il buon vecchio Marx alle prese con la recenti
concezioni idealistiche, dinamiche e situazionali dei gruppi etnici probabilmente
assisteremmo ad una morte per infarto fulminante.
La sfida incessante della perfetta adeguazione di uno o più criteri più o meno “ufficiali”
alla ricerca di una classificazione definitiva sembra dunque essere persa in partenza ed
essere un fatto probabilmente già noto agli stessi etnografi vietnamiti e segretamente
celato.
La classificazione etnica non è fine a se stessa ma viene effettuata con l’intento di
controllare ad ogni passo i risultati reali e materiali del processo etnico di
xiii
rimescolamento, di omogeneizzazione etnica, dello sviluppo socio-economico per la
nascita di un nuovo soggetto ad immagine e somiglianza dell’etnia maggioritaria Kinh,
il vietnamita.
La seconda parte della tesi mostra invece le minoranze etniche del Vietnam non sulla
base di una classica ricerca bibliografica da tavolino ma attraverso la mia esperienza
personale sul campo, un’esperienza molto estensiva (e poco intensiva) attraverso buona
parte del paese, che rende quindi la descrizione stessa non una vera e propria etnografia
ma una specie di racconto molto realistico sulla situazione attuale e concreta delle
minoranze etniche all’interno del paese scritto da un “turista” un po’ particolare.
Il risultato sarà, per molte persone che abbiano un minimo di informazioni o interesse
sul “problema etnico” in Vietnam, probabilmente inaspettato e sconcertante.
Sbaglia chi crede che le tensioni fra i gruppi etnici ed il Governo siano ristrette alle
minoranze presenti negli altipiani centrali del Vietnam.
Con mia stessa meraviglia, la mia esperienza settimanale nella provincia di Dien Bien
(che per questioni di tempo non ha potuto essere inclusa in questa tesi) mi ha fatto
capire come il problema etnico in Vietnam sia un problema di sviluppo socio-
economico che coinvolge tutte le minoranze etniche considerate sotto un’unica
categoria, senza distinzioni geografiche o altimetriche.
Le stesse difficoltà incontrate a Kontum e dintorni, la stessa tensione che circondava le
minoranze di Dien Bien sono purtroppo ricomparse durante tutto il mio soggiorno in
questa zona montuosa del nord-est del paese.
Il capitolo IV racconta la mia esperienza in quel luogo fino poco tempo fa oscuro che
sono gli altipiani centrali attraverso una rocambolesca avventura in una zona altamente
“sensibile” e pericolosa per gli stranieri eccessivamente curiosi.
Difficile descrivere come immaginassi gli altipiani centrali e Kontum prima del mio
arrivo.
Di fatto, le sensazioni che percepivo erano simili alla paura, la classica paura che una
persona può avere di qualcosa che non conosce, dell’ignoto.
La scoperta degli altipiani centrali ha fatto sicuramente cadere in disgrazia quasi tutte la
fantasie circolanti attraverso i vari enti ed organi di stampa e mostrato questa regione
nella sua vera veste: una vasta zona pianeggiante, molto fertile, soleggiata e ricca di
corsi fluviali pronta per essere sfruttata e soggiogata agli imperativi di sviluppo socio-
economico del paese.
xiv
Il giorno cruciale per la riuscita di questa breve incursione fu probabilmente la
decisione presa ad Hanoi di dirigermi verso Hoi An e cercare successivamente una
guida per raggiungere Kontum.
L’alternativa che si prospettava era di raggiungere gli altipiani centrali in aereo
attraverso l’aereoporto di Pleiku per poi cercare una guida sul posto, una scelta
sicuramente più comoda e veloce ma…quale guida avrei trovato?
Quasi sicuramente nessuno, rendendo vano il mio soggiorno.
La mia riottosa moto-guida, nonostante tutto, mi ha sicuramente permesso di viaggiare
molto all’interno delle due province superiori di Kontum e Gia Lai e di avere forse una
visione chiara della situazione in questa “regione” del Vietnam.
A Kontum la vita scorre come in tutti gli altri paesi del Vietnam, con i fantomatici
villaggi dei Bahnar relegati alle periferie del paese.
Non esiste nessuna militarizzazione della zona e l’impossibilità di muoversi in quelle
zone è il risultato della mancanza di infrastrutture più che di reali impedimenti
governativi.
Non esiste violenza o repressione fisica nel rapporto fra i Kinh e gli autoctoni degli
altipiani centrali, semplicemente perché non è necessario.
I Kinh sono il “gruppo etnico” dominante politicamente, demograficamente,
tecnicamente ed economicamente e naturalmente si impongono sulle poche minoranze
ancora presenti nei loro territori atavici.
Il rapporto del Governo nei confronti dei Montagnard di Tay Nguyen non viene gestito
attraverso il monopolio della forza da parte di uno Stato pienamente sovrano ma
attraverso un controllo serrato della vita delle “minoranze” soprattutto per mezzo di un
imponente lavoro di propaganda alla ricerca costante di un consenso il più possibile
vasto.
Gli elementi che accomunavano tutte le giornate in cui sono rimasto in quella zona
erano la riottosità di H. nell’esaudire le mie volontà, la scontrosità e diffidenza dei
vietnamiti (Kinh) che incontravo e la perenne sensazione (e quasi certezza!) di essere
controllato, sia in hotel che all’esterno.
Il “problema etnico” negli altipiani centrali è un falso problema nato inizialmente dalla
creazione di “Stati autonomi” nella regione di Tay Nguyen (chiamati Tay Ky) e nel
nord del paese
2
da parte dei colonialisti francesi durante la prima guerra indocinese,
promesso dal Governo comunista rivoluzionario del nord, enfatizzato dalla “creazione”
2
VIET CHUNG, “National minorities and nationality policy in the R.D.V.”, VNSS n°15, 1968, p. 4.
xv
di quel movimento elitario noto come etno-nazionalismo a cui G.C.Hickey ha
contribuito durante la seconda guerra indocinese ed infine dopo il 1975 pubblicizzato
dalle varie organizzazioni internazionali definite genericamente come anti-vietnamite.
Con le parole di Salemink: «nor do I take the ‘perennial antagonism’ for granted that
mostly French and American anthropologists have assumed to exist between Kinh
(ethnic Vietnamese) and Montagnards … I have argued that this was a (neo)colonial
fiction which was partly realized through decades of foreign intervention».
3
Gli altipiani centrali sono allo stato attuale una enorme distesa di terreno fertile e
dissodato dalle enormi potenzialità dove non esistono impedimenti materiali o tecnici
per la realizzazione di una pacifica convivenza fra gli autoctoni e gli immigrati Kinh o
di altre minoranze del nord.
Se prescindiamo dalla fattibilità reale della pacifica convivenza ciò che rimane rientra
nella sfera dei sentimenti, dell’odio profondo e radicato fra autoctoni che si vedono
espropriare le loro terre, i coloni che li considerano solamente come nemici e
concorrenti al loro benessere personale ed il Governo che si scontra contro la riottosità
di persone che si oppongono allo sviluppo socio-economico del paese
Infine il capitolo V.
Il fallimento della “missione” di Kontum mi portò a ripiegare verso la terza delle
microscopiche minoranze del paese, gli O’Du, situati geograficamente in una zona
abbastanza lontana da Tay Nguyen.
Quella che si sarebbe concretizzata di lì a poco sarebbe stata una delle esperienze più
straordinarie della mia vita, tanto breve quanto intensa.
Gli interessi di fondo che guidavano il mio tentativo nel distretto di Tuong Duong nella
provincia dello Nghe An continuavano ad essere sempre gli stessi, lo studio degli
etnonimi e la comprensione delle reali motivazioni per cui dal 1979 gli O’Du sono
classificati ufficialmente come una delle 53 minoranze presenti all’interno del paese.
Il clima che incontrai al mio arrivo a Hoa Binh era sicuramente opposto a quello
percepito precedentemente a Kontum-Pleiku e successivamente nei dintorni di Bien
Bien.
La remotezza del posto e l’inesistente interesse turistico della località comportavano, da
parte delle persone, un ambiente molto tranquillo e disteso dove la mia presenza
finalmente non passava inosservata tanto che le camminate lungo la via principale di
3
O.SALEMINK, The Ethnography of Vietnam’s Central Highlanders, Londra, Routledge Curzon, 2003, p. 258.
xvi
questo piccolo paese davano sempre luogo ad eccessive attenzioni e bisbigli da parte
degli abitanti del luogo.
Il tragitto in lancia per risalire il fiume Ca attraverso un paesaggio molto selvaggio,
l’accoglienza al villaggio di Xop Pot e le successiva festa tenuta in nostro onore la sera
rendono questa esperienza qualcosa di irripetibile ed indimenticabile.
Indubbiamente gran parte del merito deve essere assegnato a questa piccola e fantastica
donna che è N., senza la quale anche questo tentativo di perforare il famoso “muro di
gomma” sarebbe stato probabilmente nullo.
A differenza di tutte le altre (pseudo)guide ingaggiate in questo paese, lei è stata l’unica
a credere nella mia buona fede di antropologo (?) e a volermi veramente aiutare in
questa mia missione impossibile.
Per una volta, solo per una volta l’ideale aveva coinciso con il reale e tutto quello che
una persona poteva immaginarsi da una visita ad un vero villaggio si era realizzato.
Probabilmente non sono riuscito a “sfruttare” in pieno questa opportunità.
La mancanza di una precedente pianificazione e gestione della visita associata alla
difficoltà di comunicazione fra me e N. ed ai fumi dell’alcool conseguenti dei numerosi
brindisi hanno sminuito le mie potenzialità etnografiche.
Nonostante tutto, tralasciando una approfondita trattazione sugli etnonimi per questioni
di tempistiche, uno scopo è stato raggiunto.
Gli O’Du furono classificati nel 1979 grazie all’applicazione di uno dei tre criteri
ufficiali stabiliti nelle due conferenze del 1973, quello psicologico dell’autocoscienza
etnica.
Gli appartenenti a questa curiosa minoranza indubbiamente si riconoscevano come un
gruppo etnico distinto e si categorizzavano attraverso il proprio autonimo, O’Du
appunto.
Il problema che sorgeva, quindi, derivava direttamente dall’applicazione stessa di
questo criterio psicologico, la cui portata in mancanza di un “controllo” avrebbe
comportato la nascita di centinaia di gruppi (o identità?) etniche all’interno del paese.
Da un lato l’enorme valenza politica di questo principio in quanto derivante dalle
politiche delle nazionalità perseguite prima in U.R.S.S. e poi in Vietnam e
dall’associato principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Dall’altro la pericolosità stessa del principio per cui l’automatica applicazione ad ogni
richiesta da parte dei vari gruppi avrebbe comportato la disintegrazione etnica (reale o
immaginaria) del paese ed una sua maggiore instabilità politica.
xvii
Le reali motivazioni per cui gli O’Du furono classificati tali nel 1979, a dispetto della
vulgata ufficiale riguardo all’applicazione del terzo criterio (quello psicologico), non
rientrano nei precedenti tre criteri “ufficiali” ma nei due reali, non ufficiali, sovrastanti
ed onnipervasivi criteri sottostanti le varie classificazioni etniche, la Storia e la Politica.
Innanzitutto gli O’Du sono una minoranza etnica perché storicamente emigrati in un
periodo più o meno lungo ed indeterminato dal Laos ed insediatisi nei distretti
circostanti Hoa Binh.
Uno dei metodi principali utilizzati dagli etnografi vietnamiti sul campo può essere
paragonato al metodo genealogico di Rivers con la lieve differenza che per gli etnografi
vietnamiti il fine non consisteva nello studio delle terminologie di parentela ma nella
determinazione delle genealogie etniche, ciò che normalmente viene definito in gergo
lo studio dei processi etnici.
In realtà gli O’Du sono una minoranza etnica storicamente distinta solamente a patto
che la Storia stessa termini con la nascita stessa degli O’Du qualche secolo prima.
L’applicazione del criterio storico-genealogico per la classificazione etnica “blocca” in
realtà l’incessante processo di etnogenesi per assimilazione e scissione da parte di
“gruppi etnici” visti in una prospettiva primordialista e della infinita creazione e ri-
creazione della identità etniche viste in una prospettiva costruttivista (o cognitivista).
In secondo luogo, la stessa Storia degli O’Du - invece di essere nascosta ed annullata
secondo la sempre progressiva tendenza alla riduzione della complessità etnica - è stata
resa pubblica, dimostrando indubitabilmente il successo delle politiche governative
nella salvaguardia e nella preservazione della cultura minoritaria, in particolar modo in
casi di minoranze microscopiche diversamente destinate all’estinzione.
Non è probabilmente casuale il fatto che, dopo il tentativo fallito di ridurre il numero
delle etnie presenti nel paese nel censimento del 1989 (fra cui gli O’Du) a causa dei
timori della sempre attenta comunità internazionale, il censimento decennale successivo
indichi per gli O’Du dei tassi demografici medi annualizzati altissimi, con il passaggio
della popolazione da 32 a 301 persone fra i due censimenti.
4
Scopo di questa tesi è il tentativo di fornire uno sguardo oggettivo sulla situazione
etnica del Vietnam, una comprensione delle reali motivazioni sottostanti al “problema
etnico”, una tesi scritta principalmente dai vietnamiti e per i vietnamiti dove l’autore si
è arrogato il diritto di creare lo sfondo all’interno del quale sia possibile trovare una
4
KHONG DIEN, Population and Ethno-demography in Vietnam, Chiang Mai, Silkworm Books, 2002, pp. 141, 301.
xviii
razionalità nelle politiche del Governo, nelle “risposte” a tali politiche da parte delle
minoranze stesse e nell’atteggiamento di una parte faziosa della comunità
internazionale sempre pronta a creare tensione negli altipiani centrali.
Niente all’interno di questa tesi è casuale e sarà probabilmente un diletto per il lettore
riuscire a carpire le reali motivazioni dell’autore.
Per concludere, per quanto durante il corso dei miei studi avessi odiato l’idealismo
hegeliano, la fine di questo mio poderoso impegno mi porta ad una mia personale
apostasia riguardo al mio precedente materialismo filosofico: in fondo tutto ciò che è
reale è razionale.
xix