Al di là dell’inquadramento a un più esteso contesto internazionale della discussione sulle
problematiche nazionali, lo studio prende in analisi la situazione specifica del mercato del lavoro in
Campania. Ampio contenuto del capitolo sulla valutazione di impatto delle politiche del lavoro in
Campania è frutto di una rielaborazione del Rapporto di valutazione, pubblicato nel 2006. Si tratta
del risultato di un lavoro compiuto negli ultimi anni dall’Agenzia della Campania per il Lavoro, e
orientato alla definizione e costruzione di un quadro completo di rilevazione delle informazioni sul
mercato del lavoro attraverso l’utilizzo di dati provenienti da fonti diverse. Fonti ufficiali di tipo
statistico o amministrativo, quali le rilevazioni effettuate dall’Istat o gli archivi amministrativi
dell’Inps, e produzione di informazioni proprie attraverso la realizzazione del Sistema Informativo
del Lavoro che fornisce informazioni provenienti dagli archivi amministrativi dei Centri per
l’Impiego.
L’obiettivo principale del richiamo specifico a un caso territoriale è quello di inserire nella
trattazione temi e connotati strettamente aderenti alla realtà del nostro Paese. L’esposizione del caso
della Campania consente di indagare su problematiche attuali: c’è da chiedersi se le politiche del
lavoro, per loro natura selettive e mirate, siano state indirizzate in modo coerente a rimuovere le
distorsioni e gli squilibri dei mercati del lavoro locali. I risultati dell’analisi empirica sottolineano
come le politiche attive condotte in questi ultimi anni non hanno inciso in maniera significativa
sull’andamento delle variabili obiettivo del mercato del lavoro. Inoltre, confrontando i dati stimati
per diverse ripartizioni territoriali, si può notare che le politiche poste in essere hanno prodotto degli
effetti asimmetrici: gli effetti sono maggiori nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno e alla
Campania. L’esigenza di dare risposte in termini di opportunità di lavoro e di qualità del lavoro, di
contrastare le condizioni di precarietà che sempre più caratterizzano i nuovi lavori, soprattutto per i
giovani, rende evidente che gli strumenti a disposizione del policy maker sono un mix di azioni che
vanno dalla scelta delle finalità e delle priorità dell’intervento pubblico nel mercato del lavoro,
all’individuazione degli strumenti, alla gestione dell’allocazione delle risorse finanziarie, alla
gestione efficiente dei provvedimenti e alla verifica dell’efficacia degli interventi posti in essere.
Il Rapporto di valutazione sulle politiche del lavoro si riferisce prevalentemente all’operare di
strumenti di politica del lavoro in essere nella fase precedente all’introduzione delle modifiche
normative contenute nel D.Lgs 276 del 2003 di attuazione della Legge 30/2003. Da questo punto di
vista, esso rappresenta un interessante e utile base di confronto per le analisi future sull’impatto dei
nuovi provvedimenti sul funzionamento del mercato del lavoro in generale e sul mercato del lavoro
regionale. Infatti, al momento attuale, non è agevole fornire una valutazione, dal punto di vista della
teoria economica, sugli aspetti della riforma del mercato disegnata dalla “legge Biagi”. Il compito
non è agevole perché la riforma è relativamente recente, pertanto, non ha ancora determinato un
sufficiente cambiamento nelle scelte dei soggetti (imprese, lavoratori, sindacati). Come per qualsiasi
norma non marginale, è facile prevedere che dei cambiamenti ci saranno, sicché il mercato del
lavoro, dopo la riforma Biagi, sarà diverso. Questo, appunto, perché un cambiamento della
normativa determina sempre un mutamento dell’insieme delle possibilità di scelta per i soggetti
coinvolti. Quel che è meno facile prevedere è quali saranno questi cambiamenti; se essi andranno
nella direzione voluta dal legislatore o se, invece, andranno in direzioni impreviste e inattese. Di
fronte a un cambiamento della norma, di qualsiasi norma, i mercati hanno sempre mostrato una
capacità di reazione sorprendente; e molto spesso questa reazione ha preso direzioni molto diverse
da quelle volute, o desiderate dal legislatore. E poi, ammesso che si riesca ad avere un’idea non
troppo vaga e provvisoria delle direzioni che verranno prese dal mercato del lavoro dopo la riforma
Biagi, la cosa più importante che si dovrebbe riuscire a stabilire è una valutazione dei risultati dal
punto della performance del mercato.
Non disponendo di un’adeguata mole di informazioni in riguardo, specie per quanto concerne
i riscontri empirici, nel lavoro si preferisce riportare una valutazione macro dell’impatto di
differenti approcci di intervento sul mercato del lavoro, fornendo i risultati di un contributo
metodologico dal quale è possibile ricavare informazioni utili per la programmazione e
l’impostazione di policy. Ciò ha implicato un ampliamento del discorso, il modello ha introdotto
variabili non esplicitamente affrontate nel corso del lavoro. Agli occhi del lettore, può apparire
inopportuno il parziale discostarsi dell’argomentazione dall’orientamento di fondo della tesi, una
tesi fondamentalmente protratta alla valutazione delle problematiche connesse alla flessibilità del
lavoro, e all’approfondimento degli aspetti di precarietà del mondo del lavoro. In realtà, si tratta di
un utile approfondimento, coerente soprattutto nella fase di stima degli effetti sul tasso di
disoccupazione del ricorso a tipologie contrattuali “atipiche”.
Il lavoro si conclude con una significativa descrizione del mondo dei lavoratori atipici. Sono
riportati i risultati di un’indagine che traccia il profilo del lavoratore atipico, cercando di analizzarne
le caratteristiche, le specificità, i fabbisogni, gli aspetti di soddisfazione e insoddisfazione riguardo
alla propria condizione lavorativa e professionale, i desideri e le aspettative per il futuro. Inoltre,
sono commentati gli interventi di alcuni filosofi sul tema della precarietà esistenziale connessa alla
precarietà del lavoro. In ultima analisi, è riportato un recente rapporto della Commissione Europea,
redatto sulla base di un’indagine che pone l’accento su problemi di precarietà derivanti dalla
insicurezza del posto di lavoro, mettendo in evidenza conseguenze di precarietà sociale, in termini
di integrazione personale e atteggiamenti verso la società, che propongono nuove sfide alle politiche
di coesione sociale nei Paesi membri dell’Unione Europea.
I. FLESSIBILITÀ E PRECARIETÀ DEL LAVORO IN
ITALIA
1. Alcune informazioni sul lavoro flessibile in Italia
In Italia la tensione verso una crescente flessibilità del lavoro, da entrambi i lati della domanda
e dell’offerta, sta determinando, così come accade in altri Paesi europei, il proliferarsi di contratti di
lavoro “atipici”, vale a dire di rapporti diversi da quelli di lavoro dipendente a tempo pieno e
indeterminato. Nell’ambito del dibattito sulla flessibilità del lavoro, corredato da significativi dati
statistici, si fonda l’ipotesi che l’accrescersi di tali contratti sia accompagnata da rilevanti e
crescenti aspetti di precarietà.
In particolare, i contenuti di un saggio di Luigi Frey
2
, presentati e discussi il 10 febbraio 2002
a Milano nella XXI Giornata della Solidarietà della Diocesi di Milano, fanno riferimento a quattro
aspetti della precarietà: durata e stabilità del rapporto di lavoro, condizioni monetarie di lavoro,
condizioni non monetarie di lavoro, tutela e protezione sociale dei lavoratori coinvolti. Il saggio
contiene un esame di come lo stato di precarietà sia diffuso in Italia, di quali siano le conseguenze
dal punto di vista dei lavoratori coinvolti e del sistema economico-sociale, e di quali siano le
possibili strategie volte a superare o quanto meno contenere tali conseguenze.
Ci si chiede fino a che punto la flessibilità del lavoro sia una via necessaria, anche se di per sé
non sufficiente, per migliorare le opportunità e le condizioni di lavoro di ciascun individuo
nell’intero arco della vita lavorativa.
Da un lato, la flessibilità del lavoro è stata invocata dalle imprese come una condizione
indispensabile per adattarsi alla continua mutevolezza dei fattori tecnologici e organizzativi, e
fronteggiare le difficoltà che risiedono nel conquistare o preservare posizioni competitive in mercati
sempre più internazionalizzati e in un contesto sempre più globalizzato. La flessibilità del lavoro è
stata invocata anche dai lavoratori, in vista di un migliore perseguimento del benessere. La
flessibilità è stata perseguita dai politici dietro proposta di esperti, nella comune convinzione che
2
Luigi Frey è un professore di Economia del Lavoro all’Università degli studi “La Sapienza” di Roma. Gli è stata
conferita la Medaglia d’oro di benemerito della cultura, della scienza e dell’arte nel 1978, per la continuità e il valore
dei contribuiti alla disciplina dell’economia del lavoro, pubblicati nell’arco di più di quaranta anni in saggi su riviste
scientifiche e in volumi. Nel 1982 è stato designato Grande Ufficiale della Repubblica Italiana.
tale condizione avrebbe consentito di aumentare l’occupazione dei lavoratori potenziali, con
particolare riguardo ai giovani.
Dal lato opposto, è stato sottolineato che la flessibilità del lavoro avrebbe avuto come
conseguenza una revisione del diritto dei lavoratori, orientata verso un progressivo indebolimento
delle garanzie e delle tutele in favore dei lavoratori dipendenti, con la frammentazione delle forme
associative dei lavoratori, l’affermarsi di disuguaglianze tra gruppi di lavoratori, l’emergere di
problemi di precarietà del lavoro. Tutto ciò contestualmente all’intensificarsi di tensioni connesse al
rischio di perdita del posto, incertezza del futuro, prospettive di inferiorità o addirittura di
esclusione sul piano economico e sociale.
Nel dibattito sulla flessibilità del lavoro in Italia, il lavoro flessibile nel nostro Paese è stato
sempre più identificato dapprima con il lavoro sommerso o nero, successivamente con il cosiddetto
lavoro “atipico”, inteso come il lavoro dipendente non a tempo indeterminato e non a tempo pieno.
Le informazioni quantitative sul lavoro sommerso, qualificabile come il lavoro precario per
eccellenza, sono state costruite di recente sulla base di una metodologia suggerita dall’Istat, che ha
permesso di stimare una quota di lavoro “irregolare” sul totale delle unità di lavoro standard in Italia
pari a circa il 20% (corrispondente a circa 4,5 milioni di unità di lavoro standard), di cui l’8% per
doppio lavoro e poco più del 3% per lavoro di immigrati. È opinione abbastanza diffusa tra gli
esperti che l’incidenza del lavoro “sommerso” in Italia sia particolarmente elevata (più elevata
rispetto alla maggior parte dei paesi membri) e che per il nostro paese vi sia una particolare
necessità e urgenza di emersione di tale lavoro se si vuole ridurre i problemi di precarietà del
lavoro, in termini di instabilità, carenza di protezione, insicurezza e vulnerabilità sociale o
economica.
Partendo dai dati ISTAT, il lavoro atipico è misurato sommando l’occupazione dipendente
permanente a tempo parziale, con quella a tempo determinato o “temporaneo” (sia a tempo pieno,
sia a tempo parziale). Il lavoro atipico sarebbe cresciuto in Italia dal 9,5% dell’occupazione
dipendente totale nel 1993 al 15,4% nel 2000 (Cfr. tab. 1).
Tab. 1 – Composizione dell’occupazione dipendente in Italia, per tipo di contratto di lavoro
(percentuali)
Fonte: Istat, 2001, pp. 67-68.
Tab. 2 – Occupazione dipendente in Italia dal 1993 al 1999, per tipo di contratto di lavoro
(migliaia di unità e variazioni percentuali medie annue)
Var. % medie annue
1993
1996
1999
93-96 96-99 93-99
A TEMPO
INDET.
13.712 13.229 13.413 -1,2 0,5 -0,4
Pieno 13.236 12.630 12.643 -1,5 0,0 -0,8
Parziale 476 599 770 8,0 8,7 8,3
A TEMPO
DET.
898 1.044 1.410 5,1 10,5 7,8
Pieno 613 729 962 5,9 9,7 7,8
Parziale 285 315 448 3,4 12,4 7,8
TOTALE 14.610 14.273 14.823 -0,8 1,3 0,2
di cui:
“atipica”
1.374 1.643 2.180 6,1 9,9 8,0
Fonte: Istat, 2000, p. 152.
3
La percentuale di occupazione atipica sul totale è calcolata sommando le percentuali di occupazione a tempo
indeterminato e parziale con le percentuali totali di occupazione transitoria (a tempo determinato).
1993 1996 2000
A TEMPO INDETERMINATO
Pieno 90,5 88,5 84,6
Parziale 3,3 4,2 5,3
A TEMPO DETERMINATO
Pieno 4,2 5,1 7,0
Parziale 2,0 2,2 3,1
TOTALE 100,00 100,00 100,00
di cui: “atipica”
3
9,5 11,5 15,4
Osservando la tabella 2, si nota come l’occupazione dipendente atipica sarebbe cresciuta
anche negli anni in cui l’occupazione dipendente complessiva appare nettamente diminuita (dal
1993 al 1996) con un ritmo di aumento medio annuo dal 1993 in poi del +8%. L’aumento del lavoro
dipendente atipico riguarda un’espansione molto marcata del lavoro indeterminato, ma a tempo
parziale, cresciuto dal 3,3% dell’occupazione dipendente complessiva nel 1993 al 5,3% nel 2000.
Limitando l’analisi al lavoro a tempo determinato, l’aumento è pur sempre notevole, con una quota
sull’occupazione dipendente complessiva del 10,1% nel 2000, superiore rispetto a quella
riscontrabile in Irlanda, Regno Unito e Austria. La percentuale è leggermente al di sotto rispetto a
quella rilevata in Germania, Paesi Bassi e Francia, ma nettamente inferiore a quanto riscontrabile
soprattutto in Spagna, dove circa 1/3 dell’occupazione dipendente complessiva è di carattere
temporaneo (Cfr. tab. 3).
Tab. 3 – Incidenza degli occupati con lavoro a tempo determinato/temporaneo nei paesi
dell’UE nel 2000, sul totale dei dipendenti
PAESI % PAESI %
Austria 7,9 Italia 10,1
Belgio 9,0 Lussemburgo 3,4
Danimarca 10,2 Paesi Bassi 14,0
Finlandia 17,7 Portogallo 20,4
Francia 15,0 Regno Unito 6,7
Germania 12,7 Spagna 32,1
Grecia 13,1 Svezia 14,7
Irlanda 4,7 UE a 15 13,4
Fonte: Eurostat, European Social Statistics-Labour Force Survey Results-2000, Ufficio delle Pubblicazioni
delle Comunità Europee, Lussemburgo, 2001, pp. 114-115.