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Stiamo parlando della vicenda di Giordano Bruno, un uomo, un filosofo,
un libero pensatore, un martire, su cui tanto si è scritto e tanto, ancora,
crediamo, sarà scritto, cercando in tutti i modi di presentare la storia e il
pensiero di quest’uomo per avvalorare una o l’altra idea, uno o l’altro
schieramento, utilizzando anche ogni sottigliezza sofistica per assecondare tesi
che anche totalmente si distaccano dalla realtà tragica, che vede la sua
immagine più eloquente nel rogo del 17 febbraio 1600.
La letteratura anticlericale della seconda metà dell’Ottocento aveva con
forza ripreso la figura di quest’uomo per farne il simbolo della ripresa della
lotta al dogmatismo e al potere ecclesiastico ed anche per stimolare una
riforma all’interno stesso della Chiesa, vista la non convenienza ad una
cancellazione totale di un magistero che, con un’opportuna rivisitazione,
sarebbe risultato comunque di una grande utilità sociale, come lo stesso Bruno
aveva secoli prima insegnato.
Ben poco ci rimane di quella letteratura che, anche se non scomparsa
completamente, è stata quasi del tutto cancellata dalla memoria, con un’attenta
ed acuta edizione di nuovi studi e monografie, aventi quale scopo, tranne rare
eccezioni, di portare l’attenzione su questioni spesso formali o del tutto prive
d’importanza, tralasciando quelle che un secolo fa erano considerate questioni
centrali della questione bruniana, quali, per l’appunto, l’anticlericalismo e la
lotta di potere fra le varie Chiese d’Europa.
Da Gentile in poi tutta la bibliografia bruniana italiana ha assunto un
taglio, per così dire, formale, tralasciando quegli slanci e quelle libere
interpretazioni che avevano caratterizzato la letteratura precedente, e si è
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andati molto più cauti in ogni tipo di giudizio, essendo, nel frattempo,
l’argomento diventato molto più “scivoloso”.
Una svolta radicale si è avuta quando la bibliografia italiana ha dovuto
fare i conti con un libro di portata rivoluzionaria, per le interpretazioni
bruniane più in voga fino a quel momento, un libro inglese che, dopo la sua
edizione, ha costretto tutti i successivi scrittori bruniani a dover fare i conti con
questa nuova e potente interpretazione che veniva fatta del pensiero bruniano.
Stiamo parlando di Giordano Bruno and the Hermetic Tradition di Frances
Amelia Yates, un libro uscito nel 1964 che, ponendo saldamente Bruno nella
tradizione ermetica, analizzata dall’apparizione dei primi trattati ermetici fino
a tutto il periodo medioevale e rinascimentale, ha spostato l’attenzione su un
filone di ricerca che era probabilmente molto presente nel Rinascimento ma
che col tempo è andato via via scomparendo, rimpiazzato da una ricerca
sempre più formalista e staccata dalla realtà, che ha relegato il mito e il
simbolismo ad un ambito di ricerca attuato con strumenti puramente
linguistici, che mal si adattano al loro genuino significato di rimando ad un
ambito esperenziale.
Il libro della Yates ha modificato, per così dire, la prospettiva visuale
con cui guardare Bruno e ha invogliato altri a riscoprire e ad indagare scritti
che erano stati quasi del tutto dimenticati, indicando i pur frequenti richiami
del filosofo ad una tradizione che doveva essere molto viva e presente ai suoi
tempi.
Noi non abbiamo ignorato questo importante richiamo e abbiamo cercato
di mostrare come tutta la conoscenza bruniana, una conoscenza che affonda le
radici nell’ermetismo e nel simbolismo ad esso associato, possa essere legato
9
ad un importante tentativo di riforma universale politica e morale, un tentativo
certo non attuato da solo, ma che vide probabilmente in Bruno il teorico ed
anche uno dei più importanti uomini d’azione.
Il nostro studio analizza tre opere bruniane, lo Spaccio de la bestia
trionfante, gli Eroici Furori e il De vinculis in genere, opera un’escursione su
alcuni dei trattati ermetici del Corpus Hermeticum, per ritornare ad analizzare i
movimenti di Bruno in Europa, la sua posizione nella disputa cosmologica
dell'epoca e le sue dichiarazioni nella fase veneta del processo.
Il primo capitolo pone l’accento sul primato delle immagini nel processo
conoscitivo e di come questo primato sia alla base dei procedimenti
mnemonici legati all’Arte della Memoria, una tecnica di ricordo basata sulle
immagini che Bruno aveva iniziato a studiare fin dagli anni del convento e che
egli trasformerà, col tempo, in uno schema mentale “magico”, combinando
arte classica e lullismo e cercando, in tal modo, di proporre schemi simbolici
che potevano avere una valenza politica, come è nel caso dello Spaccio,
un’opera stampata a Londra e basata su uno schema mnemonico, che aveva
l’importante funzione di proporre un superamento del tradizionale
insegnamento dogmatico cristiano e sostituirlo con un modello morale più
aperto all’accettazione delle diversità e all’azione individuale, il che portava
necessariamente all’elaborazione di un corrispondente modello politico, che
vedeva nell’unione di Stato e Chiesa la soluzione per impedire alle gerarchie
ecclesiastiche di influenzare continuamente l’opinione pubblica e scagliarla
contro i governanti temporali, nel momento in cui questi non seguivano più le
direttive emanate dai capi religiosi.
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Il secondo capitolo si sofferma sugli Eroici furori, un’opera che mostra
come anche a livello individuale si può compiere un’operazione di modifica
dell’atteggiamento mentale, attraverso un uso delle immagini che opera una
vera e propria metamorfosi. Anche in questo caso, dunque, mostreremo come
ci sia sempre un’operazione mentale alla base della formazione della
personalità e, conseguentemente, dell’impulso ad agire.
Il terzo capitolo analizza una delle opere tarde di Bruno, vale a dire il De
vinculis in genere, che è un vero e proprio trattato di manipolazione politica,
che mostra la possibilità di governare le menti ed indirizzarle nella direzione
voluta dal mago o da colui che sia in possesso della necessaria conoscenza
intellettuale ed esperienza. A tal fine si mostra l’estrema variabilità delle menti
individuali e delle tecniche da utilizzare, le quali dovranno tener conto delle
differenze di aspettative e di formazione intellettuale dei “vincolabili”.
Il quarto capitolo è un’escursione su quella che la Yates ha definito
“Tradizione Ermetica”, in particolare su alcuni dei trattati del Corpus
Hermeticum, i quali mostrano un’evidente affinità con alcune tesi bruniane, in
particolare per quello che riguarda il contatto fra gli dei, che noi abbiamo
assimilato alle idee, e gli uomini, e la successiva deplorevole separazione di
questi due mondi, tesa a creare una frattura insanabile fra le idee e la realtà e la
conseguente volontà bruniana di ricomporre questa frattura.
Richiami bruniani al personaggio mitico di Ermete, da cui, appunto, è
derivato il termine “ermetismo”, li abbiamo ritrovati nel De la causa, nel
Candelaio, negli Eroici furori e nello Spaccio, dove abbiamo anche la ripresa
del famoso lamento ermetico dell’Asclepius, con la profezia dell’avvento di un
tempo di tenebre che avrebbe affuscato l’antica sapienza, in attesa di un nuovo
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tempo di luce e di verità, che Bruno vede attuabile nella sua epoca, dopo che
le ingiustizie e il disordine del mondo erano giunti ad un livello insostenibile,
secondo il suo schema di ciclicità degli eventi.
Il quinto capitolo mostra la posizione di Bruno nell’importante disputa
cosmologica del suo tempo e di come il passaggio da un universo geocentrico
e chiuso ad uno eliocentrico o onnicentrico, come nella sua proposta
cosmologica, rivestisse per lui significati ben più importanti di un semplice
cambiamento di prospettiva astrofisica. In particolare mostreremo come il
cambiamento di un modello cosmologico potesse influenzare la morale degli
individui e di come la massima autorità morale del tempo, la Chiesa Romana,
fosse molto attenta ad evitare che un simile cambiamento si ripercuotesse
negativamente sul suo ruolo di guida spirituale dei popoli dell’Occidente.
Mostreremo, altresì, come proprio in questo periodo si erano andati
costituendo, in Francia ed in Inghilterra, dei movimenti che, in qualche modo,
si richiamavano agli stessi principi che avevano ispirato Bruno nei suoi
propositi di riforma universale.
Il sesto ed ultimo capitolo mostra il fallimento storico di questo grande
progetto, avvenuto per meschini motivi di tradimento e ricostruisce, attraverso
l’analisi delle deposizioni bruniane sulla Trinità, presso l’Inquisizione veneta,
il suo pensiero teologico-morale, che si sarebbe dovuto concretizzare in un
grande movimento di riforma, dal quale, probabilmente, visti gli ultimi
sviluppi storici, non sarebbe rimasta esclusa la Chiesa Romana, pur con una
revisione radicale del proprio impianto dogmatico.
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Tutti sappiamo come è andata a finire ma, crediamo anche, per il fatto
stesso che siamo quì a parlarne, che il sacrificio di questo e di altri uomini
come lui non sia stato inutile, se è vero che queste idee hanno attraversato la
storia del pensiero di tutto l’Occidente, e che altri uomini sono stati e saranno
pronti a utilizzarle per riprendere con nuove azioni ciò che drasticamente era
stato interrotto quattro secoli fa.
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I. LA MAGIA BRUNIANA E LO “SPACCIO”
I.1. Il primato delle immagini
Se analizziamo le concezioni aristoteliche, stoiche, ippocratiche e quelle
di buona parte del pensiero greco antico, ci accorgiamo che c’è una costante
che emerge nelle loro teorie della conoscenza: l’esistenza, nella mente o nel
cuore, di un organo ricettore di immagini, capace di riflettere, nella “memoria
discorsiva”, tutte le informazioni provenienti dai sensi, nonchè di svolgere il
percorso inverso, cioè trasformare in immagini le idee contenute nella
memoria.
Aristotele parlava di “proton organon” (primo organo) fatto della stessa
sostanza (pneuma) delle stelle, intermediario fra l’anima e il corpo, capace di
trasformare in fantasmi tutto ciò che proveniva dall’anima o dal corpo, sotto
forma di idee o percezioni dei cinque sensi.
Il problema era che anima e corpo parlavano due lingue non solo diverse, ma
inaudibili una per l’altra, per cui occorreva un decodificatore interno in grado
di farli comunicare fra loro, e questo decodificatore era, appunto, il “proton
organon”. Inoltre, il fantasma ha una preminenza assoluta sulla parola, per cui
esistono due grammatiche, una della lingua parlata e una fantastica, molto più
importante, perchè è solo attraverso di essa che l’intelletto “legge” le
sensazioni o le idee, ed è in grado di rapportarsi col mondo circostante
1
.
1
L’esposizione della psicologia aristotelica è nel De anima. In particolare, nell’ediz. a
cura di R. Laurenti, cfr. libro III, 427b-433b, pag. 160-200.
14
Gli stoici Diocle di Caristo e Zenone ripresero, in parte, le teorie
aristoteliche, attribuendo, questa volta, a un organo, chiamato “hegemonikon”,
la capacità di produrre “fantasmi comprensibili”.
Stesso concetto ritroviamo in Claudio Galeno, medico del II sec. d.C., il quale,
però, situa l’hegemonikon non più nel cuore, ma nel cervello.
2
Questa tradizione è continuata per tutto il Medioevo, tant’è che la ritroviamo
in molte delle summae più in voga nelle scuole dell’epoca. In particolare, il
“De proprietatibus rerum libri XIX", redatto fra il 1230 e il 1250 da un frate
minore, Bartolomeo Anglico, che aveva insegnato a Magdeburgo e alla
Sorbona, riprende, nel III libro, la teoria delle “virtù” dell’anima. Secondo
Bartolomeo, il cervello è diviso in tre parti: l’anteriore, sede
dell’immaginazione, il mediano, sede della ragione, e il posteriore, sede della
memoria. L’immaginazione converte il linguaggio dei sensi in linguaggio
fantastico, in modo che la ragione possa capire i fantasmi, per poi depositarli
nella memoria
La magia si basa su una certa continuità fra il pneuma (anima) individuale e il
pneuma cosmico, e instaurare un’anima dentro un corpo umano, dopo aver
stabilito l’esistenza di un’anima universale nel cosmo, significa legittimare
questa corrispondenza, così come postulare un cosmo finito o infinito
comporta una revisione del relativo concetto dell’anima umana.
Ora, il Rinascimento conosce almeno quattro tipi di cosmo: il cosmo
geocentrico, finito, di Aristotele e Tolomeo; il cosmo di Aristarco e dei
2
Per una puntualizzazione sull’uso del termine hegemonikon nella Grecia classica cfr.
l’articolo di F. Adorno Sul significato del termine hegemonikon in Zenone stoico in La parola
del passato, rivista di studi classici, vol. XIV. Napoli, Macchiaroli, 1959, pag 26-41.
15
pitagorici, illustrato dalla teoria “eliostatica” di Copernico; il cosmo
geoeliocentico di Eraclide Pontico, in seguito ripreso da Tycho Brahe; infine il
cosmo infinito di Nicola Cusano e Giordano Bruno, il cui centro è Dio,
presente ovunque. Nessuno di questi modelli cosmologici esclude l’ipotesi
della magia, essendo questa basata sulla continuità fra uomo e mondo. Ciò che
puo cambiare è il tipo di corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo e la
posizione più o meno nobile dell’uomo e di Dio nel cosmo. In particolare, la
posizione di Bruno, distribuendo Dio in ogni punto dell’universo, restituisce
prestigio metafisico alla Terra e all’uomo, dopo che i rigidi cerchi aristotelici
avevano nettamente distinto una regione corruttibile sublunare da una, invece,
eterea e incorruttibile al di là della luna.
Un’ antica disciplina di origine caldea, l’astrologia, aveva generato l’ipotesi di
un’informazione cosmica prenatale, che si imprime nell’anima e determina il
destino degli individui. A partire dal II sec. d.C., quest’idea si è combinata con
la dottrina dell’incorporazione dell’anima, della sua discesa sulla terra e del
suo ritorno ai cieli. La gnosi popolare del II sec. d.C. aveva fatto propria la
dottrina astrologica della caduta dell’anima dalla sua sede celeste sulla terra,
rivestendosi, nel corso della caduta, di una serie di concrezioni materiali.
Una concezione simile la ritroviamo nel Corpus hermeticum, in particolare nel
primo trattato, il Poimandres, che racconta la discesa dell'uomo primordiale
nel cosmo e il tragitto dell'anima attraverso i pianeti nel corso del suo ritorno
alla patria celeste
3
. La combinazione dell'antica idea della discesa dell'anima
dal cielo con uno schema cosmologico di origine greca ha avuto probabilmente
3
Dell’ermetismo e del Corpus Hermeticum parleremo diffusamente più avanti.
16
luogo nei circoli gnostici egiziani.
L'astrologia occultistica rinascimentale ha attribuito ai pianeti, alle case e ai
decani dello zodiaco delle entità personali, i demoni, oppure delle figure
animali, rappresentanti facoltà dell'anima. Del resto, la parola "zodiaco"
(zodiakos) significa "cerchio animale". Non infrequente è l'uso di porre degli
"dei" in ognuno dei decani, rappresentanti ognuno un'"idea", per cui la
contemplazione del cielo diventa contemplazione degli dei o delle idee. Lo
stesso termine "teoria", che di solito correliamo a una dottrina astratta, deriva
dal greco theoria, "contemplazione degli dei".
4
Eugenio Garin, citando Aby Warburg ne Lo zodiaco della vita, sostiene che
“l’astrologia è il luogo d’incontro fra l’esigenza di sistemazione razionale
propria della scienza greca e i miti e le superstizioni ereditate dall’Oriente, fra
logica e magia, fra matematica e mitologia.”
5
A. J. Festugière nel suo Ermetismo e mistica pagana riassume così la vicenda
dell'ensomatosis, cioè discesa nel corpo, dell'Uomo primordiale: "Quest'uomo
ideale, a cagione di una caduta le cui peripezie variano da mito a mito, ma il
cui principio è generalmente l'eros, cade nel mondo della materia, vale a dire
sulla terra. Nel corso della caduta, l'Uomo comincia di solito...a rivestire un
corpo astrale o pneumatico, veicolo (ochema) del nous (che non può avere
contatto diretto con la materia) intermediario tra il nous immateriale e le
concrezioni sempre più terrene che gli si attaccano; poi, a mano a mano che
4
Spingendoci più in là potremmo pensare che il "mondo delle idee" altro non sia che il
mondo degli dei e che chi crede negli dei non fa altro che credere nelle idee.
5
E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al
Cinquecento, introduz. Roma-Bari, Laterza, 1994, pag. XIII.
17
attraversa la sette sfere (o, in altri miti, i dodici segni zodiacali), quest'Uomo-
nous riveste, oltre a tuniche, anche i vizi dei sette pianeti..., ed è così insozzato
che si incarna infine in un corpo terrestre e si unisce alla natura materiale."
6
La differenza, quindi, fra l'uso dei sette arconti gnostici o i sette Governatori
ermetici o, ancora, i dodici segni zodiacali, con le relative suddivisioni in case
e decani, dipende dal tipo di tradizione cui si fa riferimento: quello che più
conta è ciò che è contenuto in queste suddivisioni e le relazioni fra queste idee
e l'esperienza di vita.
E' su questa base che si è utilizzata l'Arte della memoria negli ambienti
monastici medioevali, come elemento di disciplina interiore del monaco.
6
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana. Genova, Il Melangolo, 1991, pag. 21.
18
I.2. L'Arte della memoria
L'Arte della memoria è una tecnica di manipolazione dei fantasmi che si fonda
sul principio aristotelico dell'assoluta precedenza del fantasma sulla parola e
dell'essenza fantastica dell'intelletto. La conseguenza che ne discende è che ciò
che si vede, per il suo intrinseco carattere di immagine, è facilmente
memorizzabile, mentre invece le nozioni astratte o le sequenze linguistiche,
per fissarsi nella memoria, necessitano di un supporto fantastico qualsiasi. Si
tratta di compiere un'operazione simmetrica rispetto al processo della
conoscenza sensibile, la quale è la traduzione in linguaggio immaginario del
mondo circostante affinchè l'anima possa prenderne conoscenza. La
conoscenza intelligibile invece rappresenta la traduzione in linguaggio
fantastico di realtà impresse nell'anima affinchè la ragione discorsiva, che è
un'istanza oggettiva, abbia modo di coglierle e impadronirsene.
Ora, le immagini non sono di per sè qualcosa di distinto dalle idee, ma solo il
modo in cui queste si rappresentano alla mente.
La tradizione canonica dell'Arte della memoria coincide con l'apparizione di
tre testi fondamentali, quali l’Ad herennium, di incerta attribuzione, il De
oratore di Cicerone e la Institutio oratoria di Quintiliano.
7
Quest'Arte inizialmente apparteneva alla retorica e consisteva nel far
corrispondere a un luogo un'immagine, che poteva valere per se stessa, oppure
per richiamare un altro concetto. Molto importante era l'ordine delle immagini
e il tipo di loci utilizzati, che dovevano essere preferibilmente luoghi deserti e
7
Cfr. Frances A. Yates, L'Arte della memoria. Torino, Einaudi, 1972.
19
solitari. A ogni immagine si poteva associare un concetto o, semplicemente,
una lettera, e l'efficacia del ricordare era dovuta anche al tipo di immagini che
si sceglievano; le immagini dovevano imitare la natura, toccare più il
sentimento che la ragione: immagini di eventi o cose grandi, inconsuete,
straordinarie, venivano ricordate meglio che non di cose consuete o banali.
Questa esposizione la ritroviamo nell' Ad herennium e nel De oratore, mentre
Quintiliano e la sua Institutio oratoria propendono per la teoria che i concetti
non evocano immagini.
Simonide di Ceo (556-468 A. C.) fu il primo a codificare le regole di
quest'arte, ribadendo che la memoria si basa sull'attenzione, sulla ripetizione e
sul riporre qualcosa di nuovo in qualcosa di già noto. Metrodoro di Scepsi
(contemporaneo di Cicerone), inventò un sistema di memoria con 360 luoghi,
ricavati dai dodici segni dello zodiaco, mentre Boncompagno da Signa (autore
di una Rhetorica novissima nel 1235) introduce le "note mnemoniche", vale a
dire le immagini come rappresentanti di virtù e di vizi. Nel frattempo il
paradiso e l'inferno diventano luoghi di memoria e la memoria diviene sempre
più il contenitore per la valutazione, dove, a seconda delle immagini evocate,
si richiamano certe virtù o certi vizi.
Nella prima metà del 1300 i frati domenicani trasformano l'Arte della memoria
in arte di meditazione, traducendo in volgare i testi ciceroniani, forse per
laicizzare l'arte stessa, fino ad allora di esclusivo dominio degli ambienti
monastici. Lo scopo di volgarizzare l'arte e renderla, quindi, accessibile a tutti,
aveva forse un significato sociale, in quanto lo sforzo individuale per formare
immagini nella memoria, incoraggiava l'inventiva individuale.
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Con l'invenzione della stampa si abbandona un pò l'arte come sistema di
memoria, mentre resta l’Ars notoria come memoria magica.
Lullo (1235-1316) invece, vedeva l'Arte come un riflesso della Trinità
nell'uomo, nel quale diventava intellectus, voluntas e memoria. Lullo
designava i concetti non con simboli corporei, ma con una lettera dell'alfabeto,
che ruotava e si combinava con altre lettere.
8
Con Giulio Camillo (1480-1544) arriviamo all'Arte della memoria come arte
occulta. Egli era convinto assertore del significato simbolico dei concetti
astratti, ivi compresi quelli rappresentati nella Bibbia. Vi sono tre mondi, a
ciascuno dei quali corrispondono tre gradi di conoscenza; l'uomo interiore è il
quarto grado, cioè Dio.
Pietro Ramo (1515-1572) invece, ugonotto, ucciso nella notte di San
Bartolomeo (1572) riprendeva le idee di Quintiliano, assorbendo la memoria
nella logica e postulando l'esistenza di una sola memoria naturale, quella data
dal discorso razionale.
9
Con la rivoluzione scientifica, infine, l'Arte della memoria passa da
metodo per fissare nella memoria il sapere, ad aiuto per scoprire nuovo sapere.
8
Bruno utilizzò un sistema simile nel suo De umbris idearum.
9
Il ramismo ebbe una certa influenza in Inghilterra, dove occorreva combattere il culto
delle immagini, di chiara ispirazione cattolica.