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Si parla così di segregazione patrimoniale, quando la legge
permette di applicare ad un patrimonio una disciplina giuridica
particolare, che deroga al principio generale dell’articolo 2740 c.c. sulla
responsabilità patrimoniale.
Sia nella versione operativa (art. 2447- bis lett. a) che in quella
finanziaria (art. 2447- bis lett. b) – la società può raccogliere fondi da
impiegare in nuovi progetti, senza dover necessariamente costituire una
nuova società.
Viene poi illustrata la disciplina degli aspetti contabili legati
all’applicazione dell’istituto: per ottemperare a quanto disposto
dall’articolo 2447-sexies codice civile, la società che ha destinati
patrimoni alla realizzazione di specifici affari, deve tenere separatamente
libri e scritture contabili. Per quanto riguarda i finanziamenti destinati,
l’articolo 2447-decies prescrive l’obbligo di identificare sistemi di incasso
e di contabilizzazione idonei a monitorare e identificare in ogni momento
i proventi dell’affare, tenendoli distinti dal rimanente patrimonio della
società.
In bilancio, la separazione contabile si concretizza in una distinta
rappresentazione nello stato patrimoniale, dei beni e rapporti facenti parte
del patrimonio destinato, e nella redazione di rendiconti separati per ogni
patrimonio destinato, da allegare al bilancio generale dell’esercizio a cura
degli amministratori. Ovviamente poi specifiche indicazioni dovranno
essere contenute nella nota integrativa, in modo idoneo a dare un quadro
preciso e completo, e agevolare la rappresentazione veritiera e corretta.
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L’indagine è poi continuata con la rappresentazione di un esempio
concreto di creazione di un patrimonio destinato, del suo regolamento,
con esposizione di dati contabili contenuti in tabelle esplicative.
Il lavoro si conclude con una parte comparativa dello strumento
studiato con istituti giuridici che presentavano profili di similitudine,
sottolineando le analogie e le differenze similari, soffermando un poco di
più l’attenzione sull’associazione in partecipazione.
La conclusione finale indica una serie di vantaggi che potrebbero
derivare dall’utilizzo dello strumento studiato.
In un contesto economico caratterizzato da forte inasprimento della
competizione globale, ma anche e soprattutto dalla scarsità e dal costo del
denaro, sia esso capitale di debito (debt) che capitale di rischio (equity),
l’introduzione di nuovi istituti e strumenti finanziari rappresenta il
tentativo di rendere più flessibile il sistema dei finanziamenti, al fine di
aumentare la competitività delle imprese anche attraverso l’accesso al
mercato dei capitali.
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CAPITOLO 1
Considerazioni sulla capitalizzazione delle imprese italiane.
Struttura finanziaria delle imprese italiane
Dai molteplici studi esaminati sul tema del presente paragrafo, ed
in particolare da quelli citati, emerge come la struttura delle fonti di
finanziamento delle imprese italiane, storicamente poco capitalizzate, sia
fortemente influenzato dalla variabile fiscale e dal ricorso agli incentivi. Il
capitalismo italiano, caratterizzato da una forte presenza di imprese di
piccole e medie dimensioni, si focalizza intorno ad un triplice nucleo:
1. la figura dell’imprenditore e della famiglia proprietaria
2. l’influenza del fisco e dei sussidi nella determinazione della
struttura del capitale
3. la storica limitatezza del mercato finanziario, nonostante gli ultimi
progressi.
La nuova struttura di valutazione del merito creditizio, apportata al
sistema banca-impresa dagli accordi di Basilea 2, basata sui “rating”,
comporta la necessità di un esame ancora più attento dei dati, singoli e/o
aggregati, della struttura finanziaria delle imprese italiane.
L’indagine svolta dall’Università di Roma Tre, in collaborazione
con il Medio Credito Centrale1, mostra l’esigenza di miglioramento della
struttura finanziaria delle imprese e di crescita del livello di
patrimonializzazione. Ciò per facilitarne l’accesso al credito bancario,
evitare loro razionamenti in termini di disponibilità e tasso d’interesse,
riducendo le probabilità di default e, conseguentemente, in relazione ai
1 Giovanni Scanagatta: Basilea 2 e la capitalizzazione delle piccole e medie imprese -27 aprile 2007,
tratto dalla rivista Basilea 2, anno IV (2007) n. 2.
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minori rischi assunti nella concessione del credito, l’assorbimento di
mezzi patrimoniali da parte delle banche.
In detto lavoro vengono utilizzati due campioni: il primo di 97.600
imprese italiane, il secondo di 239.200 imprese europee, stratificati
secondo 21 settori produttivi e 4 classi dimensionali di fatturato,
ottenendo 84 cluster di imprese italiane ed europee, sui quali è stato
possibile costruire dei benchmark e identificare delle best-practice, sulla
base di determinati indicatori di struttura finanziaria, di
patrimonializzazione e di redditività.
I livelli di benchmark sono stati costruiti, per ogni cluster di
imprese, con riferimento a due indicatori di tipo finanziario: a) il rapporto
tra patrimonio netto e totale attivo (grado di patrimonializzazione); b) il
rapporto tra passività finanziarie nette e patrimonio netto (leva finanziaria
o leverage). Per ognuno dei due indicatori, e per ciascun cluster di
imprese, sono stati calcolati la mediana (valore centrale della
distribuzione) e due percentili, il 75° percentile per il rapporto patrimonio
netto su totale attivo e il 25° percentile per la leva finanziaria. Tali indici,
facendo riferimento al totale del campione delle imprese italiane ed
europee, hanno consentito di individuare le imprese più solide sul piano
finanziario, che si collocano ad un livello pari o superiore al 75°
percentile per il rapporto patrimonio netto su totale attivo e ad un livello
pari o inferiore al 25° percentile per la leva finanziaria.
Il successivo passaggio dell’analisi è consistito nell’estrazione dai
due campioni complessivi di imprese italiane e di imprese europee, di due
sottoinsiemi di imprese efficienti o di best-practice sulla base del Roe
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(Return on equity) e delle sue componenti. Ciò al fine di ottenere una
classifica (ranking) delle imprese di ogni cluster, consentendo di estrarre
quelle eccellenti. Di tali sotto-insiemi di imprese, si è proceduto anche in
questo caso a calcolare la mediana e i percentili riguardanti i due
indicatori di patrimonializzazione e di leva finanziaria.
Da tale complessa analisi effettuata utilizzando sofisticati strumenti
e pratiche statistiche, è emerso che, a fronte del numero complessivo delle
imprese italiane per le quali sono stati calcolati i vari livelli di benchmark
(pari a 97.600) – 21.972 formavano il sotto-insieme delle imprese italiane
best-practice sulla base della classifica per redditività complessiva e sue
componenti. Sulla base di questi dati campionari, le imprese italiane best-
practice rappresentavano il 23% del totale. E’ ragionevole supporre che
queste imprese non saranno soggette a fenomeni di razionamento del
credito in ordine all’applicazione delle nuove regole, introdotte dagli
accordi di Basilea 2, riferiti ai requisiti patrimoniali minimi delle banche
per la valutazione del merito del credito.
Per contro, quasi l’80% delle imprese italiane ha una significativa
probabilità di essere razionato, tenuto conto del limitato numero di
imprese che si colloca al di sopra del 75° percentile per quanto riguarda il
rapporto tra patrimonio netto e totale attivo e al di sotto del 25° percentile
per quanto riguarda la leva finanziaria.
Dal campione complessivo delle imprese europee per le quali sono
stati calcolati i diversi livelli di benchmark, (mediane e percentili),
riguardanti gli stessi indicatori di struttura finanziaria di cui sopra, pari a
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239.200 unità, si è potuto estrapolare un sotto-insieme di imprese europee
best-practice di 93.711 unità, pari a circa il 40% del totale.
Si deduce pertanto che le imprese europee con una significativa
probabilità di essere razionate sono meno rispetto a quelle italiane: il 60%
contro quasi l’80%. Ciò dipende dal minore grado di patrimonializzazione
delle imprese italiane e dalla più elevata leva finanziaria, rispetto alle
imprese europee. Con le nuove regole di Basilea 2, la più elevata
probabilità di default per le imprese italiane, ed il conseguente peggiore
livello di rating, comporta rischi più elevati e maggiore assorbimento di
patrimonio netto da parte delle banche. E’ quindi prevedibile, per le
imprese italiane rispetto a quelle europee, un più elevato razionamento del
credito, in termini di disponibilità, e di aumento dei tassi di interesse.
L’osservazione della struttura finanziaria delle imprese italiane fa
emergere altresì che queste hanno livelli di capitalizzazione inferiori a
quelli che, negli studi di finanza aziendale e controllo di gestione,
costituiscono il range minimo/ottimale per la solidità patrimoniale, come
risultanti dalla seguente tabella (dove N = capitale proprio e K = capitale
investito totale):
N / K Commento di solidità patrimoniale
1 Massima solidità, non si fa ricorso al
Capitale di debito
> 0,66 Ottima solidità, buon equilibrio,
possibilità di sviluppo
0,55 – 0, 66 Equilibrio strutturale, sviluppo
controllato
0,33 – 0,55 Struttura finanziaria da controllare
< 0,33 Struttura finanziaria pesante, molto
indebitata
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Peraltro, nella scelta dei livelli di capitalizzazione da parte delle
imprese, va sottolineata l’importanza assunta dalla leva fiscale, di cui si
tratta nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.
Secondo DeAngelo e Masulis2, le imprese che possono usufruire di scudi
fiscali alternativi al debito, come ammortamenti e investimenti spesabili
nell’esercizio, presenterebbero gradi di indebitamento più contenuti. Con
particolare riferimento alle imprese italiane, sono state rilevate evidenze
empiriche statisticamente significative sulla validità di tale relazione3.
Per la teoria del trade-off tra vantaggio fiscale del debito e costi del
fallimento potenzialmente derivante da un debito eccessivo, si potrebbe
sostenere che un minor grado di indebitamento (e quindi maggiore
capitalizzazione) dovrebbe caratterizzare quelle imprese che presentano
maggiori probabilità di entrare in dissesto finanziario. Circostanza che
non dipende solo dalla misura degli impegni finanziari e dalla redditività
operativa mediamente attesa per farvi fronte, ma anche dalla volatilità di
quest’ultima; una maggiore esposizione al debito ed una minore
probabilità di insolvenza dovrebbero contraddistinguere le imprese
appartenenti a settori industriali caratterizzati da un minore rischiosità
(intesa come volatilità del risultato operativo).
2 DeAngelo, H. Masulis, W.H., “Optimal Capital Structure under Corporate and Personal Taxation” in
Journal of financial economics – marzo 1980 – citato in Brealey-Myers-Allen-Sandri, in “Principi di
finanza aziendale” quinta edizione McGraw-Hill, pag. 489.
3 Buttignon F. e De Leo F, “I fattori determinanti la struttura finanziaria; analisi empirica del caso
italiano” – in Finanza imprese e mercati, 1994 – citato in Brealey-Myers-Allen-Sandri, in “Principi di
finanza aziendale” quinta edizione McGraw-Hill, pag. 489.
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Ulteriori studi effettuati sulle imprese italiane4 confermano la tesi
secondo la quale ad un aumento della rischiosità aziendale corrisponde
una riduzione del grado di indebitamento.
Possiamo quindi concludere il paragrafo sottolineando ancora una
volta la peculiarità della struttura di governance delle imprese italiane,
che unitamente al sistema fiscale molto complesso, hanno comportato la
cristallizzazione nel tempo dell’insufficiente dimensione di capitale
proprio mediamente investito nelle imprese italiane.
Sarà interessante vedere, di qui a qualche tempo, se le cogenti
norme operative introdotte da Basilea 2 per favorire la stabilità del
sistema bancario e finanziario in generale, unitamente a politiche fiscali
mirate, avranno la forza di modificare una prassi consolidata da tempo.
La cronica sottocapitalizzazione delle imprese italiane: vantaggi e
svantaggi
Dagli studi di Finanza aziendale abbiamo appreso che un buon
livello di capitalizzazione presenta vantaggi e svantaggi, che il buon
imprenditore deve dotare l’impresa del mix più appropriato tra equity e
capitale di debito, mix che permetta equilibrio finanziario, redditività e
profittabilità e, ove possibile, risparmi fiscali.
Un buon livello di Capitale Netto rende l’impresa più stabile nel
tempo, meno soggetta a rischi di oscillazione del mercato, permette
4 Bonato e Faini, “ Le scelte di indebitamento dell imprese in Italia” in Operatori e mercati nel processo
di liberalizzazione – ed. Il Mulino, citato in Brealey-Myers-Allen-Sandri, in “Principi di finanza
aziendale” quinta edizione McGraw-Hill, pag. 489.