3
anche i dialoghi italiani si possano leggere come più testi (o forse,
perché no?, un unico testo) rappresentabili.
1
Teatrale, certo, è la lingua del filosofo di Nola. Una lingua assai
lontana dalla contemporanea assai in voga lingua pedantesca, e
comunque distante anche dal consueto linguaggio usato in filosofia,
che quando non era il classico latino, era un volgare che ne seguiva le
orme, calcava i passi, imitava pedissequamente. Altra cosa significa e
appare il lessico che caratterizza la prosa bruniana; sia per la
ricchezza, l’abbondanza, quasi fosse un fiume in piena di difficoltosa
arginatura; sia per la novità, non contandosi i termini creati da
Bruno, riandando al dialetto paesano, bazzicando nel bacino
linguistico del volgare fiorentino, facendo qualche incursione nel
volgare veneziano, mescolando latino e idioma, sacro e profano. Un
festival espressivo unico nel suo genere e carico di quell’immediatezza
che, passando per la vita quotidiana, che è certo anche lingua
vissuta, ci porta ancora e sempre sul palco dei teatri d’allora così
come d’oggigiorno. Teatrale, infine, è l’eroico furore che allora coglieva
Bruno, rendendolo servo volontario di Venere celeste e di Diana,
omaggiando con rispetto e dedizione la missione ch’egli sentiva di
avere iscritta fin nell’ultima fibra del proprio corpo: quella ricerca
spasmodica, a tratti fin troppo dannosamente trasbordante,
dell’unica, certa e saldissima verità.
La presente opera, muovendosi appunto in questo terreno di ancora
celante oscurità, vuole innanzitutto rileggere, alla luce di un preciso
motivo guida, le opere volgari di Bruno, essendo sospetto dell’autore
che esse costituiscano davvero le testimonianze (gli atti) di una
impresa (commedia) che Bruno stava portando avanti (mettendo in
scena) durante il suo breve ma densissimo soggiorno inglese. Non si
pretende di dire alcunché di definitivo, e certamente molte cose
1
Sarà soprattutto questo tema che nelle pagine a venire cercherò di
sviluppare e, se possibile, dimostrare.
4
andranno rivedute e modellate infinite volte, così come si confà a
qualunque cosa parli a teatro o di teatro.
L’intervento effettuato sull’opera bruniana La cena delle ceneri –
analizzata nel secondo capitolo, dimostra a mio avviso la possibilità di
dipanare la teatralità che nelle opere date alle stampe rimane in
qualche modo aggrovigliata. Che infatti non si tratti in alcun caso –
per quanto riguarda i lavori di Bruno in terra inglese – di scritti
filosofici consueti, mi pare abbastanza evidente. Se ci fossero dei
dubbi in proposito, una lettura significativa e gratificante è data da
un libro di recente edizione, scritto a quattro mani da Michele
Ciliberto e Nicoletta Tirinnanzi, intitolato Il dialogo recitato. Il lettore
potrà trovare un’ampia analisi della struttura paragrafematica dei
dialoghi del nolano, un confronto con i canoni dell’epoca e i modi di
scrivere allora in uso, un confronto con le altre opere del corpus
bruniano e potrà accorgersi o, se è il caso, convincersi di quanto
particolari siano i dialoghi cosiddetti volgari. E’ a partire dalla lingua
stessa (ma vedremo che come è punto iniziale, così la lingua
costituirà anche punto finale, di approdo ancorché non facile) che la
teatralità dell’impresa nolana si annuncia. Il Bruno parigino del
Candelaio riversa la sua abilità di dialogatore, di osservatore del vero
(parlare) in pagine che arricchirà di tutte le riflessioni filosofiche che
aveva maturato e andava giorno dopo giorno maturando in vista della
creazione di quelli che giustamente sono stati definiti alcuni dei
massimi capolavori della filosofia moderna.
2
Capolavori che presero, ma è più giusto dire mantennero, la forma
del dialogo, una costante che non abbandonerà mai Bruno e della
quale si offrono valide giustificazioni, come si vedrà meglio nel quarto
e ultimo capitolo. Sono i dialoghi che permettono a Bruno di
trasferire nell’intera sua opera i caratteri di un’ininterrotta riflessione.
Segnatamente noi vogliamo riferirci all’esperienza inglese, e notare
2
Ciliberto M., Nascita dello «Spaccio»: Bruno e Lutero, Introduzione a Bruno,
Spaccio della bestia trionfante, Rizzoli, Milano, 1985, pag. 7
5
come i sei dialoghi ivi composti possano andare letti come un
tentativo – forse non riuscito, ma certamente intrapreso e
generosamente svolto – di dare alla luce un unico composito dramma
in cui esprimere i caratteri della crisi a lui contemporanea, i problemi
allora stringenti e le soluzioni che il Nolano, illustre filosofo, frate
discreto, dottissimo scienziato, uomo d’ingegno e cultura; un
Mercurio, un inviato, un mago, un commediante, un fastidito, un
arrogante, un presuntuoso, un trionfante, uno sconfitto, un uomo,
tanti uomini, nessun uomo; che Bruno, dicevamo, ha proposto e
cercato di donare ai suoi lettori, ascoltatori, spettatori.
“E troviamo proprio in queste parole un’idea del personaggio
drammatico come sì espressione di sentimento e di passione (fervore
e zelo, appunto), ma allo stesso tempo impegnato profondamente in
un processo di pensiero nel suo farsi, una ricerca costante e generosa
[…] del senso delle cose”.
3
3
Gatti H., Il teatro della coscienza, Bulzoni, Roma, 1998, pag. 23
6
L’ANELLO CHE NON TIENE. Quasi un’introduzione
Però, prima che sieno condannate, denno essere
ben ben essaminate le opinioni, e cossì distinguere i linguaggi
come son distinti gli sentimenti; atteso che, benché tutti
convegnano talvolta in una raggion comune della materia,
son differenti poi nella propria.
4
4
Bruno G., De la causa, principio e uno, Mursia, Milano, 1985
7
I – Cieli, riti e discorsi
Ciò che intendiamo suggerire, ché forse non ne verrà data
un’esauriente dimostrazione, è che durante il suo soggiorno inglese
Bruno abbia cercato di portare avanti quella che lui definisce
un’impresa
5
, ossia una riforma che si costituisse come
onnicomprensiva, che incidesse cioè su tutte le dimensioni nelle quali
si trova a esistere l’essere umano: religiosa, morale, culturale,
gnoseologica, ontologica, scientifica, artistica. Tale percorso di
rifondazione, potremmo dire, dell’uomo, sfocia nell’opera che anche
figuratamente si pone come l’atto conclusivo del sentiero tracciato (e
percorso) da Bruno, ovvero De gl’eroici furori. Nella quale Bruno
mostra e vive quel contatto, quella comunicazione col divino della
quale è sempre stato fervente e acceso sostenitore. Nulla di scontato,
tuttavia, ché anzi solo dopo un preciso e solitario percorso questo
incontro si può presentare come possibile ed esperibile. Prima sono
occorse ben sei opere a testimonianza di un progetto che, passando
attraverso una rivoluzione etico-morale-religiosa, era partito da una
risistemazione della concezione cosmologica allora dominante.
Questa, va precisato, non si limitava solamente a quanto definito da
Aristotele e – tramite la scolastica – accettato universalmente nelle
accademie, ma ineriva anche alla recente proposta copernicana che,
benché novissima e assai più aderente al vero, tuttavia non
5
“Altri molti sono i degni ed onorati frutti che da questi arbori si
raccoglieno, altre le messe preciose e desiderabili che da questo seme
sparso riportar si possono. Le quali, per non più importunamente sollecitar
la cieca invidia de gli nostri adversarii, non ameniamo a mente, ma
lasciamo comprendere dal giudizio di quei che possono comprendere e
giudicare. Li quali, da per se medesimi, potranno facilmente a questi posti
fondamenti sopraedificar l'intiero edificio de la nostra filosofia; gii cui
membri, se cossì piacerà a chi ne governa e muove, e se l'incominciata
impresa non ne verrà interrotta, ridurremo alla tanto bramata perfezione, a
fine che quello, che è seminato ne gli dialogi De la causa, principio ed uno,
per altri germoglie, per altri cresca, per altri si mature, per altri, mediante
una rara mietitura, ne addite e, per quanto è possibile, ne contente; mentre
(avendolo sgombrato de le veccie, de gli lolii e de le raccolte zizanie) di
frumento meglior che possa produr terreno de la nostra coltura, verremo ad
8
soddisfaceva a pieno Bruno e le sue intenzioni
6
. Spero si vedrà poi
perché. A Londra, Bruno scrive la Cena delle ceneri, che funge da
prologo, come ha suggerito Guzzo
7
, al De la causa che è introduzione
al De l’infinito, universo e mondi; ipotesi suggestiva che, rafforzandosi
reciprocamente con quanto lasciato come indizio da Alfonso Ingegno,
fa intravedere la linea interpretativa da noi usata in questo testo. I
dialoghi filosofici italiani, sia quelli definiti metafisici, sia quelli
morali, sono intimamente connessi e legati da una solida e precisa
progettualità: una riforma completa dell’uomo.
La necessità di una riforma che fosse innanzitutto astronomica,
cosmologica, si spiega forse in riferimento alla concezione allora
dominante, tanto in ambiente più strettamente scientifico – pur
constatando che tale aggettivo non avevo l’estensione e il significato
che ha assunto nei decenni seguenti fino ad oggi – quanto in quello
teologico. L’universo fisico era innanzitutto chiuso, finito, delimitato;
concepito poi come geocentrico; considerato infine come mondo al di
qua, come regno dell’accidente, dell’errore, in cui l’uomo – la sua
anima – era caduta da un al di là non meglio precisato ma che
certamente si poteva definire come il totalmente altro. Un universo
pertanto che, pur essendo creazione divina (dal nulla o da una
materia preesistente), oppure “solo” opera architettonica di un pur
divino ordinatore, era giudicato negativamente e preso come stazione
di passaggio, luogo d’espiazione, fucina di peccato ed errore.
colmar il magazzino de studiosi ingegni.” Bruno, De l’infinito, universo e
mondi, op. cit., pag. (corsivo mio)
6
“Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la
comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n'è molto
allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non
ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le
radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte
le contrarie difficuità e venesse a liberar e sé ed altri da tante vane
inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe.” Bruno,
Cena delle ceneri, op. cit., pag. 18
7
“Lo svolgimento ed esposizione della nuova fisica è nel De l’infinito, che
della concezione bruniana è il primo schizzo completo, al quale il De la
causa fa da giustificazione critica introduttiva, e la Cena fa da primo
annuncio e quasi da prologo.” Guzzo, Nota bio-bibliografica a Bruno, De la
causa, principio e uno, Mursia, Milano, 1985, pag. 19
9
In un contesto simile, l’uomo era un peccatore, la cui unica finalità –
ammesso che non fosse nel frattempo intercorso un patto con nature
malvagie – era quella di ricongiursi al proprio padre celeste, secondo
modalità che certo variavano, ma che non divergevano nella sostanza.
E senza dubbio ci pare di poter dire che tale finalità non sia stata in
toto negata da Bruno, che anzi nell’opera De gl’eroici furori pare
comporre un’apologia del ricongiungimento col divino; il problema, la
questione sta nella possibilità di tale incontro-ricongiungimento, che
secondo il filosofo Nolano stante quella concezione d’universo non
può avvenire. Un universo che nasca come scisso in due parti, di cui
una ricettacolo del male, della materialità, della passività, della
caducità, della spazialità, della temporalità; l’altra come regno dello
spirito, del giusto e dell’eternità non può entrare in comunicazione.
Non c’è modo che da quaggiù si possa – stante una simile netta
distinzione – salire lassù. E ciò che si dice avvenire dopo la morte è
opinione, credenza, fede. E quindi al filosofo non interessa. Quando
tuttavia interessa eccome l’ascesa al divino. Ed è questa la tesi che
sostiene Bruno nei primi tre dialoghi italiani. Una tesi che verrà
ripresa nelle, o che starà a fondamento delle, opere di magia, solo che
lì avrà subito una svolta che si potrebbe definire più operativa,
pratica. Ma l’assunto è lo stesso: la comunicazione esistente e palese
che, stante l’unità del tutto, si dirama da un punto l’altro di questo
tutto, ossia dell’universo il quale, infinito e infinitamente popolato, è
animato e pulsa di vita, insieme cuore e membra, arterie e scheletro
di un grande esplicato corpo. Copernico ha aperto la strada, o meglio
ha riscoperto un’antica verità che – seguendo il ciclico alternarsi di
giorno e notte, luce e buio era caduta in temporaneo oblio; ma si è
fermato troppo presto non riuscendo, per essere forse più matematico
che filosofo, o forse per mancanza di furore speculativo, a fare quel
passo verso una perfetta acquisizione del vero. E questo compito se
l’assume allora Bruno, il nuovo mercurio, colui che si sentiva inviato
dagli dei allo scopo di mostrare agli spiriti dotati di sufficiente
ingegno quale fosse la strada da percorrere. La Cena delle ceneri è il
10
primo capitolo. Vi si legge a chiare lettere l’alta considerazione che
Bruno aveva della propria dottrina (che per amor di patria definiva
nolana) e dell’aiuto che essa avrebbe potuto recare anche ad un
ambito che per ammissione dello stesso filosofo le era per principio
estraneo: quello della religione, ossia la teologia. Riformare lo stato di
cose inerente ai sistemi astronomici, inserendo il tutto in una
presentazione di una nova filosofia (che però era vecchia sapienza)
implicava una riforma della religione, cosa di cui si farà più
segnatamente carico nei due dialoghi che succedono ai tre
cosmologici, ossia lo Spaccio de la bestia trionfante e la Cabala del
cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico.
A Bruno preme pertanto sciogliere quel pernicioso gomitolo teorico
che intrecciava assieme motivi squisitamente scientifici ad altri di
ordine scritturale e teologico. Solo una preliminare chiarificazione
degli ambiti in gioco, una precisa (che poi tanto precisa e stabile non
sarà) demarcazione dei confini, permetterà al filosofo di esporre con
chiarezza ed esattezza il proprio assunto teorico. La religione, la
scrittura (intendendo ovviamente l’Antico Testamento), la teologia
devono restare fuori da un discorso che si impone – e si deve imporre
– come filosofico-cosmologico. Nella Cena c’è pertanto una
inequivocabile tensione al districare gli ambiti; Bruno è chiaro in
proposito:
TEO. Or, quanto a questo, credetemi che, se gli
Dei si fussero degnati d'insegnarci la teorica delle
cose della natura, come ne han fatto favore di
proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi
accostarei alla fede de le loro revelazioni, che
muovermi punto della certezza de mie raggioni e
proprii sentimenti. Ma, come chiarissimamente
ognuno può vedere, nelli divini libri in servizio del
nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e
speculazioni circa le cose naturali, come se fusse
11
filosofia; ma, in grazia de la nostra mente ed
affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le
azione morali. Avendo dunque il divino legislatore
questo scopo avanti gli occhii, nel resto non si
cura di parlar secondo quella verità, per la quale
non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male
e appigliarse al bene; ma di questo il pensiero
lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo
di maniera che, secondo il suo modo de intendere
e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale.
8
Le scritture sono certo essenziali, in quanto sono preposte alla civile
conversatione, ma oltre alla loro funzione di lex non si deve andare. Il
popolo rozzo è giustamente da esse guidato, anche in modo che
volentes ducunt, nolentes trahunt, ma per chi si sa governare, per i
veri benché pochi sapienti la loro funzione decade
9
. E’ la vera filosofia
che nell’ambito naturale può e deve rivendicare la propria
assolutezza. Dovendo pertanto fare un discorso vero e sapiente,
rivolto ai veri sapienti non si può che districare quella matassa
concettuale che senza patemi si mostrava infiltrata di motivi,
concetti, immagini non adatte allo scopo che ora si impone. Solo dopo
aver portato a termine un simile compito di pulizia, si potrà
eventualmente (e Bruno non sarà certo restio a farlo, cercandolo anzi
con frequenza quasi ansiosa) recuperare passaggi ben specificati delle
scritture che, scansato il loro messaggio letterale, a livello allegorico e
metaforico donano in altri termini la medesima verità esposta
8
Bruno, La cena delle ceneri, op. cit. , pag. 75
9
Sulla inequivocabile posizione premoderna nei confronti del sapere – che si
costituisce come elitario, riservato a pochi, sarebbe utile leggere quanto si
dice in termini sia generici che specifici in alcuni testi: Rossi, La nascita
della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari, 19997, cap. II; Id., Lo
scienziato, in Villari (a cura di), L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari, 1991;
Garin, Il filosofo e il mago, in Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento,
Laterza, Roma-Bari, 1988. E tuttavia, come vedremo in seguito, la posizione
di Bruno non si adagia su questo stampo, anzi.
12
filosoficamente dal Nolano.
10
Anzi, si vedrà spesso trasparire dalle
parole di Bruno un certo malcelato sorridente compiacimento nel
portare a valente testimonianza della propria tesi, periodi estrapolati
ora dall’Ecclesiaste, ora dal libro di Giobbe, ora da altri punti delle
sacre scritture. Sempre tuttavia dichiarando che si tratta di
un’operazione svolta ad un livello ulteriore, una possibilità cioè
riservata a chi sa già condursi lungo la via della retta conoscenza; e
per ciò stesso mostrandosi come operazione impraticabile per quei,
che sono i più.
Una filosofia per spiriti che non abbisognano della lex, per assurgere
alla vera contemplazione, e infatti
TEO. Dalla censura di onorati spirti, veri religiosi,
ed anco naturalmente uomini da bene, amici della
civile conversazione e buone dottrine non si de'
temere; perché quando bene arran considerato,
trovaranno che questa filosofia non solo contiene
la verità, ma ancora favorisce la religione più che
qualsivoglia altra sorte de filosofia; come quelle
che poneno il mondo finito, l'effetto e l'efficacia
della divina potenza finiti, le intelligenze e nature
intellettuali solamente otto o diece, la sustanza de
le cose esser corrottibile, l'anima mortale, come
che consista più tosto in un'accidentale
disposizione ed effetto di complessione e
dissolubile contemperamento ed armonia,
l'esecuzione della divina giustizia sopra l'azioni
umane, per consequenza, nulla, la notizia di cose
10
Si noti in proposito che proprio questo è uno dei vari terreni di scontro
con il luteranesimo e, d’altra parte, di incontro con la linea esegetica che,
rimandando ad Origene, passa per Girolamo e arriva fino all’amatissimo (da
Bruno) Erasmo. L’interpretazione letterale che Lutero forniva, auspicava e
imponeva ai “propri” fedeli, non poteva che essere freddamente condannata
da Bruno, che vi ravvisava un palese trionfo del termine, della parola, su ciò
che invece essa era soltanto chiamata a rappresentare, ossia il sentimento.
13
particolari a fatto rimossa dalle cause prime ed
universali, ed altri inconvenienti assai; li quali
non solamente, come falsi, acciecano il lume de
l'intelletto, ma ancora, come neghittosi ed empii,
smorzano il fervore di buoni affetti.
11
Quindi non si dica mai e poi mai che Bruno era antireligioso, avendo
anzi egli la massima coscienza del ruolo, della funzione e, perché no?,
dell’utilità che essa poteva assumere in un contesto di civiltà. Ché
dove mancasse civiltà, lì non sarebbero né religione né filosofia; e
dove queste ultime mancassero, lì tuttavia non sarebbe civiltà
12
.
Va ora notato il riferimento esplicito ad Aristotele, nel dire come quelle
che poneno il mondo finito, l'effetto e l'efficacia della divina potenza
finiti; c’è da fare un’annotazione che ci consentirà anche di fare un
piccolo salto in avanti. A Bruno non piaceva l’idea – anche
copernicana – che l’universo fosse finito. Non piaceva perché dicendo
questo si proponeva un’immagine di Dio che andava contro alle
stesse premesse di quanti ponevano il mondo finito, e cioè che Dio
fosse onnipotente e infinito. L’onnipotenza divina non ha, per
l’appunto, limite; ma supporre un universo finito equivale a supporlo
de-limitato, chiuso, cioè limitato da qualcos’altro. E questo non rende
certo Dio onnipotente né infinito. Ed è questa una prova che
potremmo definire logica. Ma questa posizione non piaceva a Bruno
per un’altra ragione, che diremmo ermetico-neoplatonica. Se Dio è
detto infinito e il mondo è finito, non si capisce come si possa risalire
11
Bruno, La cena delle ceneri, op. cit. , pagg. 79-80
12
Andrebbe a questo punto e a questo proposito toccato un tema davvero
interessante, che tuttavia abbiamo riservato ad un secondo momento; la
negazione radicale, da parte di B_, dell’esistenza di una cosiddetta età
dell’oro, o età dell’innocenza, durante la quale l’uomo, lontano dal peccato,
stesse in un’atmosfera di beatitudine ignorante e inattiva. Ché anzi, per il
nolano, solo dopo il metaforico peccato originale, quando il duplice frutto –
quello della conoscenza e quello della moralità – è stato colto e fatto proprio,
si può parlare di una storia umana che inizia. Non prima. L’uomo inizia ad
essere solo quando inizia la sua moralità pratica e la sua intelligenza.
14
ad una concezione unitaria del tutto. Se Dio è infinito è un Dio che è
in tutto, è tutto in tutto. E allora come potrebbe star dentro ad un
luogo finito? La distinzione cusaniana tra infinito complicato ed
infinito esplicato viene accolta con gioia da Bruno che non la lascerà
mai.
13
Viene da chiedersi allora il perché di una simile riforma astronomica
in funzione di quella religiosa e morale. Cosa c’entra il mondo fisico
con la religione? Cosa importa alla lex di come siano ordinate le
stelle, e di quante siano e di quante possibilità ci siano che esistano
altri mondi? Importa a Bruno, e molto. Come sarebbe infatti possibile
comunicare con Dio se si pone una così netta differenza tra lui, che è
sommo, infinito, altro dall’uomo, e noi? Come si fa ad arrivare a
toccare il divino se lui è là e noi qua? Va distrutta questa immagine
falsa e pericolosa dell’universo. E contemporaneamente vanno
destituiti di fondamento tutte quelle credenze che, prese per vere e
non considerate – come dovrebbero – alla stregua di immagini,
inculcano nel popolo una serie di pensieri che mal lo dispongono nei
confronti della verità e della divinità. E così la riforma astronomica
delle prime tre opere si affianca a quella demitizzante dello Spaccio e
della Cabala. Sono tutte opere che, pur proponendo tesi, mirano a
sgombrare, pulire, preparare il terreno per ciò che verrà dopo. Perché
solo dopo aver capito l’insussistenza della figura del sacerdote e la
mistificazione dell’ultima cena di Cristo, potremmo comprendere cos’è
per Atteone il divenir cervo.
Che tragicommedia? Che atto, dico, degno più di
compassione e riso può esserne ripresentato in
questo teatro del mondo, in questa scena delle
nostre conscienza, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti,
fermi, fideli, amanti, coltori, adoratori e servi di
cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituita
13
Cusano, De docta ignorantia, Città nuova, Roma, 1991
15
d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza
riconoscenza e gratitudine alcuna, dove non può
capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi
possa in una statua o imagine dipinta al muro?
14
E certo, solo dopo aver ristrutturato l’universo, per così dire, e messo
al loro posto i vari sacrifici religiosi, le acqua su cui si cammina, il
significato di peccato e quello di merito e dato la giusta sistemazione
a vizi e virtù sarà concepibile e, forse, applicabile la tanto agognata
comunicazione col divino. Che tuttavia, resa possibile da quanto fatto
prima in sede demistificante e ri-significante, abbisogna ora dello
strumento essenziale per trovare effettuazione: la lingua. E’ come se
Bruno avesse fatto in modo di rendere accadibile l’incontro tra l’uomo
e Dio, creando il luogo giusto in cui esso avvenisse, e liberando la
mente dell’uomo da tutte le calcificazione che non avrebbero
permesso la sua preparazione ad un simile incontro; e adesso che
sono quasi “faccia a faccia” è ora di dargli in modo definitivo il mezzo
per comprendersi. Sarà allora necessaria una riforma linguistica che
riconduca ad unione res e verba. Certo, è un processo che avvolge
l’intera impresa nolana londinese, su questo non c’è dubbio. Bruno
riforma la lingua sin dalla Cena, ma a mio avviso dove meglio questo
si nota è proprio lì dove il discorso non è finalizzato ad alcuna
distruzione. Non c’è alcun cielo da allargare, alcuna terra da mettere
in moto, alcun Cristo da smascherare e così via. C’è l’uomo che va
verso il suo appuntamento col divino, come un adolescente alle prime
armi nell’arena di Eros. Ecco che l’innovazione linguistica bruniana
appare al lettore in tutta la sua rilucente sfrontatezza. E ancor di più
se consideriamo che è a proposito inscatolato in schemi comunque e
sempre criticati, ossia quelli del sonetto petrarchesco. Come se Bruno
volesse avvisare che la forza prorompente del suo discorso non teme
alcuna fortificazione, tanto che ci si infila sua sponte e ne scardina
l’apparentemente inevadibile struttura. Eroici furori quindi,
14
Bruno, Eroici furori, op. cit., pag. 55
16
innanzitutto come furori linguistici, come ansia di comunicazione,
come voglia mai soppressa di costituire e portare a compimento un
dialogo, il dialogo.