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della questione è che il <<mondo reale>> viene costruito, in gran parte inconsciamente,
sulle abitudini linguistiche del gruppo.” (Sapir 1949 [1972]:58)
“ Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i
tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni
osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di
impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve
essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti.” (Whorf
1956 [1970]:169)
Il nucleo teorico dell’ipotesi Sapir-Whorf viene anticipato un secolo prima
dallo studioso tedesco Von Humboldt, nel 1836; egli aveva considerato la lingua
come Weltanschaaung, proponendo già l’idea che le diverse lingue traccino zone
di luce e zone d’ombra sul mondo, facendo sì che i parlanti, nell’apprendere una
lingua diversa dalla propria, portino con sé inevitabilmente la propria visione del
mondo, dettata dalla propria lingua natale.
Ritornando in ambiente americano, il fondatore della moderna antropologia
statunitense può considerarsi l’antropologo Franz Boas che, grazie alla sua
esperienza di ricerca tra gli esquimesi e gli indiani della Costa del Nordovest,
fornisce un apporto generale allo studio del linguaggio, affermando che per lo
studio di una cultura, analizzare con attenzione la lingua del gruppo umano cui
essa appartiene si rivela fondamentale. In questo, anticipa quello che il suo
allievo Sapir nel 1949 affermerà nel saggio “La posizione della linguistica come
scienza” nel quale considererà la lingua come guida privilegiata allo studio della
cultura, essendo il mondo reale costruito sulle abitudini linguistiche del gruppo.
Per Whorf 1956, la struttura di ogni lingua contiene una teoria sulla struttura
dell’universo che egli definisce la “metafisica” della lingua. Per poter notare
l’esistenza di questa metafisica è però necessario approcciarsi allo studio di
lingue molto differenti dalla propria, essendo questo l’unico modo per poter
esaminare le strutture che a suo avviso plasmano il mondo.
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Gli informatori che si possono interrogare durante la propria ricerca non
potranno mai fornire questo tipo di informazioni sulla propria visione del mondo,
essendo essi inconsapevoli dell’influenza della lingua nella loro vita. Attraverso,
infatti, lo studio dell’universo Hopi, Whorf, grazie alle profonde differenze che la
lingua di questo popolo presenta rispetto allo SAE (Standard Average European),
è in grado di elaborare un punto di vista sul ruolo che il linguaggio gioca
relativamente al modo di intendere la realtà da parte dei parlanti. (Duranti 2000:
61-62).
Whorf è stato spesso soggetto a critiche per la presunta mancanza di
scientificità dei suoi metodi e delle sue ricerche, non essendo per altro un
linguista di professione ma solamente un appassionato.
Negli anni successivi alla formulazione dell’ipotesi relativistica, essa è stata
giudicata da diversi studiosi come priva di fondamento e non dimostrabile con
dati empirici certi. Per questi e altri motivi di cui tratteremo nel dettaglio nei
capitoli successivi, l’ipotesi della relatività linguistica è stata abbandonata fino
agli anni Settanta del secolo scorso, anni in cui viene riscoperta e rivisitata. Lo
scopo degli studiosi che si sono occupati di quest’ambito di ricerca è stato quello
di rimodellare l’oggetto di studio in modo da ovviare alla critica maggiore che si
muoveva all’ipotesi, ovvero alla convinzione diffusa che essa si sostanziasse di
termini di ricerca troppo vaghi. Proprio per questo al cosiddetto “relativismo
forte”, che è quello portato avanti da Sapir e da Whorf, si farà avanti, nel
panorama culturale di riferimento, una nuova forma di relativismo, nota come
“relativismo debole”. Uno degli studiosi che tratteremo in seguito a proposito di
questo filone di studi sarà Slobin
1996 che ha condotto la sua rivisitazione
dell’ipotesi centrando l’attenzione non più su termini vaghi quali “pensiero” e
“lingua”, ma sulle attività corrispondenti del “pensare” e del “parlare”.
Un diverso approccio teorico al linguaggio rispetto al relativismo, si
concretizzerà nella corrente dell’universalismo che si svilupperà successivamente
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sempre in America e avrà come suo esponente principale Noam Chomsky, il
fondatore della grammatica generativo-trasformazionale. Tale grammatica si
definisce generativa perché è in grado di generare le frasi possibili in una lingua
e trasformazionale perché consente alle frasi semplici di trasformarsi ad esempio
nella forma interrogativa, passiva e così via dicendo Questa branca della
linguistica ha lo scopo di comprendere quali leggi si celano dietro la competenza
dei parlanti, arrivando alla considerazione che esistono degli elementi innati
nell’uomo che gli permettono di apprendere una lingua.
Questo modello teorico si occupa di analizzare quali elementi interagiscono
nella cosiddetta “facoltà del linguaggio”. Essa è ritenuta una caratteristica
esclusiva della specie umana e comune ai membri di questa specie. Il processo
che è ricordato in Chomsky 1988 illustra la creazione di una particolare lingua
attraverso vari passaggi che vanno dall’elaborazione dei dati dell’esperienza fino
alla strutturazione di espressioni linguisticamente pertinenti.
Nell’ambito di questo processo si crea la distinzione tra grammatica universale
e grammatica di una lingua particolare: la prima mira alla formulazione dei
principi che servono per la facoltà del linguaggio prima che essa venga a contatto
con i dati dell’esperienza; la seconda rende conto invece dello stato della facoltà
del linguaggio nel momento successivo al contatto con i dati provenienti
dall’esperienza.
La struttura della ricerca che qui si presenta si articola in tre capitoli. Nel
primo vengono esaminate dettagliatamente le linee portanti dell’ipotesi Sapir-
Whorf focalizzando l’attenzione in una prima fase sui suoi precedenti storici. La
mia esposizione verterà intorno al punto di vista di Von Humboldt, considerato il
primo ad aver trattato la questione del rapporto tra la lingua e la propria visione
del mondo, per continuare con qualche cenno alle ricerche condotte da Franz
Boas sulle lingue degli indiani d’America. In un secondo momento, infine, si
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illustreranno le ricerche e le conclusioni a cui sono pervenuti i due studiosi da cui
l’ipotesi prende il nome.
Il secondo capitolo traccia le principali obiezioni mosse al relativismo e le
rivisitazioni condotte da autori contemporanei, attraverso ricerche empiriche tese
a mostrare la veridicità dell’ipotesi o a smentirla.
La trattazione prosegue con l’esposizione di ciò che si intende per relativismo
debole, soffermandosi sulla figura di Slobin che ha apportato un grande
contributo alla rielaborazione della teoria relativistica. La sua è una posizione più
cauta rispetto a quella di Sapir e Whorf ma comunque degna di interesse.
Tra gli esperimenti condotti per valutare se la lingua influenzi davvero il
pensiero sono ricordati principalmente quelli legati alle modalità di
categorizzazione del colore e nello specifico alla ricerca di Berlin e Kay del 1969
e di Rosch del 1972.
Il capitolo si conclude con la discussione del problema della traduzione
interlinguistica all’interno del dibattito sul relativismo e con il contributo di Paul
Kay che ha proposto una nuova forma di relativismo, non più solamente quello
tra lingue differenti ma anche all’interno di parlanti della stessa lingua e del
singolo parlante.
Nel terzo ed ultimo capitolo si procede con l’esposizione dell’altra corrente
sopra accennata, cioè quella dell’universalismo, esaminando i suoi elementi
teorici di base, come gli universali linguistici, e il contributo fornito da Chomsky
nell’elaborazione del concetto di grammatica generativo - trasformazionale. Si
tenta inoltre di mettere a confronto le due teorie in questione, cercando di
delineare un quadro chiaro dei punti di contatto e delle differenze esistenti.
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CAPITOLO I
La lingua e la visione del mondo
I.1. Da Von Humboldt all’Ipotesi Sapir–Whorf: la relatività linguistica
L’ipotesi della relatività linguistica, detta anche Ipotesi Sapir-Whorf dai nomi
dei suoi ideatori, si sofferma sul rapporto esistente tra la lingua, il pensiero e la
realtà extralinguistica.
Essa ha origine in ambiente americano nei primi anni del secolo scorso. Già
nel XVIII secolo si era delineata una crisi della concezione aristotelica secondo
cui la lingua riflette esattamente la realtà ontologica. Tale concezione consiste
quindi nel considerare la lingua come una mera nomenclatura e pertanto a lingue
diverse corrispondono etichette diverse da applicare agli elementi della realtà. Il
filosofo greco ritiene infatti che il lessico di una lingua rispecchi
fotograficamente il mondo esterno e che quindi sia possibile passare da una
lingua ad un’altra modificando semplicemente le etichette linguistiche attribuite
agli oggetti della realtà extralinguistica. È proprio questa concezione che entra in
crisi durante il XVIII secolo e che riceve una messa in forma dallo studioso Von
Humboldt nella sua opera “Sulla diversità delle lingue” del 1836. Scorrendo le
pagine di questo trattato si riscontra la presenza del concetto, che sarà poi ripreso
da Sapir nel 1921, di “genio” della lingua, che le permette di distinguersi da tutte
le altre. Scrive Von Humboldt:
“Il modo di pensare e di sentire di un popolo, mediante cui la lingua […] riceve
colore e carattere, agisce su di essa sin dal suo esordio.” (Humboldt 1836 [1991]: 139).
Nel suo trattato, lo studioso consolida l’idea secondo cui la lingua crea una
visione particolare del mondo ma ciò non preclude la possibilità di porsi in una
prospettiva interlinguistica. È ovvio che seguendo questo orientamento è
impossibile riscontrare una perfetta corrispondenza tra due lingue diverse, visto
che, come afferma egli stesso, la lingua crea intorno a chi la parla un cerchio di
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luce che non corrisponderà al cerchio tracciato da un’altra lingua. Il superamento
della visione del mondo tipica della propria lingua si può tentare solo attraverso
l’approccio ad una lingua straniera, approccio che, comunque, si dimostrerà
fallimentare perché il parlante sarà indotto inconsapevolmente a trasportare la
visione del mondo dettata dalla sua lingua nativa sulla lingua straniera che sta
apprendendo.
“Ogni lingua traccia intorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile
uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua.
L’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l’acquisizione di una
nuova prospettiva nella visione del mondo fino allora vigente … Solo perché in una
lingua straniera si trasporta sempre, in misura maggiore o minore, la propria visione del
mondo, anzi la visione della propria lingua, si ha la sensazione di non aver raggiunto un
risultato pieno e assoluto.” (Humboldt 1836; tr. it.:47)
Nonostante la consapevolezza del mancato raggiungimento di un risultato
soddisfacente nell’apprendimento di una lingua differente dalla propria, Von
Humboldt si trova in costante tensione tra due poli opposti: l’incomunicabilità tra
le lingue e l’universalità del linguaggio. L’uomo partecipa del carattere
universale del linguaggio ma ne coglie la vera essenza solo partecipando del suo
essere multiforme. La lingua nativa costituisce quindi una chiave d’accesso alla
comprensione del linguaggio, che consente, in un certo senso, le differenze tra le
lingue.
Il rapporto tra lingua e cultura non suscita grande attenzione nel panorama
culturale fino ai primi anni del secolo scorso, grazie al contributo della scuola
americana. Uno dei padri fondatori dell’antropologia in America è Franz Boas,
studioso nato in Germania ma trasferitosi nel nuovo continente. La sua
esperienza di ricerca compiuta presso gli esquimesi e gli indiani della costa del
Nordovest contribuisce in maniera decisiva al suo interessamento per il
linguaggio. Egli reputa infatti necessario lo studio della lingua per comprendere
davvero una cultura, riconoscendo uno stretto legame tra i due elementi. La
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lingua viene quindi considerata come una guida per l’analisi di una cultura, idea
che poi sarà resa esplicita dal suo allievo Sapir. Grazie all’opera di trascrizione
delle lingue degli indiani d’America Boas si rende conto dei diversi modi che le
varie lingue hanno per classificare la realtà e l’esperienza. La lingua ha un modo
proprio di sezionare la realtà e questo è visibile nel lessico, ciò che in una lingua
è espresso tramite una sola parola, in un’altra lingua può essere espresso con
molti termini. A seguito di questa affermazione è utile ricordare il famoso
esempio riguardante i numerosi termini che gli esquimesi utilizzano per
denominare la “neve”.
In un celebre saggio di Pullum del 1991 si porta avanti la tesi secondo cui la
questione della nomenclatura esquimese sia una credenza erronea, le
argomentazioni di Pullum si fondano su uno studio condotto da Martin 1986.
L’autore utilizza dei toni ironici e provocatori per convincere i lettori
dell’erronea convinzione di Boas prima e di Whorf successivamente,
relativamente alla numerosità dei termini esquimesi per indicare la neve. Martin
1986 ha tentato di sfatare questo mito in diverse sue pubblicazioni, non ottenendo
però grandi risultati. La fonte originale di questa balla linguistica è la
“Introduzione alle lingue degli indiani d’America” di Boas del 1911. Nel noto
saggio l’autore sostiene che i diversi termini per “neve” nel vocabolario
esquimese sono in realtà derivati da una sola radice comune che ha poi subito
delle trasformazioni, così come in inglese ritroviamo numerose parole per
“acqua”.
La successiva svolta alla questione della lessicografia esquimese è fornita
invece da Whorf, il quale nel saggio amatoriale “Scienza e Linguistica” afferma
che:
“Gli Hopi in effetti chiamano un insetto, un aeroplano e un aviatore tutti con lo
stesso nome e non trovano in questo alcuna difficoltà. È la situazione, naturalmente, che
decide ogni confusione tra i membri di una classe linguistica estesa come questa classe
[…].Questa classe ci sembra troppo estesa, ma altrettanto lo sembrerebbe la nostra
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classe “neve” a un Esquimese. Noi abbiamo la stessa parola per neve che cade, per la
neve sul terreno, per la neve fangosa, per la neve pressata dura come il ghiaccio, per la
neve che vola trascinata dal vento, qualunque sia la situazione. Per un Esquimese una
parola che includa tutte queste cose sarebbe quasi impensabile; egli direbbe che la neve
che cade, la neve fangosa, e così via, sono sensibilmente e operativamente differenti,
cose diverse con cui avere a che fare; e usa parole diverse per esse e per le altre specie
di neve.”(Whorf 1956 [1970]:172)