3
CAPITOLO I
GLI ESORDI DELLA LOTTA ARMATA IN ITALIA
I.1 Il ’68 e l’autunno caldo: i detonatori della lotta armata
«Le Brigate rosse sono il gruppo rivoluzionario terrorista più importante fra i molti che esistono
oggi in Italia. Oggi questi gruppi li troviamo soprattutto nella sinistra, mentre nel 1969-70 era
soprattutto la destra ad alimentarli grazie alla complicità dei servizi segreti e di parti di governo.
Che ci sia una differenza tra ieri ed oggi lo si vede dal fatto che allora chi faceva gli attentati non
veniva preso, quasi tutte le stragi e gli attentati restano ad oggi impuniti; oggi, invece spesso viene
preso, o nella maggior parte dei casi individuato»
1
. Così scrive, in un articolo pubblicato dal
Corriere della Sera, il sociologo Francesco Alberoni all’indomani dell’assassinio del procuratore
Coco, il 9 giugno 1976.
Il fenomeno della lotta armata, naturalmente, non spunta all’improvviso come un fungo nel corso
degli anni settanta, ma è legato piuttosto al movimento del ’68, alla cosiddetta stagione della
contestazione studentesca che ha coinvolto tutto il mondo occidentale
2
. In Italia l’occupazione delle
università, iniziata a Trento nel 1966, diviene un fenomeno generalizzato nell’inverno 1967-68
finendo poi per propiziare le lotte sindacali dell’autunno caldo del ‘69. Proprio a Trento, nella
facoltà di sociologia, dove crebbero politicamente futuri quadri dirigenti delle BR come Margherita
Cagol e Renato Curcio, il cosiddetto “Movimento per una Università Negativa”, in un manifesto
dell’autunno ‘67, afferma: «L’università è uno strumento di classe che ha la funzione di trasmettere
una ideologia particolare, quella della classe dominante. Lanciamo l’idea di una UNIVERSITA’
NEGATIVA che riaffermi la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico e ponga le
premesse di un lavoro politico creativo, antagonista e alternativo. Ad un uso capitalistico della
scienza bisogna opporre un uso socialista delle tecniche e dei metodi più avanzati. Per questo
avanziamo il progetto di una Università negativa che esprima quella tendenza rivoluzionaria che
sola potrà condurre la nostra società dalla preistoria alla STORIA»
3
.
Come sottolinea Angelo Ventrone, col movimento del ’68 «comincia a prendere forma quel
progetto di rigenerazione sociale che più tardi alcuni gruppi avrebbero profondamente rielaborato
trasformandolo in lotta armata, militare, contro lo Stato»
4
. Secondo Valerio Morucci, noto brigatista
1
Francesco Alberoni, Brigate Rosse: il terrorismo ultima spiaggia, in “Corriere della Sera”, 10 giugno 1976.
2
Cfr. Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.
3
“Lavoro Politico”, n. 2, novembre 1967.
4
Angelo Ventrone, L’assalto al cielo. Le radici della violenza politica, in AA.VV., L’Italia repubblicana nella crisi
degli anni settanta, a cura di G. De Rosa e G. Monina, Rubbettino 2003, pag. 185.
4
della colonna romana, il ‘68 arriva infatti «come una liberazione dallo sconforto, come l’onda
tumultuosa che finalmente ci stanava dalla solitudine e ci spingeva tutti assieme ad assaltare il
cielo»
5
.
Se il 1968 è l'anno degli studenti, il 1969 è quello delle cosiddette "tute blu". A Milano, Torino,
Genova, il baricentro delle lotte si sposta dalle aule universitarie ai cancelli della Fiat, dell'Alfa
Romeo, della Magneti Marelli, della Sit-Siemens, come se quella brezza rivoluzionaria che per un
anno aveva incendiato gli animi degli studenti fosse d'un tratto giunta nelle maggiori fabbriche del
Nord.
È tra il settembre ed il dicembre del '69 che la questione operaia esplode con una forza che né i
sindacalisti né gli imprenditori avevano previsto: comincia il cosiddetto “autunno caldo”. Sullo
sfondo del rinnovo contemporaneo di trentadue contratti collettivi di lavoro, cinque milioni di
lavoratori dell'industria, dell'agricoltura e di altri settori sono fortemente decisi a far sentire tutto il
peso delle proprie rivendicazioni
6
. Ma l'autunno caldo è molto più della classica intensificazione del
conflitto industriale che si accompagna ad un'importante scadenza contrattuale, è piuttosto un
grande movimento collettivo sostenuto inizialmente dai cosiddetti “operai massa”, dagli operai non
qualificati delle catene di montaggio, spesso immigrati dal Sud arretrato, che si organizzano nei
Cub, i Comitati unitari di base, finendo per scavalcare e contestare da sinistra le linee sindacali. In
questa fase, segnata da una vera e propria “offensiva proletaria”, si assiste infatti alla nascita di
numerosi partiti, gruppi o collettivi che si pongono il problema dell’organizzazione interna alle
fabbriche. Tra questi il Collettivo politico metropolitano, promosso a Milano dal Cub Pirelli, dai
Gruppi
di Studio Sit-Siemens e Ibm, dai collettivi di lavoratori-studenti e da alcuni militanti senza
organizzazione.
5
Ivi, p. 186.
6
Per un’analisi approfondita delle dinamiche dell’autunno caldo cfr. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana,
Marsilio editore, Venezia, 1992 oppure D. Giacchetti, M. Scavino, La Fiat in mano agli operai. L'autunno caldo del
1969, Edizioni BFS, 1999.
5
I.2 La nascita del Collettivo politico metropolitano
Sorto ufficialmente l’8 settembre 1969, data in cui fu preparato il primo bollettino ad uso interno
dei militanti, il Collettivo politico metropolitano può contare tra le sue fila il nucleo che, l’anno
successivo, fonderà le Brigate Rosse. Il Cpm, come emerge dal documento succitato, si presenta
come uno strumento che «deve predisporre le strutture di lavoro indispensabili a impugnare
l’esigenza-problema dell’organizzazione rivoluzionaria della metropoli e dei suoi contenuti»
7
. Il suo
obiettivo non è limitato al collegamento tra le diverse aziende, ma è ben più ambizioso: portare
fuori dalle fabbriche e dalle scuole l’offensiva generalizzata al sistema, investendo l’intera area
metropolitana. Nel novembre del 1969, in un convegno del Collettivo, a Chiavari, viene prodotto un
opuscolo, intitolato “Lotta sociale e organizzazione nella metropoli”, in cui viene posto il problema
della lotta armata e della violenza politica nei centri urbani.
«Noi vediamo nell’autonomia proletaria il contenuto unificante delle lotte degli studenti, degli
operai e dei tecnici che hanno permesso il salto qualitativo nel 1968-69»
8
– si legge nel documento
che, come afferma Giorgio Galli, può essere considerato il manifesto costitutivo del partito armato.
Autonomia proletaria intesa come indipendenza «dalle istituzioni borghesi, economiche, culturali e
normative»
9
. Autonomia per «l’abbattimento del sistema globale di sfruttamento e la costruzione di
un’organizzazione sociale alternativa»
10
. Il terreno di lotta prescelto è l’area metropolitana in cui «la
lotta di classe si pone in termini rivoluzionari e il cui unico sbocco è rappresentato dalla lotta armata
di popolo»
11
.
L’obiettivo del Cpm è dunque l’abbattimento violento del sistema attraverso una rivoluzione armata
concepita come unica soluzione in quanto, come scrive il rivoluzionario brasiliano Marcelo De
Andrade, «ogni alternativa proletaria al potere deve essere, fin dall’inizio, politico-militare, dato che
la lotta armata è la via principale della lotta di classe»
12
. Ed è proprio la città, e non la fabbrica, il
contesto scelto dal Collettivo a cui, come detto, preme soprattutto monopolizzare l’area
metropolitana, estendendovi la lotta iniziata nei centri produttivi e trasformando così la città in un
terreno infido per l’avversario, cioè per chi esercita un potere ostile ed estraneo all’interesse delle
masse.
7
“L’Europeo”, n. 18, 1974.
8
Renato Curcio, Lotta sociale e organizzazione nella metropoli, in “Il Collettivo”, n. unico, gennaio 1970.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Ibidem.
12
Ibidem.
6
Al potere verticalizzato della fabbrica, insomma, si contrappone un altro potere più allargato,
capace di suscitare tensioni, generare conflitti in forme e misure del tutto inedite.
Le rappresentanze sindacali a molti sembrano obsolete, le commissioni interne che bene avevano
svolto il loro compito negli anni '50 finiscono con l'essere sostituite dalle riunioni di reparto, dalle
assemblee, spesso improvvisate, che infiammavano quasi tutti nelle fabbriche. Proprio in questo
elemento è facile riconoscere la diretta influenza del movimento studentesco.
Il 9 dicembre 1969 sindacati e Intersind, che raggruppava le imprese a partecipazione statale,
raggiungono un accordo, mentre il ventuno dello stesso mese, dopo quattro mesi di lotta, tocca a
Confindustria cedere. La vertenza si chiude con l’accoglimento delle richieste operaie: aumenti di
paga uguali per tutti e riduzione dell'orario di lavoro a quaranta ore settimanali. Conquiste che
entrano a far parte dello “Statuto dei lavoratori”, frutto legislativo dell'autunno caldo, portato a
termine cinque mesi più tardi. Esso comprendeva, e comprende tuttora, una serie di articoli sulla
dignità e sui diritti dei lavoratori che sono il riflesso legislativo di un mutamento dell'opinione
pubblica, oltre che dei rapporti di forza. Fra questi, il divieto delle indagini di opinione, la
limitazione dei trasferimenti ai casi di necessità comprovata, la regolamentazione degli accertamenti
sanitari e delle sanzioni disciplinari. Tutte norme che non riguardano specificatamente l'attività
sindacale, ma l'assieme del rapporto di lavoro
13
.
13
Per un quadro generale sulle conquiste sindacali di quegli anni cfr. Giuseppe Mammarella, L’Italia contemporanea
(1943-1998), il Mulino, 1998.
7
I.3 Le bombe alla Banca dell’Agricoltura
A parte i risultati oggettivi, peraltro importanti, l'autunno caldo si chiude con un avvenimento
destinato a fare da spartiacque nella storia del nostro Paese. La strage di Piazza Fontana, sul finire
del 1969, segna la nascita della cosiddetta “strategia della tensione”, da molti considerata come una
risposta alla stagione del rinnovo dei contratti. Venerdì 12 dicembre, alle 16.37, nel salone centrale
della Banca Nazionale dell'Agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano, esplode una bomba che
provoca sedici morti e ottantasette feriti. I morti sono tutti clienti della banca: coltivatori diretti,
imprenditori agricoli della provincia, nessuno è un artefice della "contestazione" o un
rappresentante del sistema, sono tutti semplici cittadini. La polizia e il Ministero dell’Interno
annunciano, con una fretta non giustificata, che l’attentato è di chiara matrice anarchica. Tra gli
anarchici sospetti, immediatamente fermati, figura il ballerino romano Pietro Valpreda che, in base
alla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, viene accusato di essere il principale responsabile
del massacro. Valpreda trascorrerà tre anni in carcere in attesa del processo, e solo nel 1985 verrà
finalmente prosciolto da ogni accusa, ben sedici anni dopo la strage. Un altro anarchico, il
ferroviere milanese Giuseppe Pinelli, ha un destino ancora più tragico: arrestato la notte dopo
l’attentato, trascorre le successive quarantotto ore nella questura di Milano e il 15 dicembre, appena
dopo mezzanotte, muore cadendo dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. In una
conferenza stampa, avvenuta la stessa notte, il questore di Milano, Marcello Guida, annuncia che
Pinelli è gravemente implicato nell’organizzazione della strage, salvo poi doversi ricredere, sei anni
più tardi, quando il tribunale lo scagionerà completamente.
Lentamente, ma inesorabilmente, la versione della polizia sulla responsabilità degli anarchici
comincia a disintegrarsi ed inizia a farsi strada una spiegazione più allarmante. Le prove che le
forze dell’ordine avevano deciso di ignorare portavano non agli anarchici, ma ad un gruppo
neofascista del Veneto facente capo a Franco Freda e a Giovanni Ventura.
Ciò che a questo punto desta maggiore preoccupazione è la scoperta dello stretto rapporto di
confidenza esistente tra lo stesso Ventura e Guido Giannettini, colonnello del Sid, il Servizio
informazioni della Difesa, noto sostenitore del MSI di Giorgio Almirante.
Comincia così a venir fuori un quadro molto inquietante sui rapporti tra i membri del servizio
segreto e i gruppi di estrema destra. L’opinione pubblica italiana, al corrente delle vicende grazie ad
alcune pregevoli inchieste giornalistiche, è sempre più convinta che si stia tramando un complotto
ai danni della democrazia: una lunga serie di attentati e di altri crimini, infatti, diffonderanno panico
ed incertezza, creando le pre-condizioni per un colpo di stato.
8
I.4 La strategia della tensione
Le bombe del 12 dicembre sconvolgono soprattutto per la loro ferocia, ma sarebbe inesatto dire che
giungono inattese. Rappresentano piuttosto il momento culminante di una escalation di fatti noti e
ignoti che avvengono durante l'intero 1969 e che fanno parte di un preciso disegno politico. La
strage di Piazza Fontana, infatti, colpisce un Paese in cui, a partire dal 3 gennaio, si sono registrati
ben centoquarantacinque attentati: dodici al mese, praticamente uno ogni tre giorni.
Novantasei di questi sono di riconosciuta marca fascista, o per il loro obiettivo (sezioni del Pci e del
Psiup, monumenti partigiani, gruppi extraparlamentari di sinistra, movimento studentesco,
sinagoghe, ecc.) o perche' gli autori sono stati identificati. Gli altri sono di origine ufficialmente
incerta oppure vengono addebitati a gruppi della sinistra estrema o agli anarchici (come le bombe
del 25 aprile alla fiera campionaria e alla stazione di Milano).
Le vittime di Piazza Fontana segnano un drammatico “salto di qualità” nell’ambito della strategia
della tensione in quanto nessuno, fino ad allora, aveva perso la vita nelle precedenti azioni
terroristiche.
Fonti istituzionali, come la Commissione stragi, ma anche numerose fonti pubblicistiche,
individuano l’atto di nascita della strategia della tensione nel convegno dell’Istituto Pollio che si
svolse tra il 3 e il 5 maggio 1965 presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma.
«Il convegno – come si legge nella relazione della Commissione stragi - ebbe ad oggetto "la guerra
rivoluzionaria", e cioè una dottrina che circolava ormai da qualche anno negli ambienti militari,
soprattutto sotto l'influsso di anteriori esperienze francesi, ed oggetto infatti di analoghi convegni
iniziati a Parigi nel 1960»
14
.
In sede saggistica si è osservato che, se da un lato, il convegno non presentò particolari novità dal
punto di vista delle analisi della guerra rivoluzionaria e delle strategie di risposta al clima di
agitazione sociale; dall’altro fu caratterizzato da una forte enfasi sull'imminenza del pericolo e sulla
necessità di passare immediatamente all'azione in un tono di ossessivo anticomunismo, spinto, si
disse, «ai confini della paranoia»
15
.
La strategia della tensione, elaborata durante il convegno, si presenta dunque come una risposta, in
termini di conservazione degli assetti di potere, alle lotte sociali montanti nel nostro Paese. Gli
attentati terroristici che insanguineranno il quinquennio 1969-1974 non verranno catalogati come
singole e sconnesse azioni criminali, ma appariranno, da subito, parte integrante di una vera e
propria operazione politica, frutto della collaborazione, in forme ancora tutte da chiarire, tra
14
Commissione Stragi, Il convegno del Parco dei Principi del maggio 1965, relazione del sen. Giovanni Pellegrino.
15
Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia, Feltrinelli, 1995, p. 141.
9
apparati dello Stato ed eversione nera. Con la strategia della tensione, infatti, come sostiene
Francesco Biscione, «si intendeva creare un clima che inducesse l’opinione pubblica a isolare la
sinistra in quanto nemica della libertà e della civiltà, onde poter giocare la carta di una fisiologica
svolta a destra o forse, alternativamente, quella del colpo di Stato»
16
. È proprio l’estrema destra
neofascista la protagonista operativa di questa stagione: godendo di particolari e fondamentali
coperture, infatti, gruppi come Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, a cavallo tra la fine degli
anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, ordirono e misero in atto decine di attentati che
puntualmente cercarono di attribuire all’avversario politico, i “rossi”, nel tentativo di
criminalizzarli.
16
Francesco M. Biscione, I poteri occulti, la strategia della tensione e la loggia P2, in AA.VV., L’Italia repubblicana
nella crisi degli anni settanta, a cura di G. De Rosa e G. Monina, Rubbettino 2003, pag. 237.