5
delle credenze religiose, del mito; gli studi cognitivi e psicologici hanno rivalutato l’esperienza
come fattore determinante il vissuto, la visione del vissuto, riposizionando l’uomo all’interno della
società e della natura come ulteriore elettrone scatenante e non più come centro da cui tutto
l’universo si ritrae, ed è ritratto.
La valenza dell’immagine acquisisce maggiore consenso a causa proprio della sua forte
ambiguità, dalla sua carica depistante situata a metà strada tra il concreto e l’astratto, tra il reale e il
pensato, tra il sensibile e l’intelligibile. Essa consente di riprodurre e interiorizzare il mondo, di
rispecchiarlo così com’è, a livello mentale o in virtù di un supporto materiale, ma anche di
modificarlo, di trasformarlo, fino a produrre mondi fittizi. Tra il dato puro dell’immediatezza
sensibile e il suo concetto, l’immagine costituisce, quindi, una rappresentazione intermedia, che
collabora tanto alla conoscenza del reale quanto alla sua piena dissoluzione nell’irreale.
Non a caso, l’immagine, se pur ha riconquistato l’interesse di moltissimi studiosi, non gode,
generalmente, di una buona reputazione, particolarmente se pensiamo ai filosofi, che hanno
prevalentemente rivolto la propria attenzione alle percezioni e ai concetti. Ne è esempio una
asserzione di M. Merleau-Ponty che ammette come «la parola immagine ha una cattiva fama perché
si è creduto che un disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e che l’immagine mentale
fosse un disegno di questo genere nel nostro privato»
1
; oppure, allo stesso modo, ma con una netta
presa di distanza, come rileva F. Dagognet, osservando che «il filosofo non apprezza di sua
spontanea iniziativa né i fantasmi, né le copie, né i riflessi, né gli abbagli, né i miraggi: la sua
saggezza e il suo buon senso lo mettono in guardia contro tutto ciò che è replica, mimetismo,
mistificazione»
2
.
Eppure la filosofia, alla pari della scienza, della psicologia e della sociologia, ha dovuto
riconsiderare l’immagine e attualizzare i suoi confini, la sua veste perturbatrice o comunque
mediatrice dell’attività dello spirito, obbligata a rivalutarla riesaminando certi suoi atteggiamenti
conservatori, aggiornando certi suoi concetti e giudizi.
Infatti, sarà scrupolosamente la filosofia a guidare per prima le nostre considerazioni
sull’immagine; e lo farà acquisendo una sostanziale responsabilità sulle ripercussioni culturali ed
artistiche che si presenteranno successivamente nel nostro discorso. Cercheremo di porre in visione
gli aspetti più interessanti che grandi pensatori moderni e contemporanei hanno attraversato nel
percorso delle loro ricerche.
L’intento primario del nostro studio sarà dunque l’analisi del “comportamento” dell’immagine
alla luce delle premesse teoriche che studiosi hanno affrontato, rispolverando vecchi e nuovi
1
M. Merleau-Ponty, L’œil et l’esprit, Gallimard, Paris 1964, p. 21, trad. it., L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989,
p.23.
2
F. Dagognet, Philosoohie de l’image, Vrin, Paris 1984, p. 250.
6
termini, metodologie e campi di ricerca utilizzati o ancora in utilizzo, in particolar modo orientando
i differenti pensieri a favore di una visione dell’immagine decisamente attuale, ricostruendone in
parte il tracciato ma, soprattutto, estraendone le fasi che ne hanno concentrato l’attenzione dei
moderni e contemporanei verso i suoi apparenti “difetti” e “disturbi”, sulla difficoltà di regolarne
uno statuto proprio ed adeguato.
Si delineerà così un flusso di informazioni ed ampie questioni che formeranno quello noi abbiamo
chiamato il fondo, in relazione proprio ad una delle “sezioni” vitali da cui l’immagine prende parte,
si genera, carica il suo potenziale ontologico e comunicativo, si raccapriccia su se stessa, si
istituisce per ciò che è e per ciò che aspira ad essere. Dall’origine del termine «immagine»
all’annullamento della sua origine; dal concetto di autonomia a quello di eteronomia; dal principio
di unità e controllo, a quello di molteplicità e dispersione; dall’idea di armonia a quello di
interferenza e complessità.
Sarà, di conseguenza, l’interferenza a governare, in seconda battuta - dopo averne chiarito le sue
basi ontologiche e fenomenologiche nel fondo dell’immagine - la seconda parte del testo; e questa
volta lo faremo partendo già con i piedi per terra, analizzando e riaccaparrandoci di due
manifestazioni da cui l’arte ha impiantato le radici nel regno dell’interferenza. Li chiameremo
margini, appositamente per evidenziare la portata innovativa e traumatica del loro operato in
funzione delle manifestazioni artistiche successive ad esse; ma anche per sottolineare come tali
shock si improntarono su ideologie ancora stabilizzanti, le quali, proprio in quanto tali,
conserveranno lo slancio utopico caratteristico delle avanguardie moderne, con quel bagliore
romantico di fondo che, invece, nel postmoderno avrà pochissimo spazio. Dei veri e propri “casi
limite” da prendere con le “pinze” ma da usare con piacere per “pizzicare”.
Soggetti di questa analisi saranno le idee socio-politiche e culturali dei Situazionisti, “gruppo”
dissoltosi ma che ancora scuote i pilastri di buona parte dell’informazione e comunicazione di
massa, e che, tramite essi, sono state saldate solide fondamenta in proposito. Vi saranno, poi, le
fluttuazioni pseudo-anarchiche dei componenti di Fluxus, storico e mitico agglomerato di attivisti,
che promuoveranno nuove soluzioni nella prassi artistica, rifiutando spesso la categoria di arte come
mondo a sé, e avanzando nuove azioni e proposte operative all’insegna del caos,
dell’improvvisazione e dalla sinestesia disciplinare tra le classiche forme di espressione. Sempre
all’interno del margine dell’interferenza, dell’immagine di interferenza.
Così, pertanto, giunti sul fronte dell’arte – scavato il fondo e rinvenuti i primi resti archeologici
dell’interferenza -, inizieremo ad esplorare gli orizzonti tangibili della superficie, la sua ogettualità,
la palpabilità e il feticcio intrinseco, la merce dell’arte contemporanea.
7
È da qui che si concentreranno gli ultimi sforzi critici a favore dell’immagine. L’immagine,
l’abbiamo accennato all’inizio di questa introduzione, è un fardello (ci piace questo termine perché
ne abbozza la sua struttura organica, variamente articolata, composta di parti, di organi appunto, di
ossa, di articolazioni, di flussi e di respiri; l’immagine non definisce mai la sua vera presenza; un
corpo senza forma o dalle infinite forme, sformato, informale, ma comunque un corpo sempre
formativo, che informa, che consuma e produce informazioni, che dall’informazione dipende, ne
subisce il fascino, la promuove, se ne fa carico, ci precipita dentro, si stressa ed urla), un fardello
onnipresente con cui conviviamo e che alimentiamo volutamente, volutamente che non significa
coscientemente. È una volontà nascosta, per parte repressa e guidata dall’alto, o dal basso, da ogni
direzione; una volontà che si tramuta in interesse quando riusciamo a scorgerne le sue potenzialità
ludiche, legate al gioco, mai troppo impegnative. È quindi un interesse disinteressato, così come
propone Mario Perniola - e noi lo appoggiamo -, «un interesse disinteressato che non sfugge il
mondo ma lo muove»
3
.
Da questi punti fermi partiremo con un’analisi storico-critica che affronta le principali
problematiche delle avanguardie del primo e secondo Novecento; identificheremo i suoi caratteri
portanti e che ne hanno segnato la storia, quell’“ultima” storia prima dell’avvento del postmoderno,
dove con la crisi dell’incertezza sembrava – almeno dalla fine degli anni ’60 fino a sfiorare gli ’80 –
che tutto avesse perso la propria logica interna, la funzione generatrice; realizzando invece, che la
cultura, il reale, hanno un fisico complesso, molteplice, stratificato e reticolare.
Queste sono alcuni degli atteggiamenti che questo studio assume, e ci tiene ad essere anche un
contributo a quel che di personale appare durante l’orizzonte creativo dell’arte. La scelta di una
tematica del genere risponde infatti alle esigenze e predilezioni spontanee di una ricerca artistica
che di persona si concretizza (crediamo con buoni esiti) con produzioni di vario genere,
impersonate spesso da installazioni visive, talvolta, però, anche con operazioni di maggiore
complessità e di alterata forma. Un’esigenza che nasce proprio dalla presa di coscienza di tutti quei
fattori elencati qui sopra (e articolati con più rigore durante tutte le pagine successive) e dalla forte
intenzione di sostenerne alcuni con maggiorata energia. È quindi in primo luogo un gesto di auto-
comprensione, in secondo luogo, invece, di arricchimento e vera e propria neo-formulazione. È
ancor’altro infine: un esercizio di riflessi e propensioni, un apporto “straniero” ai percorsi intrapresi
(e in corso) nella giungla selvaggia dell’arte contemporanea.
L’arte contemporanea ha di suo assorbito (ma ancora non pienamente digerito) l’essenza di queste
nozioni, mettendole in pratica, in relazione, producendo e attivando operazioni, sistemi, manufatti,
connessioni, i quali dialogano in modo compiaciuto con il sistema sociale dominante, sempre con la
3
M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, in copertina.
8
tipica energia “giocoliera” e “superficiale”, disturbando e interferendo il più possibile, meglio
possibile, ma disturbando e interferendo con educazione.
È quella «terza possibilità» che secondo il nostro parere suscita le migliori aspettative da parte
degli addetti ai lavori, perché si rivela motore portante di molte esperienze dell’odierno practicum
artistico. Da Chuck Close a Rikrit Tiravanija ad esempio, da Maurizio Cattelan a Vik Muniz,
ancora; da Douglas Gordon a Philippe Parreno e a Pierre Huyghe, da Dominique Gonzalez-
Foerster a Felix Gonzalez-Torres e Mattew Barney. Questi, sono alcuni di quegli artisti che
stimolano l’attuale e personale produzione artistica; che ora, non a caso, si giocano la “piazza” e che
aderiscono perfettamente a quella «terza possibilità», di sagace intuizione, affrontata nel 1962 da
Umberto Eco con Opera aperta; quella possibilità che si fonda, a sua detta, sull’«assunzione,
comunque, dei modi espressivi connessi a un ordine onde usarli per comunicare qualche cosa che
possa tuttavia promuovere atti di coscienza capaci di metter in crisi, un giorno, quest'ordine»
4
.
Una possibilità che adesso è già in atto, che sta iniziando con precaria attitudine a darsi ordine, a
ristabilire le connessioni con il suo referente capitale: l’uomo, la cultura, la società e i suoi prodotti
(e il prodotto uomo); è sempre questa – ad esempio –, continuando con Eco, «la
possibilità, avversata da molti, di usare in senso critico i mass media, per stabilire un principio di
presa di coscienza laddove l'atto eversore dell'avanguardia rischierebbe l'assoluta incomunicabilità,
e reiterato apparirebbe come provocazione aristocratica»
5
.
È questo, ebbene, il tentativo analitico della nostra ricerca. Cercare di riattivare i sensi, di
svilupparne e procrearne le cellule, di scovarne gli intrusi e i difetti, ma non per esiliarli o
eliminarli, per ripulire lo sporco in funzione di una nitidezza “celestiale”; solo, invece, con il
compito di rendere disponibile il nostro operato ad uso e consumo di chiunque, nel rispetto della
“bio-diversità”, entro i margini (i nostri margini) ed oltre i margini stessi; “surfando” sulla
superficie e raschiando il fondo, producendo rumore, con velocità e decisione, e soprattutto a
propria immagine e somiglianza.
Nell’era della connettività istantanea e della civiltà dell’immagine è un dovere che dobbiamo
assumerci con piacere. Si sa, certo, vi sono dei rischi da mettere in conto, e ci scusiamo in anticipo
se questa tesi potrà risultare troppo sommaria, forse anche azzardata e sprecata. Ma ce ne
assumiamo la responsabilità senza problemi, vogliamo provare ad essere almeno in quella «terza
possibilità», che, a conclusione di Eco, è «pericolosa ma contemplabile»
6
.
4
U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 2004, p. 221
5
Ibid.
6
Ibid.
9
PARTE PRIMA■
Il fondo
10
Capitolo 1.
genesi dell’immagine.
1.1. Fluttuazioni semantiche.
Le riflessioni d’obbligo da svolgere in partenza, sullo “sfondo” del fondo, in tal caso nascono
proprio dall’origine del termine «immagine». In questo come in altri campi, il termine «immagine»
deriva il suo vocabolario sia dalla lingua greca sia dalla lingua latina, che rimanda a sua volta a
radici indoeuropee. (Non ci dilungheremo molto su questi aspetti per lasciare più spazio, poi, a
questioni di maggiore rilevanza; è nostro dovere, però, prefigurarne le radici più che altro per
strutturare i rimandi ai curiosi ed alla bibliografia che conclude il nostro studio).
Dal punto di vista dei sostantivi, troviamo innanzi tutto il lemma eikon (icona), nel senso di
immagine, rappresentazione, dalla radice di weik-, che esprime l’idea di somiglianza. Nella lingua
greca, da Omero in poi, eikon discende da un orizzonte di esperienze di tipo ottico e che si basano
su una rappresentazione che si offre alla vista, strettamente connessa alla riproduzione verosimile di
una realtà. Da eikon derivano un serie di termini che ne ampliano e rinfrescano i contenuti e che ne
congiungono i significati con il concetto di idea, tanto a cuore ai dialoghi di Platone. Stiamo
parlando dei derivati eidos e eidolon che più propriamente di eikon si riferiscono a rappresentazioni
mentali oggetto di manifestazioni, apparizioni. Questo direttamente dalla radice eidos che significa
«aspetto, forma» e che con eidolon si appropria di una nuova componente irreale, associata spesso
all’idea di menzogna, «visione», semanticamente vicina a phantasma che di suo significa «far
brillare» (dal verbo phaino).
Nel latino i termini che si riferiscono all’immagine sono altrettanto vari e diversi di origine e
formazione ma con in comune gli stessi intrecci semantici. Si parte con imago, di incerta
etimologia, che sembra racchiudere in sé buona parte dei significati della parola «immagine». Ad
imago sono spesso associati anche forma (“cornice-supporto” rigido in grado di accogliere una
materia grezza) e figura (materia lavorata, con possibilità di modellamento).
Rispetto al greco il latino mantiene un vocabolario poco sistematico: «Immagine, metafora,
allegoria, enigma sono praticamente tutti ricondotti al procedimento più comune che consiste nel
dire una cosa per significarne un’altra»
7
. E, di fatto, i termini fabula, fictio, figmentum, significatio,
similitudo, figura, sono sotto molti aspetti sinonimi.
Dal punto di vista delle nuove lingue latine da noi utilizzate è perciò la parola imago ad avere
maggior credito nell’utilizzo del concetto di «immagine», grazie alla sua capacità di cogliere con
7
J. Pépin, Mythe et allégorie, Aubier, Paris 1958, p.90.
11
“un sol colpo d’occhio” gli usi più prettamente specifici dei termini greci eikon (icona), eidolon
(idolo), phantasma (fantasma).
Il termine immagine, quindi, nella sua derivazione latina, è fin dall’antichità usato per definire
molteplici espressioni conservando fin d’oggi quella caratteristica di genericità che tutt’ora la
contraddistingue e che ancora mette in crisi i facili pensatori. A noi piace ricordare come pochi anni
fa Jean-Jacques Wunenberger, nel suo Filosofia dell’immagine, mettendosi a rischio con una
definizione - anticipandone però la cautela al suo impiego -, preferisce chiamare convenzionalmente
immagine «una rappresentazione concreta, sensibile (a titolo di riproduzione o copia) di un oggetto
(modello referente), materiale (una sedia) o concettuale (un numero astratto), presente o assente dal
punto di vista percettivo, e che intrattiene un tale legame col suo referente da poterlo rappresentare
a tutti gli effetti e consentirne così il riconoscimento e l’identificazione tramite il pensiero»
8
.
Ci teniamo a precisare in anticipo che tale definizione è assolutamente erronea perché, come lo
stesso autore suggerisce, e come chiariremo pian piano, rischia di «suscitare una fiducia eccessiva e
prematura nell’unità della categoria che ha nome immagine»
9
, ma ci aiuta a postulare le inclinazioni
a cui l’immagine ha preso parte per molto tempo, almeno per tutta l’epoca moderna.
1.2. Pronto prova…ci senti? Aestetica.
La filosofia, lo stiamo iniziando a notare, nonostante alcuni storici pregiudizi in fatto di
immagine, si è dimostrata da sempre tra le forme di analisi più appropriate per l’indagine semantica,
storica, concettuale, estetica, del mondo dell’immagine, impossessandosi in diverse occasioni di
concetti e argomenti che effettivamente sorgono e si diffondono a partire dall’interesse teorico di
questa disciplina nei confronti delle vicissitudini evolutive dell’immagine.
La storia di questo interesse da parte della filosofia, ma, in generale, di tutti i campi del sapere,
non è in realtà cosa recente ma risale fin dall’antichità e ha continuato ad evolversi fino ai nostri
giorni assumendo forme e contenuti dei più disparati. Tuttavia si può ben dire che l’indagine
filosofica in riguardo all’immagine avviene in modo più sistematico e preciso a partire dalla nascita
dell’estetica come forma autonoma nel pensiero filosofico. Certo, l’abbiamo detto, fin dall’antichità
esistono tracce di studi e riflessioni scritte di notevoli autori, studi spesso densi di erudizione, ricchi
di intuizioni che hanno scandito nei tempi le diverse immagini del mondo, ma la ricerca dell’estetica
fu il primo vero passo in avanti a favore di un procedimento intellettivo e metodologico che,
fiancheggiando di passo in passo le espressioni plastiche dell’arte, giungeranno spontaneamente a
trattazioni più inerenti allo statuto dell’immagine.
8
J.-J. Wunenberger, Filosofia delle immagini, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999, p. 5.
9
Ibidem.
12
La tradizione che ha dominato più a lungo la scena filosofica, fino a egemonizzare gli stessi
presupposti teorici delle scienze umane frutto del XIX secolo, giudicava l’immagine una
rappresentazione derivata, seconda, comprensibile solo in concomitanza con gli altri due mondi di
rappresentazione, la percezione sensibile e la concettualizzazione intellettuale.
Nell’ambito del cosiddetto “razionalismo tedesco”, il nome che merita di essere citato prima di ogni
altro, quando si parla di fondazione dell’estetica moderna e di rappresentazione percettiva del
«bello», è quello di Alexander Baumgarten. Discepolo di Christian Wolff è, fra l’altro, il primo a
coniare e utilizzare il termine «estetica», nel volume Aesthetica (1750-58), da lui intesa (in
opposizione alla «logica», che riguardava la conoscenza intellettuale) come «scienza della
conoscenza sensitiva», ovvero «teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare
bello, arte dell’analogo della ragione»
10
. Ma come fa Baumgarten a coniugare i due aspetti del
termine, quello gnoseologico e quello critico-artistico relativo alla bellezza? Può farlo sulla base
della propria conoscenza sensibile, la quale, essendo dotata di valore intrinseco – quindi non
meramente preparatorio rispetto alla logica – riguarda la rappresentazione «chiara ma confusa»,
ossia non oscura, ma nemmeno chiara al punto di distinguerla con la logica. Ora, la perfezione della
conoscenza del sensibile in quanto tale è proprio la bellezza, alla quale devono pertanto essere
riconosciuti un valore e un significato universali. Si delineano, quindi, con Baumgarten , le prime
nozioni filosofiche, il sentire e la bellezza, alla quale quasi tutta l’estetica moderna d’ora in poi farà
riferimento.
Se Baumgarten instaura i primi rapporti intellettivi con il mondo della bellezza estetica, è pur
vero che un mutamento epistemologico esenziale interverrà quando l’immagine sarà promossa al
rango di entità rappresentativa autonoma e primaria, e le verrà conferita, in gradi diversi, una
funzione dinamizzante e generatrice sia per le rappresentazioni sensibile sia per quelle intelligibili.
Questa «rivoluzione copernicana» delle rappresentazioni, messa più volte in cantiere, per esempio
durante il Rinascimento con le dottrine dell’immaginazione creatrice, trova la sua prima espressione
strutturale nella teoria dell’immaginazione trascendentale ad opera di Kant, che, appunto, assegna
all’immagine uno statuto trascendentale situandola nel cuore delle operazioni intellettuali.
È con la Critica del Giudizio, datata 1790, che Immanuel Kant, insoddisfatto delle tesi proposte
dal Baugmarten e da buona parte del razionalismo tedesco (ma anche dall’empirismo britannico,
che vede in David Hume la forma più radicalizzata), ribalta e chiarisce la posizione dell’immagine.
Il trascendentalismo dell’immagine attinge con Kant a due esiti concorrenziali: il primo è la teoria
dello schematismo percettivo, il secondo la teoria della simbolizzazione analogica all’interno della
riflessione dell’Assoluto.
10
A.G. Baumgarten, Estetica, a cura di F. Piselli, Milano 1992, p. 17.
13
Nel primo caso, secondo Kant, prima che un contenuto appaia attraverso i sensi, preesistono,
nella facoltà rappresentativa, dei modi di appercezione che consentono di strutturare il fatto
fenomenico. La struttura figurativa del soggetto predetermina così il mondo sensibile, che non può
essere mondo se non a patto di sottomettersi, negli atti intellettuali della conoscenza, all’ordine
prestabilito di una funzione immaginativa. Per cui la percezione è appunto una costruzione alla
quale contribuiscono delle immagini, immagini che a loro volta costringono l’intelletto a rinunciare
ad applicare direttamente i suoi concetti alle intuizioni empiriche. «Questo schematismo del nostro
intelletto […] è un’arte nascosta nelle profondità dell’anima umana: difficilmente impareremo mai
dalla natura le vere scaltrezze di quest’arte, in modo da poterle presentare senza veli»
11
. Con tale
prospettiva, la matrice rappresentativa che prefigura l’intuizione empirica può assomigliare a un
«monogramma», che non comprende ancora, a titolo di immagini, determinazioni empiriche
particolari. Lo schema, perciò, non corrisponde tanto ad un originale, da esemplare per l’oggetto,
ma si rifà piuttosto ad una sorta di prototipo generico, una base dalle molteplici applicazioni
concrete. L’immaginazione, a tal punto, diviene così un mero supporto dell’intelletto, un punto di
appoggio nella sintesi trascendentale, nella quale, il processo cognitivo ha però, in un certo senso,
privato all’immagine la sua vitalità e generatività a beneficio di una funzione più logistica.
Dopo essere intervenuta, tramite lo schematismo, nella costituzione della conoscenza oggettiva
del mondo offerto ai sensi, con la seconda teoria della simbolizzazione analogica l’immaginazione
apre le porte all’Assoluto fornendogli un contenuto nuovo: rappresentazioni analogiche che
trascendono il quadro dell’esperienza empirica. In breve, le immagini, dando un contenuto
figurativo a ciò che sfugge all’esperienza dei sensi, permettono che si alimenti un pensiero che non
coglie contenuti determinanti, paradigmatici, ma esprime invece contenuti che per lo meno danno la
possibilità di tradurre ciò che possiamo dimostrare con un senso univoco. Quindi, l’immagine
allora, pur riducendosi, dal lato della percezione, ad una funzione più logica che figurativa, prende
tuttavia posto nel pensiero del soprasensibile, che assicura la formazione di contenuti astratti dove i
concetti non sempre riescono ad attingere.
Il successo delle teorie di Kant si dimostrano nella facoltà del processo di schematizzazione e di
simbolizzazione dell’immagine, di avviare un meccanismo di «condensazione particolare», una
«“intensificazione” dell’intuizione sensibile»
12
, che agisce come una sintesi qualitativa
dell’esperienza, atta ad integrare il particolare con il generale e quindi in una identità.
E sono, quest’ultime, parole di Cassirer che, sulla scorta del trascendentalismo, assicurano forse
l’approfondimento kantiano più originale. Ernst Cassirer mette in particolare evidenza le
11
I. Kant, Critica della ragion pura, I, II, I, Adelphi, Milano 1976, p. 221.
12
E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I. Fenomenologia della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze 1966, p.
99.
14
simbolizzazione operanti nel mito, nell’arte e nel linguaggio, che sono altrettante vie espressivo-
culturali di una messa in scena del mondo. «Sotto questo punto di vista, il mito, l’arte e così il
linguaggio e la conoscenza divengono simboli: non già nel senso che essi designino sotto forma di
immagine, di allegoria che allude e che spiega una realtà precedentemente data, bensì nel senso che
ciascuna di queste forme crea e fa emergere da se stessa un suo proprio mondo di significato. In
esse si manifesta l’autospiegamento dello spirito: e soltanto per mezzo di esse sussiste per lui una
“realtà”, un essere determinato, organico. Non imitazioni di questa realtà, ma organi di essa, sono
ora le singole forme simboliche, in quanto solo per mezzo loro il reale può essere assunto a oggetto
della visione spirituale e quindi come tale divenire visibile»
13
. Attraverso codeste «forme della
ostensibilità»
14
, codesti atti di «ideazione simbolica»
15
, l’uomo interpone originalmente, tra sé e il
mondo, forme che faranno da tramite ad un certo numero di varianti della totalità dell’esperienza,
che già contribuiscono a darle un senso. Sotto questo aspetto, la rappresentazione per immagini non
si rifà più a una forma pura e si comporta davvero come mediatrice di senso, nella veste di una
“pregnanza simbolica” dell’esperienza prima. Ecco perché, dunque, la coscienza simbolica si rivela
particolarmente presente e operante nella coscienza religiosa, che rappresenta il primo modo di
«apprensione» (Kant) della realtà. Le rappresentazioni astratte della scienza o della filosofia si
presentano se mai come un superamento di questa prima struttura simbolica, una sorta di
trattamento analitico per esteso di ciò che era stato trattato, nell’esperienza religiosa, in modo
sintetico e concentrato.
Con tali assunzioni possiamo iniziare a comprendere come l’immagine asservisce il dibattito
principale dell’Estetica, lavorando dal primo giorno di nascita alla sostanza della rappresentazione e
dell’immaginazione attraverso il «sensibile». Tali tematiche costringeranno la filosofia a rivisitare e
correggere in visione dell’arte le appropriazioni ontologiche sul filo della «somiglianza», argomento
che si aggiunge ai precedenti due e che estenderà le discussioni filosofiche spingendosi fino alla
piena assegnazione dell’autonomia da parte dell’immagine.
13
E. Cassirer, Linguaggio e mito, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 16.
14
Ibid.
15
E. Cassirer, Filosofia, cit., III/i, p. 176.
15
1.3. Mimesis. «Essere a immagine di».
Un giorno, dipingendo un cavallo, e volendo rappresentare nel quadro la schiuma del
cavallo, egli dovette rinunciare e gettò infuriato, sul quadro, la spugna con la quale
asciugava il pennello: il che ebbe come effetto di lasciare una traccia di colore che
assomigliava alla schiuma del cavallo.
Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, I, 31.
L’essere un’immagine implica in partenza far richiamo ad un referente a cui l’immagine rimanda.
Questo problema rappresenta un punto cardine della formazione dell’immagine come organismo
autonomo, perché presenta a sé i fondamentali attributi che percorrono lo statuto dell’immagine
proiettata verso il mondo; mondo a cui essa fa carico e in cui essa si riproduce.
In altri termini, la stessa definizione di immagine comporta una dipendenza dall’altro da sé,
dipendenza da un modello nel registro di una rassomiglianza morfologica. La qualità e la verità del
contenuto di un’immagine sono dunque condizionate da un raffronto fra l’immagine-copia e la
forma di riferimento, che consente di stabilire se la copia è, da un lato, immagine, dall’altro,
immagine più o meno somigliante. «Nel momento in cui diviene immagine, una forma è chiamata a
esistere per una seconda volta: è, nello stesso tempo, Medesima ed Altra, perché dev’essere la
propria immagine somigliante ma anche essere sufficientemente distinta dal modello, per poter
apparire come l’immagine e non come l’essere originario»
16
. Per cui l’immagine è sempre
inseparabile da una comprensione in termini di filiazione. Essendo «immagine di», essa rimanda
inevitabilmente alla propria origine e chiede dunque di essere pensata attraverso il paradigma
gnoseologico. Simmetricamente, non si dà immagine se non si riproduce una qualche realtà di idee
o di oggetti, cioè se la realtà non esce da sé e non produce altro da sé. L’immagine presuppone
pertanto, inizialmente, che l’essere, il reale, non sia unico ma possa dar luogo a una duplicazione,
almeno della sua “forma”. C’è dunque immagine solo quando un essere, oggetto o idea che sia, si
riproduce.
L’esperienza di un doppio dotato di somiglianza è per l’appunto all’origine mitica dell’immagine.
Nella tradizione greca, l’enigma dell’immagine viene sovente associato alla pittura di Apelle, che,
grazie ad alcuni tocchi impressi dalla sua mano alla materia, fece apparire la forma stessa di
Afrodite. Da allora, il discorso sull’immagine non ha cessato d’interrogare questa sconcertante
proprietà dell’immagine, che le consente di riprodurre qualcosa, di replicare il reale, pur essendo
altro da esso, e di essere nello stesso tempo assenza o negazione della realtà rappresentata.
16
J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, cit., p. 137.
16
1.3.1. Riproduzione e modello.
Fin dall’antichità l’interpretazione filosofica dell’immagine trova posto in una teoria generale
della creazione come riproduzione, sia essa applicata all’azione demiurgica degli uomini o degli
déi. A qualunque livello si dispieghi, essa impegna comunque due logiche antitetiche della mimesis,
una riproduzione esterna, legata alla costruzione di opere sulla base di progetti (demiurgos), l’altra,
di riproduzione interna, di generazione o procreazione di un essere vivente per via naturale
(phytourgos). La prima tende a risultare dominante nell’antichità greca e ha contribuito alla
formazione di una metafisica dell’immagine, particolarmente in Platone; la seconda conoscerà un
rinnovamento e un approfondimento senza pari nella teologia cristiana, concentrandosi sull’idea di
un Dio incarnato.
Per Platone, l’immagine si definisce come ciò che mette fine alla esistenza immutabile di una
Forma essenziale (eidos), di un essere autentico che esiste in sé e per sé.
Ogni atto poetico, di un demiurgo o di un artigiano, consiste nello strappare la Forma alla sua
singolarità intelligibile per duplicarla in una spazio-temporalità sensibile. L’attività mimetica è
quindi equivalente alla manifestazione del molteplice e si sviluppa allora secondo una gerarchia di
immagini, tutte governate dal principio della somiglianza.
Al più alto livello troviamo la Forma essenziale, un essere immateriale ed eterno ma già pensato
come modello, da sempre destinato ad essere visto. L’Idea è quindi una matrice intelligibile nella
misura in cui assume una figurazione. L’essenza può così dirsi una forma “spettacolare”, sempre in
attesa di essere svelata da uno sguardo, di essere riprodotta al di fuori, al fine di irradiare la propria
bellezza all’esterno di sé. «Ogni cosa dunque, di cui il demiurgo realizzi la forma e la potenza
guardando a ciò che si mantiene sempre identico a se stesso e servendosene come modello, riesce
necessariamente tutta bella»
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A un secondo livello, le Forme pure acquistano una configurazione nuova divenendo Forme-
immagini costituite da numeri e figure geometriche. Riproducendosi, la Forma in sé acquista una
nuova visibilità, sempre meglio determinata. Questa mediazione figurale dell’Idea-Forma, garanzia
del passaggio da un piano intelligibile a un piano sensibile, rimanda inoltre, in modo più
enigmatico, alla teoria della chora, termine che rinvia alla funzione generatrice di una spazialità.
Tutto quanto partecipa di una genesi ha infatti bisogno, nel suo manifestarsi, di essere accolto in un
topos (luogo) che si comporti come typos, una fonte di forme particolari. La chora «accoglie in sé
tutte le cose, e non assume assolutamente nessuna forma simile a nessuna delle cose che entrano in
lei; per natura è uno stampo di ogni cosa, modificato e conformato da ciò che vi entra e, a causa
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Platone, Timeo, 28 a-b, Mondatori, Milano 1994.