producibilità delle forme culturali folcloriche, e sono quindi inerenti alla problematica del significante.
La nomogenesi e gli schemi sono leggi di funzionamento 'interne' e oggettive che regolano un processo
evolutivo.
Quest'ipotesi vede infine l'importanza di integrare l'elemento del tempo, inteso kantianamente,
col quale lo schema intrattiene un rapporto stretto, nelle problematiche semiotiche.
La nostra tesi, nell'ambito della suddetta ipotesi del prof. Borghini, si colloca come verifica sul piano
storico-bibliografico. Essa consisterà, per l'appunto, in un esame delle interpretazioni dello
schematismo trascendentale che sono state fornite nella storia della filosofia e nella critica filosofica.
Nel primo capitolo si esporrà un profilo della configurazione dello schematismo trascendentale nel
contesto della Critica della Ragion Pura; nel secondo si esaminerà invece la critica filosofica, col fine
di valutare se esistono eventuali agganci con la suddetta ipotesi o suggerimenti che possano orientare
verso una possibile interpretazione semiotica dello schematismo; infine si farà un breve accenno alle
linee generali dell'ipotesi del prof. Borghini.
Per chiunque si sia interessato di Kant è ben nota la profonda oscurità che avvolge l'argomento dello
schematismo. Kant stesso, nell'esposizione dell'argomento, "avvisava" in certo modo la critica a venire
della difficoltà di penetrare questa "arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi
difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi". (3) Con questa
tesi si tenta dunque di fornire in primo luogo il quadro delle interpretazioni che, nonostante l'indubbia e
dichiarata difficoltà dell'argomento, sono state avanzate.
In termini molto generali si possono individuare due grosse tendenze nella critica kantiana in
merito alla questione. Davanti al problema del divario esistente tra intelletto e sensi, o tra spontaneità e
ricezione, che lo schematismo, in ultima analisi, tenta di colmare, una corrente critica ha tentato di
vedere in esso il mezzo attraverso cui la facoltà dell'immaginazione trascendentale - ritenuta da questa
corrente, secondo la concezione della prima edizione della Critica della Ragion Pura, radice comune
tra intelletto e sensi - unifica le altre due facoltà della sensibilità e dell'intelletto, annullando il suddetto
divario. Tra concezione e percezione ci sarebbe dunque continuità, omogeneità in virtù delle operazioni
schematizzanti dell'immaginazione. Si tratta di un'interpretazione del kantismo che mira ad individuare
le ragioni originarie del divario, quindi di una corrente che studia Kant come un filosofo del "perché".
Su questa posizione si sono schierati in genere i romantici e, nel nostro secolo, Heidegger, i primi
nell'intento di individuare una facoltà originaria capace di rendere conto del problema della creatività;
il secondo nell'ottica di fornire un modello del conoscere connesso all'idea di finitezza, con problemi di
carattere più esistenziale che logico-formale.
L'altra corrente, al contrario, ha visto in Kant un filosofo del "come" ed ha quindi accettato
l'esistenza del divario in questione, ponendosi non tanto il problema di come esso si sia originato o se
sia esistente o meno. Il divario c'è e Kant ha semplicemente illustrato le modalità secondo cui la
conoscenza procede in base a questa opposizione di fatto. E la modalità principale che regola il
rapporto tra percetto e concetto è quella dello schematismo trascendentale. Si tratta dunque di
un'interpretazione formalistica protesa ad individuare i meccanismi formali delle strutture della
conoscenza.
E' opportuno rimarcare sin dall'inizio che non sembrano essere state trovate soluzioni definitive
o pienamente esaustive della questione, cosa che, se non altro, indica che si tratta di un terreno di
ricerca ancora aperto. Esistono certo dei tentativi di spiegazione interessanti provenienti dal panorama
filosofico. E' possibile dunque che un'integrazione con posizioni di tipo semiologico possa indicare
linee, ovvero trovare vie, capaci di chiarificare, almeno parzialmente, un argomento così oscuro.
Il nostro lavoro si allinea comunque con la seconda corrente interpretativa. La concezione della
conoscenza alla quale ci rifacciamo vede nella lingua, o meglio nella struttura significante, l'elemento
basilare dei processi gnoseologici. La prospettiva semiotica nella quale questo lavoro trova la sua
collocazione, mira dunque ad evidenziare nello schema un modello di funzionamento dei meccanismi
linguistici nonché a proporre una lettura semiotica delle procedure di schematizzazione. La tendenza di
fondo è quella di rimanere esclusivamente legati al piano formale del senso, senza porsi il problema del
rapporto con la referenza; la linea critica che abbiamo definito formalistica è più vicina alla nostra
posizione.
Sarà opportuno inoltre precisare che la scelta del materiale bibliografico, che vuole essere più
ampia possibile, opera una parziale selezione che si accorda con lo scopo della tesi: si tenterà di dare
particolare rilievo a quei temi che possono fornire linee utili per un'interpretazione semiotica dello
schematismo. Ne consegue che sono state tralasciate le osservazioni tendenti ad estendere la nozione di
schema all'ambito morale e a quello estetico (per altro non numerosi) per limitare il campo ai contributi
a carattere teorico che incentrano la discussione sul senso del capitolo limitatamente all'ambito della
teoria della conoscenza.
******
Note all'introduzione.
(1) Si tratta di un'ipotesi definita nell'ambito dei corsi di semiotica del prof. Borghini tenuti
all'Università di Pisa, facoltà di lingue e letterature straniere e dei corsi di antropologia culturale tenuti
presso il Politecnico di Torino, facoltà di architettura.
(2) Bogatyrëv P., Jakobson R., Il folclore come forma di creazione autonoma, in "Strumenti critici", I,
3, 1967.
(3) Kant, La critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice riveduta da V.
Mathieu, Roma-Bari La Terza 1993, p. 138.
CAPITOLO I
LA CONFIGURAZIONE DELLO SCHEMATISMO TRASCENDENTALE
NELLA CRITICA DELLA RAGION PURA
1. INTRODUZIONE
La riflessione filosofica di Kant nell'ambito della teoria della conoscenza, segna da un lato la fine
dell'ormai perenne conflitto tra gli a priori del razionalismo e gli a posteriori dell'empirismo, e dall'altro
il nascere di una nuova era della gnoseologia, epistemologicamente critica, operativamente costruttiva:
il Criticismo. Se il razionalismo (di cui Kant fu inizialmente seguace) pretende di raggiungere la cosa
in sé, presupponendo tra soggetto e oggetto un'armonia prestabilita che quindi sconfina nella
metafisica, l'empirismo, nella pretesa di individuare la genesi del concetto nella sola sfera della
sensibilità, perde ogni nozione di necessità, riducendola al massimo alla humiana consuetudine,
incapace di spiegare l'effettiva regolarità del verificarsi di certi fenomeni e il conseguente accordo
universale tra concetto e percetto.
A risolvere tale contrasto si presenta dunque l'idea kantiana dell'a priori delle forme piuttosto
che delle sostanze, altrimenti detta filosofia trascendentale, che non si occupa cioè degli oggetti della
conoscenza, ma delle strutture stesse del conoscere in quanto correlate agli oggetti, col fine di
determinare la possibilità di esperienza degli oggetti stessi. La Critica della Ragion pura, edita prima
nel 1781 e poi nel 1787, espone la dottrina kantiana della conoscenza e l'oggetto di questo primo
capitolo sarà appunto quello di riassumere l'iter argomentativo di Kant, con particolare attenzione alle
parti più significative, come la Deduzione trascendentale dei concetti puri e lo Schematismo dei
concetti puri dell'intelletto.
Una volta stabilito che la conoscenza avviene tramite la formulazione di giudizi sul mondo
quale si presenta ai sensi, Kant evidenzia due forme possibili dei giudizi: quelli analitici, che
analizzano un concetto senza aggiungere niente alla conoscenza dello stesso, e si limitano quindi a
spiegarlo; e quelli sintetici, che invece ne amplificano quantitativamente la conoscenza, estendendo la
portata del concetto stesso. A loro volta questi giudizi possono essere a priori o a posteriori; il problema
centrale della filosofia trascendentale e quello della possibilità di giudizi sintetici a priori. Di giudizi
cioè che permettono di amplificare la conoscenza o di farla avanzare, ma a prescindere dall'esperienza.
Nella prima parte della Critica, l'Estetica trascendentale, Kant illustra le due prime forme pure
della conoscenza, cioè le due prime strutture trascendentali: lo spazio ed il tempo, concepite come
forme pure dell'intuizione sensibile. Forme, cioè, non derivate dall'esperienza, ma, strutture mentali a
priori proprie del soggetto, mezzi attraverso i quali questo può organizzare l'esperienza percettiva e
trasformarla in dati da cui poi trarre conoscenza. I dati derivati dai sensi costituiscono invece la
sostanza, la materia che va a riempire dette forme, e che senza di esse non potrebbe essere percepita.
Ciò che risulta dall'interazione delle due è dunque l'intuizione empirica o sensibile che presenta il
fenomeno: cioè l'oggetto percepito non in quanto cosa in sé, ma in quanto dato organizzato dalle forme
pure, costrutto dell'attività cognitiva dell'uomo.
La concezione kantiana del tempo e dello spazio, in quanto formale e non sostanziale, definisce
le due forme pure dell'intuizione come principi di organizzazione e non come contenitori vuoti da
riempire con i fenomeni. Lo spazio, o senso esterno e il tempo, o senso interno, diventano dunque le
modalità secondo cui si configurano nella percezione del soggetto i fenomeni dell'esperienza: senza i
primi non si potrebbero conoscere i secondi; senza i secondi i primi non avrebbero modo di esistere.
Tale caratteristica contraddistingue fortemente il tempo kantiano da altri modelli del tempo elaborati
nella filosofia: si tratta di un tempo che non risulta indipendente dalla sensibilità e dai fenomeni; di un
tempo che è nei fenomeni stessi, nel loro modo di apparire nell'intuizione e che è costituito da quel
complesso iato esistente tra concetto e percetto.
I dati sensibili organizzati spazio-temporalmente non sono però ancora oggetto di conoscenza
perché questa avviene per concetti. La seconda parte della Critica è intitolata Logica trascendentale, e
nel suo primo capitolo, l'Analitica trascendentale, Kant passa alla spiegazione di cosa siano i concetti
dell'intelletto e li definisce come somma delle rappresentazioni derivate dai dati delle intuizioni
sensibili operata attraverso giudizi: il giudizio è dunque, kantianamente, una sintesi di rappresentazioni
del molteplice empirico fornite dalle intuizioni pure. Ma suddetti giudizi, dovranno operare secondo
delle modalità specifiche e universali essendo operazioni logiche di sintesi; tali modalità sono appunto
le categorie, delle quali Kant, come già fece Aristotele a suo tempo, fornisce un quadro completo. Così
l'intelletto per conoscere sintetizza i dati ricevuti dalle intuizioni sensibili; tali sintesi avvengono
mediante giudizi i quali devono necessariamente seguire le funzioni logiche delle categorie che sono la
Quantità, la Qualità, la Relazione e la Modalità, e sono a loro volta suddivise ognuna in tre specie. Le
prime due categorie illustrano le caratteristiche dell'oggetto stesso; la terza il modo di correlarsi degli
oggetti tra di loro; la quarta il rapporto che si viene a creare tra gli oggetti ed il soggetto pensante.
Propri all'attività del conoscere sono quindi tre tipi di concetti:
1) Concetti puri a priori, che sono le categorie, cioè mere funzioni logiche atte a sintetizzare e
necessitanti della sensibilità per potersi realizzare ed acquisire senso.
2) Concetti sensibili puri; è il caso dei concetti matematici o delle figure geometriche, che sono
immediatamente (cioè senza la mediazione dell'esperienza) dati nell'intuizione sensibile e non si
ritrovano nell'empirico.
3) Concetti empirici; tutte quelle "costruzioni" derivanti dall'interazione dei concetti puri e delle
intuizioni e che derivano dunque dall'esperienza quanto al contenuto.
La possibilità di giudizi sintetici a priori si realizza dunque nel primo gruppo di concetti, cioè
nelle categorie, che sintetizzando funzionando a priori, e col capitolo intitolato Deduzione
trascendentale dei concetti puri dell'intelletto si procede alla dimostrazione della loro effettiva origine
pura. Con questo passo della Critica ci avviciniamo al nucleo più interessante dell'opera: primariamente
perché è essenziale alla dottrina dello schematismo di cui ci interessiamo nel presente studio;
deduzione e schematismo sono difatti due argomenti strettamente legati che fanno capo all'unico
problema di come sia possibile pensare e ragionare a prescindere dall'esperienza; ed in secondo luogo
perché si tratta del momento più ricco di conseguenze per quel che riguarda la teoria della conoscenza,
soprattutto dal punto di vista epistemologico. Si tratta di dimostrare la necessità oggettiva dell'apparato
critico finora descritto; di provare cioè oggettivamente che la conoscenza non può che avvenire
mediante le strutture evidenziate da Kant, strutture a priori che permettono la costruzione dei dati a
posteriori. Data l'importanza della deduzione trascendentale se ne tenterà uno studio dettagliato, con
attenzione a quegli elementi che risulteranno utili per la nostra analisi.
2. LA DEDUZIONE TRASCENDENTALE
2.1. La distinzione Quid Juris, Quid Facti o la necessità della deduzione.
Per introdurre la spiegazione del problema della deduzione trascendentale, Kant ricorre ad un paragone
col mondo giuridico prendendo l'esempio della distinzione tra ciò che è di diritto e ciò che è di fatto,
laddove la dimostrazione di ciò che è di diritto viene detta deduzione. Nell'ambito della conoscenza
avviene qualcosa di simile: si fa comunemente uso di numerosi concetti empirici che non hanno
bisogno di essere dedotti per diritto. Ma esistono parimenti alcuni concetti di tipo puro, applicabili
all'esperienza, ma non derivati dalla stessa; e la deduzione trascendentale ha lo scopo precipuo di
dimostrare la loro esistenza e soprattutto la loro applicabilità agli oggetti dell'esperienza. Fanno parte di
questi concetti ad esempio il tempo e lo spazio che si applicano alle sensazioni, ma non derivano
dall'esperienza. Sicuramente essi trovano nell'esperienza le"cause occasionali del loro sorgere" (1) cioè
l'inizio del loro funzionamento, ma non certo la loro origine. Tutto ciò va però dimostrato e la
deduzione è esattamente tale difficile impresa.
2.2. La validità oggettiva delle condizioni soggettive.
Per quanto riguarda il tempo e lo spazio, Kant ha già dimostrato che senza di essi gli oggetti stessi non
sono possibili essendo essi "intuizioni pure che contengono a priori la condizione della possibilità degli
oggetti come fenomeni" (2). Ma se è evidente che gli oggetti si devono conformare alle condizioni
formali della sensibilità per poter essere percepiti, non è altrettanto evidente che essi si debbano
conformare alle condizioni formali dell'intelletto stesso, cioè le categorie, per poter essere pensati. Kant
si sta qui ponendo un problema di tipo epistemologico: come è possibile che le condizioni soggettive
del pensare abbiano validità oggettiva? In altre parole la necessità che si riscontra nel concetto di
causalità è un concetto vuoto cioè un'abitudine, oppure è una reale caratteristica degli oggetti in quanto
organizzati come fenomeni e quindi impressa loro dal nostro intelletto per permetterne la conoscenza?
La soluzione empirista che postula il concetto di consuetudine per spiegare la causalità non spiega in
realtà l'universalità di certe regole che ricorrono così rigorosamente nel fenomenico che non possono
essere altro che necessarie.
2.3. Il concetto di oggetto in generale.
La conoscenza di un oggetto è sottoposta a due condizioni: l'intuizione, attraverso cui l'oggetto è dato, e
il concetto, attraverso cui l'intuizione dell'oggetto è pensata, e questo è un dato di fatto su cui in genere
i filosofi sono concordi. Per ciò che concerne il versante dell'intuizione possiamo dire che perché un
oggetto possa essere dato in una rappresentazione ci sono due casi possibili: o il primo permette la
seconda, per una procedura di tipo empirico oppure la rappresentazione stessa permette l'oggetto
cogliendone non la sua esistenza, ma la sua rappresentazione in quanto fenomeno. Questo secondo caso
è oggetto della deduzione trascendentale perché si tratta di dimostrare che la possibilità della
rappresentazione dell'oggetto è a priori rispetto alla percezione dell'oggetto stesso. Perché gli oggetti
possano essere dati empiricamente è necessaria dunque una condizione formale della sensibilità che
permetta di percepire oggetti, restringendoli alla condizione del fenomenico.
Sul versante del concetto, similmente, la deduzione trascendentale dovrà scoprire se esistono
concetti di oggetti in generale per i quali qualcosa di non intuito possa essere pensato come oggetto.
Deve cioè scoprire se esistano condizioni formali del pensiero alle quali gli oggetti devono essere
sottoposti. Se così fosse tutti gli oggetti dell'esperienza dovrebbero conformarsi a suddette condizioni
generali che assurgono allo statuto di condizioni a priori dell'esperienza stessa; questi concetti degli
oggetti in generale non sono altro che le categorie. Il principio della deduzione trascendentale è quindi
che i concetti in generale degli oggetti (una volta dimostrata la loro esistenza) devono essere
riconosciuti come possibilità a priori dell'esperienza.
2.4. L'unificazione o sintesi.
Il primo passo della dimostrazione dell'esistenza di concetti a priori è quello che Kant chiama sintesi,
cioè unificazione delle rappresentazioni date dai sensi di un molteplice empirico. L'operazione della
sintesi non può che derivare a priori dall'intelletto, in quanto niente in natura è già di per sé unificato e
quello che si può percepire come unificato in un oggetto, può essere solo prodotto dalla sintesi
dell'intelletto. In altre parole l'intelletto non si limita a riflettere le impressioni ricevute dalla
molteplicità, lasciandole confuse come su uno schermo, ma le ordina e le organizza in unità discrete per
renderle intelligibili. Abbiamo dunque trovato il concetto di unità, che non è una categoria e che anzi
domina tutte le categorie in quanto esse sono funzioni intellettuali di unificazione. Il fondamento di tale
concetto di unità Kant lo trova nell' "Io penso" o appercezione trascendentale, atto spontaneo
dell'intelletto che fonda la possibilità di pensare unificando. L'"Io penso" è coscienza della sintesi ed è
quell'operazione che permette di essere consapevoli della diversità di una serie di rappresentazioni,
benché esse possano essere raccolte sotto uno stesso concetto. Si tratta cioè della coscienza della
molteplicità del diverso e nondimeno della sua possibilità di essere unificato in un concetto o in una
conoscenza.
Il principio dell'appercezione sta alla base di ogni uso possibile dell'intelletto, come le
condizioni formali della sensibilità stavano alla base della possibilità delle intuizioni sensibili. E tale
principio fonda l'oggettività delle conoscenze. Le stesse forme pure dello spazio e del tempo, di per sé,
non sono ancora conoscenza e devono essere sottoposte all'unità sintetica per rendere possibili gli
oggetti. Perché esse stesse presentano un molteplice non unificato sul quale la sintesi opera
l'unificazione.
Considerate queste premesse, Kant ridefinisce il giudizio che nella logica tradizionale veniva
inteso come un rapporto tra due concetti. Si tratta piuttosto, sostiene Kant, della maniera per ridurre
conoscenze date all'unità oggettiva dell'appercezione. Cosicché ogni volta che si formula un giudizio
del tipo: "I corpi sono pesanti" non si tratta semplicemente di associare il concetto di corpo a quello di
peso, ma di asserire la relazione di necessità oggettiva che lega i due concetti, e questo avviene secondo
un'unificazione a priori che dipende dalla sintesi trascendentale dell'appercezione, la quale difatti è
principio di tutti gli altri principi di unificazione.
Una volta dimostrata l'esistenza della sintesi, come prima operazione necessariamente a priori
che domina le varie funzioni del sintetizzare, cioè le categorie, Kant passa alla restrinzione di queste
ultime entità al solo campo della sensibilità: conoscere non significa pensare. La conoscenza è
costituita da due momenti, l'intuizione che fornisce i dati ed i concetti puri degli oggetti che permettono
di sintetizzare tali dati, per trasformarli in conoscenze. Tali funzioni dell'intelletto, al di fuori
dell'esperienza, sono dei concetti vuoti, delle funzioni intellettuali; ma per avere significato si devono
applicare alle intuizioni sensibili; la conoscenza stessa viene così ristretta alla sola sensibilità o meglio
al solo ambito del fenomenico definito dalle intuizioni pure di spazio e di tempo. Una intuizione non
sensibile non può essere in alcun modo fonte di conoscenza perché cade al di fuori delle condizioni
oggettive dell'esperienza possibile.
2.5. L'immaginazione e la sintesi figurata.
Alla base dell'intuizione sensibile c'è una certa forma che poggia sul fatto che il sensibile viene
rappresentato nell'intuizione. L'intelletto, dal canto suo, una volta che gli vengono presentate le
molteplici rappresentazioni, le unifica spontaneamente con l'operazione della sintesi determinando a
priori la forma dell'intuizione pura o senso interno. Questa sintesi fatta dall'intelletto nell'intuizione
sensibile, viene detta da Kant Sintesi Figurata, distinta dalla sintesi intellettuale, che sarebbe non
l'unificazione del sensibile, ma la facoltà in generale che l'intelletto ha di unificare a prescindere dal
sensibile; ambedue dette sintesi sono trascendentali, perché a priori e fondanti la possibilità della
conoscenza. Ma la sintesi figurata svolge un ruolo particolarmente importante in rapporto
all'immaginazione. "L'immaginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua
presenza nell'intuizione"(3). E si tratta di una facoltà che farà parlare molto la critica kantiana, in
quanto Kant la ritiene parte della sensibilità, ma al contempo considera la sua sintesi, che é per
l'appunto la sintesi figurata, pura e trascendentale; essa è la possibilità dell'intelletto di determinare a
priori la sensibilità. E viene detta anche immaginazione produttiva per distinguerla dalla riproduttiva,
che è qualcosa di simile alla memoria, dipendente dalle associazioni e quindi dalla psicologia piuttosto
che dalla logica trascendentale. Di questa sintesi trascendentale dell'immaginazione il soggetto
pensante è cosciente anche a prescindere dalla sensibilità in virtù dell'appercezione trascendentale, cioè
della coscienza di poter unificare il molteplice; ed è quindi questa sintesi che modifica il senso interno
determinandolo; difatti il molteplice offerto dall'intuizione sensibile non è unificato; l'unificazione
viene prodotta dall'intelletto, modificando il tempo.
Un'utile chiarificazione riguardo al ruolo dell'immaginazione sembra trovarsi in una nota del
paragrafo 26 dell'Estetica in merito all'unità sintetica dell'appercezione. Sembrerebbe che Kant dia alla
sintesi intellettuale il nome di unità sintetica dell'appercezione; e alla sintesi che viene operata su dati
sensibile il nome dei immaginazione. Riportiamo la nota: "In questo modo si dimostra, che la sintesi
dell'apprensione, che è empirica, deve essere necessariamente conforme alla sintesi dell'appercezione,
che è intellettuale e contenuta nella categoria affatto a priori. E' una stessa ed unica spontaneità, che lì
sotto il nome di immaginazione, qui di intelletto, porta l'unificazione del molteplice dell'intuizione". (4)
Questa facoltà dell'immaginazione occupa inoltre un posto molto importante nello schematismo,
come vedremo. Non è facile segnalare i limiti tra immaginazione ed intelletto e tra immaginazione e
sensibilità, e proprio da tale difficoltà sono sorte molte diverse interpretazioni, che tendono a vedere
nell'immaginazione ora la facoltà originaria tra intelletto e sensi, ora una funzione dell'intelletto. Tali
difficoltà sono dovute al fatto che l'immaginazione subisce un cambiamento nel passaggio dalla prima
alla seconda edizione; discuteremo ampiamente di ciò nel capitolo dedicato alla critica.
Kant coglie a questo punto l'occasione per evidenziare la differenza tra l'"Io penso" cartesiano,
che vorrebbe essere prova ontologica dell'esistenza dell'Io, e l'appercezione trascendentale, che
diversamente nega di poter apportare qualsiasi forma di conoscenza riguardo alla sostanza dell'Io, in
quanto non fenomenica, e sostiene che l'unica deduzione che si può trarre dall' "Io penso" è di tipo
fenomenico, cioè che il senso interno viene modificato.
Bisogna ora spiegare la possibilità di conoscere a priori, per mezzo delle categorie, gli oggetti
che possiamo percepire solo attraverso i sensi; si tratta di una conoscenza degli oggetti non secondo la
forma delle loro intuizioni, ma secondo le leggi di unificazione degli oggetti. Come si è detto il
molteplice empirico nelle intuizioni non è unificato e viene sintetizzato dall'intelletto. La sintesi delle
rappresentazioni nell'intuizione viene chiamata da Kant apprensione; anche questa apprensione deve
essere a priori e derivare quindi da una capacità dell'intelletto di unificare in generale anche
nell'intuizione sensibile. Ogni oggetto deve quindi sottostare a questa unità. L'intelletto per sintetizzare
dispone di diverse modalità che sono appunto le categorie; perciò ogni sintesi sottostà alle categorie e
tutti gli oggetti dell'esperienza sottostanno alle categorie.
Questo spiega perché si verificano accordi tra leggi intellettuali, come quelle matematiche, e
empiriche, come quelle fisiche; non si tratta in realtà di un accordo o di una coincidenza, ma
semplicemente del fatto che la percezione della natura sottostà alle leggi dell'intelletto stesso. E'
l'intelletto che percepisce i fenomeni in quel modo e li ordina secondo leggi e non gli oggetti
dell'esperienza che hanno delle leggi intrinseche. In altre parole le connessioni che si riscontrano tra i
fenomeni naturali, non sono altro che le modalità secondo cui l'intelletto li percepisce e li organizza,
trasformandoli da oggetti in fenomeni e quindi in conoscenze.
2.6. Conclusione.
Per necessità di chiarezza ripercorriamo dunque le tappe della deduzione traendone alcune
conseguenze:
1) La domanda di partenza è se esistano condizioni formali a priori della pensabilità degli oggetti, come
esistono condizioni formali a priori della sensibilità. Se esistono cioè concetti degli oggetti in generale.
2) Il primo passo dell'argomentazione è l'affermazione dell'esistenza di un concetto puro di unità; di
una sintesi del molteplice empirico che non può essere altro che intellettuale e a priori, perché il
molteplice empirico, in quanto tale, non si presenta alle intuizioni come unificato, ma come diverso.
3) Alla base di questo concetto dell'unificazione c'è il giudizio intuitivo "Io penso", o appercezione
trascendentale, che è la coscienza spontanea della capacità dell'intelletto di sintetizzare, riducendo le
rappresentazioni del diverso all'unità.
4) Ridefinizione del giudizio, per cui l'atto di giudicare non è altro che l'atto di sintetizzare, riducendo
dati soggettivi ad un'unità oggettivamente valida.
5) Illustrazione della facoltà sensibile dell'immaginazione, facoltà di rappresentare un oggetto anche
senza la sua presenza nell'intuizione; attraverso la sintesi trascendentale dell'immaginazione, anche
detta sintesi figurata, avviene la suddetta unificazione del molteplice empirico. Ed essa si configura
come possibilità che l'intelletto ha di determinare la sensibilità a priori; di unificare cioè in generale,
ancor prima di avere materia sensibile da unificare presentata nelle intuizioni.
6) La sintesi si svolge secondo diverse modalità di unificazione intellettuale che sono le categorie.
7) Le categorie hanno senso e significato solo se applicate alle intuizioni empiriche ed in loro uso è
quindi ristretto alla sensibilità; al di fuori di essa sono forme di pensiero vuote.
8) Dato che le categorie sono le varie modalità di unificazione del diverso, e dato che permettono
attraverso tale unificazione la conoscenza degli oggetti dell'esperienza, tutta l'esperienza sottostà alle
categorie che sono condizioni formali della conoscenza intellettuale.
9) La conclusione della deduzione è che per conoscere un oggetto questo deve essere dato
nell'intuizione ed organizzato dal concetto. Le intuizioni possono essere solo sensibili e quindi la nostra
conoscenza è ristretta al sensibile. "Quindi non è possibile nessuna conoscenza a priori se non
unicamente di oggetti di esperienza possibile." (5).
Si sono finora delineati tre momenti della conoscenza e sono: l'intuizione sensibile, ad opera dei
sensi; la sintesi intellettuale, ad opera dell'immaginazione; l'unità della sintesi che ne garantisce la
riproducibilità, effettuata dall'appercezione.
Si conclude qui il capitolo della deduzione trascendentale e si passa alla parte intitolata
Analitica dei principi, della quale daremo una breve definizione ai fini di contestualizzare migliormente
l'analisi del testo relativo allo schematismo trascendentale, che compare nel primo capitolo di questa
seconda parte.
La logica generale si occupa solo del funzionamento formale del pensiero e può quindi studiare
oltre all'intelletto e al giudizio anche la ragione, che procede secondo regole formali. La logica
trascendentale, invece, si occupa solo delle conoscenze pure a priori in rapporto ai loro contenuti, cioè
alla sensibilità, e quindi esclude la ragione che non ha uso esclusivamente oggettivo. L'Analitica dei
principi sarà dunque quella dottrina che studia l'intelletto ed il giudizio in quanto dotati di forme pure a
priori, mentre la ragione sarà trattata in un capitolo parte, quello della dialettica. Ai fini di questo studio
verrà considerata solo l'Analitica dei principi, poiché riguarda il giudizio trascendentale, cioè
l'applicazione ai fenomeni dei principi dell'intelletto puro. Lo scopo del giudizio sarà quello di stabilire
se un fenomeno stia o meno sotto una regola intellettuale. E il capitolo sullo schematismo
trascendentale riguarderà le condizioni sensibili nell'ambito delle quali possono essere adoperati i
concetti puri dell'intelletto, cioè la loro possibilità stessa di essere applicati all'esperienza.