3
contaminazione di idee, in modo che esse non appartengano più specificamente a
nessuno dei due, e non possano sussistere che nella distanza che li separa.
Un filosofo, una filosofia, per Deleuze, non si distingue tanto per delle singole
teorie, ma per una sorta di marchio, di firma che ne contraddistingue i concetti.
Tuttavia la filosofia, molto più che il soggetto, riguarda il pensiero e la vita. Essa
esprimerà dunque, in primo luogo, il modo in cui di volta in volta quelle due istanze si
integrano, e poi, eventualmente, producono un processo di soggettivazione. La
filosofia, dunque, traccia delle possibilità di vita, ma ciò che le contraddistingue, è il
modo in cui tali possibilità sono fatte emergere, il gesto con cui sono tracciate, con
cui, in un certo modo, il filosofo fa i suoi ritratti.
Il gesto è un movimento del pensiero, e in quanto tale lo si può associare a quel terzo
decisivo elemento, che Deleuze individua in ogni filosofia, il personaggio concettuale.
«I personaggi concettuali sono gli eteronomi del filosofo, e il nome del filosofo, il
semplice pseudonimo dei suoi personaggi. Non sono io, ma un’attitudine del pensiero
a vedersi e svilupparsi su un piano che mi attraversa in più posti…i personaggi
concettuali sono dei pensatori, solo dei pensatori, e i loro tratti personali sono
strettamente legati ai tratti diagrammatici del pensiero e ai tratti intensivi dei concetti.
Per esempio, se se si dice che un personaggio concettuale balbetta, non è più un tipo
che balbetta in una lingua, ma un pensatore che fa balbettare tutto il linguaggio, e che
fa della balbuzie il tratto del pensiero stesso in quanto linguaggio: l’interessante è
allora chiedersi”qual è il pensiero che non può che balbettare?”»
6
. Il personaggio
concettuale vive, esprime uno stile di vita, un modo di essere e di pensiero. Esso è
implicato in tutti ritratti del filosofo, è il gesto con cui dà loro vita. Per questo motivo
con la filosofia ci si distacca dal piano della storia e dell’interpretazione. Filosofare è
creare, divenire, saltare in un altro piano. Sul piano dell’evento
7
.
Con l’evento Deleuze non intende l’attualità. Un evento non si confonde ad uno
stato di cose, più o meno vicino. Non appartiene alla storia, o alla cronaca. Queste
raccontano ciò che è avvenuto, o fanno programmi intorno a ciò che potrebbe
avvenire. L’evento invece accade, non può essere descritto, è novità che eccede
sempre la descrizione. Ciò che sembra essergli proprio è infatti la produzione di uno
scollo in seno al reale, e al presente che lo misura, una sorta di irriducibilità a ciò che è
già. Esso è novità, un far emergere e dare voce a qualcosa che non è una persona, che
non si individua per la forma o sostanza. Queste sono nell’evento, e da lui traggono il
proprio senso, ma non sono l’evento. L’evento è in una certa maniera dentro lo stato
di cose, ma come ciò che lo determina e lo indirizza. È una prospettiva su di esso che
lo affranca dal presente storico.
Per questo motivo, intrinseco al filosofare deleuziano, è l’idea che, risalire
all’evento, non sia una pura questione teorica od ermeneutica, ma qualcosa che si
un mondo il riferiemnto è all’introduzione di G.DELEUZE e F.GUATTARI ,Qu’est-ce que la philosophie, Ed. de minuit
Paris 1991.
6
G.DELEUZE e F.GUATTARI ,Qu’est-ce que la philosophie, Ed. de minuit Paris 1991, pp. 62 e 67
7
Deleuze definisce la filosofia come creazione di concetti. Qu’est-ce que la philosophie mira a garantire tale statuto alla
filosofia, in modo che essa non debba confondersi con una qualche forma di riflessione, comunicazione, o contemplazione.
4
sperimenta, a costo di grandi pericoli. Virginia Woolf, diceva in proposito che vivere,
anche un solo attimo, è qualcosa di estremamente pericoloso.
Filosofare significa liberare degli eventi, far emergere picchi di novità, tracciare
nuove strade. Poiché, a differenza della storia della filosofia, la filosofia implica
qualcosa che non sta nel libro, ma nell’evento. In un gesto che non si traduce
pienamente in alcun sistema teorico. Da ciò deriverebbe l’imbarazzo ogni volta che si
tenta di definirla in modo chiaro.
L’opera di Deleuze non fa eccezione, ed appare, forse più di altre, difficilmente
rappresentabile come un corpus teorico unico. Sarebbe arduo spiegare, come recitava
il titolo di alcuni saggi sui filosofi, “ ciò che ha veramente detto Deleuze”.
Ma appunto la sua frammentazione, ed il suo sperimentare varie attività, implica, più
che l’assenza di un progetto, un protocollo di esperienze filosofiche, di casi di
pensiero. Proprio perché il pensiero non è passibile di descrizioni, ma è, in un certo
senso, sempre da un’altra parte, come ciò che manca, che non esiste ancora. Più che
una facoltà che aspetta di essere usata nel modo corretto, il pensiero è qualcosa di cui
è necessario provocare la nascita. Pertanto le nozioni che Deleuze fa proliferare, così
come tutte le discipline in cui si cimenta, hanno lo scopo di costituire delle singole
battaglie, in cui il pensiero è messo nella condizioni di nascere dalle proprie
cristallizzazioni.
La grande importanza che acquisisce il concetto di guerra in relazione alla filosofia,
dipende dunque da questa situazione di mancanza di pensiero, che la trasforma in una
perpetua guerrilla.
Connessa a questa difficoltà di parlare su Deleuze, è anche quella, una volta ci si
decida a farlo, di prescindere dal suo linguaggio, di usare altri concetti, altre dualità,
per descrivere ciò che egli addita.
S’impone dunque la necessità di seguire un filo rosso, un ritornello che ne ritmi
l’opera, attraverso le diverse situazioni, le sue singole contese, per tentare di vedere
dove sarebbe possibile andare sulla scorta di Deleuze. Saltando tra le sue varie
nozioni, cercare di trovarvi un percorso.
A tal fine, si può osservare come, in un certo modo, la sua opera sia attraversata da
una certa tensione alle metamorfosi, ad una forza metamorfica della vita. Tensione
che, unita alla questione del gesto, potrebbe giustificare il titolo di questa ricerca.
Poiché si potrebbe considerare il suo gesto filosofico, come un tentativo di dar voce
alle metamorfosi. Di farle irrompere nel panorama filosofico, dopo il lungo dominio in
cui è stata la forma ad essere cardine di ogni cosa. Tentare di farne il vero soggetto e
la forza plastica del pensiero, che di volta in volta si esprime come gesto, soffio o
ritmo.
È tuttavia necessario rintracciarne gli elementi, il primo dei quali, potrebbe essere
considerata la nozione di caosmo.
Il Caosmo potrebbe essere infatti la formula, o il ritornello della filosofia di Deleuze.
Un modo per afferrare il tono della sua produzione, dagli studi storiografici, con i
5
lavori su Hume, Nietzsche, Spinoza, Bergson, a quelli più spiccatamente teoretici,
sino all’incontro con Guattari e alle opere eterogenee sul cinema, la pittura o la
letteratura.
Per coglierne il movimento più profondo è infatti importante andare oltre una
semplice suddivisione in fasi del suo pensiero, per evitare di rinchiuderlo in
un’immagine, dove quanto vi è di più caratteristico e selvaggio nel suo filosofare
andrebbe perso.
Deleuze vedeva nel pensiero un gioco pericoloso, un’esperienza del limite a cui si è
costretti dall’impotenza stessa del pensare. Ciò significa per lui, cercare di rompere le
immagini in cui si fissano le convinzioni, le idee e i pensieri, andare oltre la loro
apparenza conciliante, per mettere in evidenza ciò che passa tra una e l’altra. Non
ricercare la struttura nascosta o l’essenza, ma rendere percepibili i movimenti
profondi, di cui le forme non sono che l’effetto, e le temporalizzazioni, di cui quei
movimenti sono i sintomi. Come Devi rivolta a Shiva Deleuze si chiede:«Che cos’è
questa vita al di là della forma che pervade le forme?».
8
La nozione di caosmo, che Deleuze usa soprattutto per tematizzare le opere di
Borges e Joyce, potrebbe servire ad esprimere quell’insieme di problemi. Fondendo i
due termini, Deleuze vuole mostrare come il cosmo inteso come ordine, o modello di
ordine, sia, nei suoi punti costitutivi, effetto di differenze, cioè di linee da cui quei
punti sono prelevati .
Caos e cosmo non designano due fasi distinte, non stanno in un’opposizione in cui
uno rappresenterebbe la negazione dell’altro. Sono invece coesistenti, parte di un
unico processo. Il cosmo come variabile interna, prospettiva del caos nel caos.
Caosmo allora denota un processo creativo di composizione del caos e corrisponde, in
ultima istanza ad un mondo possibile. Un mondo che ha come carattere di essere al
tempo stesso compiuto e illimitato, cioè mai completamente esaurito dai suoi
elementi, i quali ,al contrario, si implicano reciprocamente assicurandone il divenire.
E’ un mondo di relazioni, dove nulla è semplice…:«Non c’è nulla sulla terra una sola
parola , una sola pagina che lo sia, poiché tutte postulano l’universo, il cui attributo
più noto è la complessità.»
9
. Le forme stabili sono l’effetto di forze e sommovimenti
più profondi che minacciano sempre di trascinarle via.
In un certo senso il cosmo funge da ratio cognoscendi del caos, il quale sta come
ratio essendi del cosmo. E’ a questo proposito forse che Deleuze scriveva come per
pensare Dioniso, fossero probabilmente necessari i concetti di Apollo. Cioè come
attraverso un paziente lavoro sui concetti della rappresentazione e dell’immagine,si
rendano percepibili i divenire e le forze di cui le forme sono il prodotto.
La Nomadologia, la scienza delle molteplicità o la Schizo-analisi, vari nomi con cui
Deleuze battezza la sua creatura filosofica, non hanno altro senso. Porsi la
dissoluzione delle forme, l’emergere in superficie delle metamorfosi come una
necessità, un limite intrinseco a cui il pensiero si deve confrontare per poter iniziare a
pensare, per generarsi in se stesso. Non perché non si sia mai pensato, ma perché ciò
8
Trovare il centro, in MUMON,La porta senza porta, seguito da 10 Tori di KAKUAN, e da Trovare il centro, a cura di
N.SENZAKI e P.REPS, traduzione di A.MOTTI, Adelphi 1998, p. 107.
9
BORGES, il manoscritto di Brodie, prologo.
6
che si è già pensato ha finito per ricoprire ciò che vi è ancora da pensare. Perché il
pensiero è stato separato da quanto gli è proprio, ovvero la creazione di nuove
possibilità di vita, di mondi altri, di ritagliare e comporre il caos.
Artaud parlava appunto di una genitalità del pensiero, contrapponendolo all’inneità.
Il che significa non considerarlo come qualcosa di già dato, il cui esercizio si riduca ad
un semplice riconoscimento, che si affretta a riportare l’anomalo, l’insolito o
l’eccezione a ciò che già conosciuto e compreso dall’inizio nell’orizzonte aperto della
rappresentazione. Occorre invece porlo di fronte a qualcosa di più decisivo, che ne
metta in questione la stessa pretesa ad esistere: «C’è nel mondo qualcosa che costringe
a pensare. Questo qualcosa è l’oggetto di un incontro»
10
L ‘attenzione viene così spostata dalle categorie del pensiero alla crisi, lo
sprofondamento centrale da cui inizia il pensiero. Da qui, lo sforzo di andare oltre i
concetti della rappresentazione, ed individuare nozioni in grado di rendere conto dei
fenomeni in termini di processo o potenza.
Evidentemente, una tale prospettiva non nasce dal nulla, ma si inserisce in un filone
filosofico di cui, secondo Deleuze, gli ispiratori principali sono Spinoza e Nietzsche,
più il caso particolare di Artaud. Il confronto con loro proseguirà lungo tutta la sua
opera, tanto che si sarebbe tentati di definirla come una rete tesa tra quei pensatori
11
.
Conseguentemente gli avversari prediletti saranno Descartes, Hegel, la dialettica, la
trascendenza. Tutti temi derivati da una lettura che vede Nietzsche e Spinoza confluire
verso una meta comune, che è la distruzione della metafisica, a favore della possibilità
di giungere ad un pensiero non-rappresentativo.
La motivazione principale si concentra nella tesi, secondo cui il bisogno di ordine, di
chiarezza e organizzazione, a cui risponde la rappresentazione, non abbia le sue radici
in una volontà di verità, ma piuttosto in una concezione morale, la quale, a sua volta,
poggia su una determinata combinazione di istinti che corrisponde ad una tipologia di
uomo ben precisa, l’uomo-reattivo.
Ecco allora che la metafisica, di cui i concetti di Io, Essere, Dio sono le coordinate
principali, diventa espressione di una volontà di nulla che vuole limitare, razionare,
sezionare la vita per la paura di farsi sommergere dalla sua dirompenza. E per
proteggersi dalla vita non rimane che la fuga nella trascendenza, laddove essa diventa
analizzabile e passabile di un giudizio di condanna che investe tanto il molteplice, che
il corpo e la differenza.
Si tratta, più che di una volontà di verità, di una volontà di rendere la stessa
sopportabile, secondo i criteri morali e la psicologia dell’uomo-reattivo.
Per questo motivo tutto ciò che l’uomo pensa e può pensare è viziato all’origine da
quel giudizio, che si espande penetrando nella natura, nell’uomo, nella cultura e
disseminandovi ad ogni livello dualismi e opposizioni, che sono altrettanti vicoli
ciechi per la potenza che li abita.
10
G.DELEUZE,Differenza e Ripetizione traduzione di G.Guglielmi, Raffaele Cortina Editore, Milano 1997, p. 180.
11
In un certo modo si può parlare di un Deleuze- Foucault, Guattari, Spinoza, Nietzsche, come di tanti divenire. Vale a dire
dei casi per il pensiero. Per Deleuze leggere un autore, e scrivere su di lui, significa trovare un alleato, e condurre, con le
armi che questo gli mette a disposizione, la propria battaglia.
7
Corpo e anima, soggetto e oggetto, cosmo e caos, natura e cultura, non designano
l’esito possibile di un’interrogare, esprimono invece il modus operandi proprio ad una
filosofia della trascendenza. Cioè di una filosofia che astraendosi dal vissuto, dal
divenire della vita, si permette di organizzarla e giudicarla dall’esterno.
Al contrario, Nietzsche e Spinoza si ergono a dioscuri di un pensiero
dell’immanenza, e per Deleuze, è sulla strada da essi tracciati che si possono
«ricercare le condizioni dell’esperienza reale, la realtà vissuta di un campo infra-
rappresentativo»
12
. Anzi metterne in evidenza la consonanza di intenti, per certi versi
l’identità, costituisce uno dei motivi della filosofia di Deleuze.
Una prima questione verterà dunque sul modo di rendere attivo ciò che nell’uomo è
reattivo, ovvero produce un atteggiamento di negazione della vita e di rinuncia.
Ma questa è subito incalzata da un’altra domanda, più inquietante, che riguarda la
possibilità di una simile démarche e porta alla luce il pericolo annidato in una tale
ambizione. Nulla assicura infatti che un divenire-attivo delle forze che costituiscono e
passano attraverso l’uomo, alla fine ne conservi integra la natura, o non ne comporti
invece la dispersione dei tratti caratteristici.
In sostanza, bisogna chiedersi se le forze reattive caratterizzano solo una tipologia
umana, o l’umanità nel complesso.
Nel “Nietzsche e la filosofia”, dove questi argomenti sono trattati più a fondo,
Deleuze scrive: «C’è dunque un’attività umana, ci sono, nell’uomo, forze attive; ma
esse nella loro particolarità servono solo ad alimentare un divenire-universale delle
forze, un divenire-reattivo di tutte le forze che determina l’uomo e il mondo.», nello
stesso senso in cui “il nichilismo è il concetto a priori della storia universale.”
Questo punto non è accidentale, designa invece il paradosso proprio al pensiero
moderno, apparentemente caratterizzato dall’impossibilità per l’uomo di posare lo
sguardo sulla fonte del proprio enigma, senza dissolversi e rendersi irriconoscibile.
Foucault lo analizza ne “le parole e le cose”, rilevando come nell’immagine classica
del pensiero, il linguaggio sorga all’intersezione tra l’essere e la rappresentazione, e
agisca come una trasparenza, attraverso la quale gli esseri si manifestano e le
rappresentazioni si ordinano.
13
L’uomo è dunque il perno della rappresentazione e la
causa prima di ogni conoscenza. Il suo volto permea il mondo e ogni discorso che si
possa tenere, garantendo alla volta unità e coerenza al loro rapporto. E’ una sorta di
regista invisibile, di cui si riconosce la mano in ogni fenomeno. Ciononostante non è
tematizzabile in quanto tale . Si ritrova ovunque, ma solamente in maniera indiretta,
come assenza o posto vuoto.
E’ solo nella modernità che il pensiero, modificando la propria curvatura, trova i
mezzi per rivolgersi a lui direttamente, mediante l’indagine delle sue condizioni di
possibilità. Questo “mutamento archeologico”, che corrisponde alla scoperta della
dimensione trascendentale del pensiero, ha come primo effetto di introdurre una
cesura nel tessuto che teneva assieme l’essere e la rappresentazione.
12
G.Deleuze, Differenza e Ripetizione , p. 94
13
Cfr. M. FOUCAULT, Le parole e le cose, con un saggio critico di G.CANGUILHEM e la traduzione di
E.PANAITESCU,seconda parte, cap.IX,”Il cogito e l’impensato”, Bur 1998
8
Ma è proprio questa apertura a permettere una riflessione sull’uomo. Ed è l’evento
costituito dall’apparizione dell’uomo a tracciare la soglia della modernità, «prima non
era possibile la strana statura di un essere la cui natura sarebbe di conoscere la natura,
e se stesso quindi in quanto essere naturale»
14
.Tuttavia nel momento in cui vengono
poste le basi di un nuovo modo di interrogare, il pensiero si trova subito incalzato
dalla aberrante domanda che consiste a ««chiedersi se veramente l’uomo esiste».
15
Come se per lungo tempo, l’uomo, nel mondo, non avesse contemplato che le
diverse sfaccettature di se stesso, e nel momento di porre finalmente lo sguardo sul
suo volto, lo specchio gli avesse rimbaudianamente rivelato che “Je est un autre”. A
quel punto, come nota Heiddegger, lo sgomento ha sostituito la meraviglia, mentre i
come e i perché hanno abbandonato l’innocenza e assunto una tonalità di profondo
smarrimento.
Il caos, il nulla, il disordine non appartengono più ad un fondo oscuro, dal quale la
conoscenza avrebbe estrapolato le forme, ma sono penetrati nel cuore stesso delle
cose, così come il silenzio si è insidiato in quello delle parole.
Per parte sua Nietzsche, aveva espresso la situazione annunciando la morte di Dio.
Quel che Foucault chiama la morte dell’uomo ne è il compimento, la presa di
coscienza che indica l’erosione definitiva delle illusioni attraverso le quali l’uomo,
come essere razionale e parlante, si era innalzato sul mondo quale giudice e
legislatore.
La critica di Nietzsche riconduce tanto la conoscenza, quanto il soggetto conoscente
e l’oggetto conosciuto a chimere alimentate dall’”ineliminabile bisogno di
conservazione dell’uomo.”
Dio, Io, Essere sono i rifugi metafisici dietro cui l’uomo va a nascondere il suo
nichilismo e volontà di
negare la vita.
Il suo grande disgusto consiste appunto nel riconoscere la reattività, la”cattiva
coscienza” e il risentimento come essenza propria dell’uomo. Ma contrariamente ai
pessimisti non si ferma a questa constatazione. La sua filosofia non si conclude con un
NO anteposto alla metafisica, alla ragione e alla sue conseguenze. Significherebbe,
infatti, continuare a considerare le cose dalla fantomatica prospettiva di un mondo
appena crollato.
La trasvalutazione dei valori, il superuomo, sono tentativi di aprirsi a nuovi modi di
valutare, di pensare e vivere. Ma perché questo sia possibile è appunto necessario che
l’uomo muoia, e che questa morte sia desiderata, non nel senso di un suicidio, ma di
un lasciare spazio ad altro.« Con l’uomo che vuole perire, che vuole essere superato,
la negazione ha infranto tutto ciò che ancora lo imprigionava, ha sconfitto se stesso
diventando la potenza di affermare che contraddistingue il superuomo, potenza che
annuncia e prepara il superuomo»
16
Nell’aprirsi a quanto era stato negato dal vecchio modello, nell’accogliere il nulla, il
disordine delle apparenze e il negativo tutto, sta la possibilità di affermare, e
14
M.Foucault, Le parole e le cose, p.335
15
ibid.
16
G.DELEUZE, Nietzsche e la filosofia,Campi del Sapere/Feltrinelli
9
affermando di attivare quelle forze, che solo in quanto mutilate, abitano e
costituiscono l’uomo.
E’ comunque importante notare come per Deleuze la questione fosse già stata posta
da Spinoza. E così la diagnosi nietzscheana è accompagnata da elementi direttamente
derivati dalla sua lettura del filosofo olandese. «Et tout tendait vers la grande unité
Nietzsche-Spinoza»
17
Il problema della reattività s’inquadra progressivamente in quel che “Mille plateaux”
chiama Stratificazione, e a cui sono legati nozioni come il Corpo senza Organi, la
deterritorializzazione, la fuga, che rappresentano snodi fondamentali del suo pensiero.
La stratificazione, come la reattività, ha la propria peculiarità nel separare la forza da
ciò che è in suo potere. Di sfruttare e spezzettarne una parte per neutralizzarne
un’altra. E’ un fenomeno di solidificazione dei flussi e di organizzazione che consiste
a «formare materia, a imprigionare delle intensità o a fissare delle singolarità in
sistemi di risonanza e ridondanza, a costituire molecole più o meno grandi sul corpo
della terra, e a far entrare queste molecole in insiemi molari».
18
Ogni strato opera e si
produce per codaggio e territorializzazioni, sono delle«catture, …buchi neri o
occlusioni che si sforzano di ritenere tutto ciò che passa alla loro portata»
19
Vi saranno dunque strati di diverso genere, energetici, fisico-chimico, geologici. Ma
in particolare l’attenzione verterà su quelli implicati nella costituzione dello strato
umano, e cioè quella organico, di significanza e di soggettivazione.
Nel complesso la stratificazione generale è il sistema del giudizio di Dio.
20
Il
giudizio che asservisce la vita alle necessità trascendenti dell’uomo reattivo, e la rende
colpevole. Destratificare equivale allora a “finirla con il giudizio” e ripristinare
l’innocenza del divenire, che è affermazione della verità del molteplice.
21
E’ nel testo di “mille plateaux” ”la geologia della morale” che Deleuze descrive
questo processo. Uno strato corrisponde in ultima istanza ad un’articolazione, secondo
un contenuto ed un’espressione, di sostanze formate e ambienti codificati.
La peculiarità di ognuno riguarda precisamente il modo in cui il contenuto e
l’espressione si rapportano e si distribuiscono, e varierà a secondo che ci si trovi sullo
strato fisico-chimico, organico o alloplastico, antropomorfo. Per esempio, mentre nel
primo la distinzione corrisponde a quella tra molecolare e molare, negli altri una
maggiore complessità arricchisce di elementi molecolari le espressioni, e di molari i
contenuti.
In ogni caso tra contenuto e espressione non vi è mai«corrispondenza, né
conformità, ma isomorfismo con presupposizione reciproca». La distinzione che
intercorre tra loro è reale, ma non numerica. Conseguentemente ognuno implica per
suo conto molteplicità differenti, che però si riferiscono ad un unico “soggetto”, o
“sostanza”. Ovvero la macchina astratta avviluppata in quello strato, la cui unità di
17
G.DELEUZE, Pourparlers,
18
G.DELEUZE e F.GUATTARI, Mille Plateaux, La géologie de la morale,p.54.
19
Ibid.
20
Ibid.
21
Cfr, G.DELEUZE,Nietzsche e la filosofia
10
composizione è assicurata dalla comunanza dei tratti formali che mettono in relazione
gli elementi sostanziali, interni allo strato, con materiale molecolare appartenente
all’ambiente esterno dello strato, corrispondente al sostrato. Tra sostrato ed elementi
sostanziali della strato non vi è evoluzione, ma cambiamento di organizzazione, indice
di una accresciuta complessità.
Materiale molecolare, tratti formali ed elementi sostanziali corrispondono al
nocciolo dello strato, chiamato Ecumene. In esso non vi è però nulla di definitivo,
dato che gli strati sono continuamente soggetti a movimenti, derive interne e
variazioni, che determinano tipi di organizzazione formali e modi di sviluppo
sostanziali differenti. Fattori che finiscono per dividere lo strato in parastrati ed
epistrati, i quali si possono a loro volta considerare come strati autonomi.
I primi si riferiscono ai processi di codificazione e decodificazione da cui dipendono
le forme, che si determinano in termini di popolazioni, mute, collettività .Gli epistrati
invece riguardano i movimenti dal centro alla periferia dello strato, ovvero la
deterritorializzazione delle materie formate, che dovranno quindi intendersi in termini
di tassi di velocità e gradi di perfezione per una stessa forma.
Si produce così un circolo dove l’ambiente richiede un tipo specifico di affetti, e
determina dei parametri a cui devono rispondere le popolazioni che vi si
distribuiscono, e che a loro volta influiscono su di lui. Ogni modificazione si propaga
e risuona su tutto lo strato, provocando cambiamento di codice e territorio. Anzi, lo
strato, più che in una qualche forma di stabilità, consiste in questa serie di movimenti
relativi, di adattamenti e modificazioni successive.
22
Non vi è una griglia predefinita per classificare le forme e i livelli di perfezione
corrispondente. Bisogna riferirsi alle molteplicità che quelle forme esprimono,
raggrupparle, esaminare le vicinanze in modo da coglierne i rapporti di forza, di
velocità, cioè criteri immanenti la forma stessa.
Non si acquista l’essere in base ad un rapporto con un modello esterno, ma lo si
produce continuamente dall’interno. L’essere è potenza, e questa in qualunque grado
di sviluppo si trovi, esprime una certa perfezione.
23
Lo strato non è che una particolare combinazione, articolazione di questa potenza.
Tra uno e l’altro vi sono vari livelli di sedimentazione, che ne assicurano la
comunicazione. Questi fenomeni interstratici, che riguardano sia gli adattamenti di
contenuto ed espressione che le varie divisioni interni ad uno strato, sia i rapporti tra
uno strato e un sostrato, tra due strati e i cambi di organizzazione corrispondenti,
dipendono dalla presenza di “agencements”. Sono essi infatti ad assicurare
che«l’unità di composizione avviluppata nello strato, i rapporti tra uno strato e
l’altro…sia organizzato»
24
.L’agencement effettua la macchine astratta, è la ragione
dell’articolazione secondo il contenuto e l’espressione delle particelle emesse dalla
macchina astratta.
22
Questo circolo è quel che Deleuze chiama un ritornello.
23
Scrive in proposito F.LESCE, un’ontologia materialista, Gilles Deleuze e il XXI secolo, con una prefazione di T.NEGRI,
Mimesis 2004,p. 18 «L’essere di Deleuze è possest. È potere come attività…concatenamento tra due parole latine posse ed
est. Il posse è un principio attivo e dinamico che inerisce alla cosa come il suo proprio essere» Scrive inoltre Deleuze«Il
possest sarà precisamente l’identità della potenza e dell’atto grazie al quale definisco qualche cosa»
24
G.DELEUZE, Mille Plateaux, la géologie de la morale.
11
Il sistema degli strati è anche un macchinismo, laddove l’attività contemporanea di
macchine astratte e agencements, descrive una Meccanosfera, un caosmo, come
sistema di creazione dal caos.
Ma gli agencements non funzionano unicamente negli strati. Una parte fondamentale
della loro attività è rivolta fuori di loro, e non appartiene più solo all’Ecumene, ma si
indirizza al cosiddetto Planomene. Questi, indica la modalità di sviluppo della
macchina astratta su un piano di consistenza, e si figura come processo di
destratificazione.
E’ lo stato in cui la deterritorializzazione cessa di essere negativa, o relativa, cioè
correlata ad una qualche riterritorializzazione, e diventa assoluta, ovvero prolunga le
proprie linee al di fuori dell’organizzazione stratica.
Vi è quindi una certa soglia, oltre la quale non ci si imbatte più in forme, sostanze,
soggetti, ma in «materie non formate, forze e funzioni destratificate», dove la
macchina astratta è la pura Funzione-Materia che s’iscrive su un piano di consistenza.
Deterritorializzazioni e decodaggi prefigurano allora, possibili vie di fuga dagli
strati. Sono i germi di una deterritorializzazione assoluta, di cui i fenomeni
interstratici sono un riflesso, un’espressione particolare.
Non si tratta di un’opposizione tra due poli, ma di due regimi, o modi di esistenza,
della macchina astratta, che può svilupparsi su un piano di consistenza, o corpo senza
organi, oppure invece avvilupparsi nell’organizzazione stratica, e articolarsi
conformemente agli agencements che la effettuano.«C’è sempre immanenza degli
strati e del piano di consistenza, o coesistenza di due stati della macchina astratta
come di due stati differenti di intensità »
25
.
La Meccanosfera è un caosmo , dove però il planomene non è affatto un caos
indifferenziato da opporre a una struttura ordinata. I fattori che lo definiscono sono
«continuum di intensità, emissione di particelle-segno, e congiunzioni di flussi
deterritorializzati». Costituisce piuttosto il virtuale che si attualizza negli strati, nel
senso in cui l’organismo è visto come attualizzazione di una vita anorganica
impercettibile, rallentata, catturata in modo da produrre gli organi.(natura naturans e
natura naturata)
La destratificazione si confonderà allora ad una potenzializzazione del possibile, alla
realizzazione ed elevazione alla potenza più alta delle forze imprigionate negli strati.
A tal fine è necessario che gli agencements si mettano a funzionare rivolti al corpo
senza organi anziché all’Ecumene , coniughino diversamente i flussi di desiderio che
li attraversano, in modo da volere la potenza, e il suo sviluppo su un piano di
consistenza, piuttosto che la loro conservazione in uno strato.
Fuggire dall’organizzazione stratica significa anche sottrarsi al sistema del giudizio,
al tribunale che spezzetta in lotti l’esistenza e gli affetti per ricondurli a valori
superiori.
26
Il corpo senza organi invece, indica l’orizzonte da cui ogni trascendenza è
stata espulsa. E’ un limite, un impensabile a cui si giunge per tentativi, tenendo conto
dei pericoli e delle illusioni della destratificazione.
25
Ibid.
26
Cfr. G.DELEUZE,Critique et Clinique, Pour en finir avec le jugement, ed. de minuit 1993
12
Stendere un piano di consistenza assume così un carattere sperimentale e creativo.
Non si finisce mai di uscire dal piano di organizzazione, c’è sempre il rischio di
capitare in una strato più solido e stretto di quello che si è appena lasciato. Di
riterritorializzarsi. “Mai fare il punto, ma seguire la linea”, è il motto della
Rizomatica.
Portare un po’ di vento e di roccia nel pensiero. Deleuze nei suoi scritti parla della
destratificazione come di un viaggio in intensità, oppure, in modo diverso, vi allude
come a una guerra. Ma non una guerra di aggressione contro un avversario, un Altro
che si vuole distruggere o respingere. E’ qualcosa che avviene all’interno, di cui
l’emergere di un soggetto o di un organismo è solo un esito temporaneo.
La guerra è il combattente stesso, il corpo senza organi, e quanto si dà battaglia,
sono le forze che passano attraverso di lui e lo compongono. Non si tratta di una
guerra-contro, ma di una guerra - per, tesa a fondere assieme il più grande numero di
forze per farle divenire.
Un importante capitolo di “Mille Plateaux”, la Nomadologia, indaga i diversi generi
di macchine astratte attraverso cui si sviluppa la guerra, e approfondisce la distinzione
tra guerra-contro e guerra- per
27
.
La macchina da guerra nomade è affine a quest’ultima tipologia, e assume una
valenza puramente distruttiva e aggressiva solo quando un apparecchio di cattura, di
stato, se ne appropria modificandone l’orientamento, in direzione della conservazione
e riproduzione dell’ecumene.
Il fenomeno della guerra nasce nel momento preciso di questa appropriazione,
correlativa al cambio di oggetto da parte della macchina nomade che assume così,
come proprio, la guerra. L’appropriazione notifica il cambio di regime della macchina
astratta, che inizia a funzionare all’interno degli strati, mentre tutta la sua attività
precedente scongiurava la stratificazione e la formazione di centri di potere, che sono
parimenti punti di identità, soggettivazione e significanza .
Essa «vive ogni cosa in rapporti di divenire invece di ripartire opposizioni binarie fra
stati»,«è di un’altra specie, di un’ altra natura della macchina di stato».
28
., che produce
e instaura trascendenze a cui conformarsi. La macchina di cattura si piega all’interno,
mentre la macchina da guerra è da pensare come forma di esteriorità, rispetto a quella
d’ interiorità che si assume solitamente come modello. Ma essa è anche ciò che
necessariamente deve rimanere fuori, affinché il pensiero inerente agli strati possa
costituirsi come immagine all’interno della polarità mythos-logos.
In un caso ci si difende dall’Altro per conservare una certa forma di organizzazione,
nell’altro il pensiero, la vita si alleano alle forze che sembrano minacciarli.«La forza
che distrugge l’immagine e la sua copia, il modello e le sue riproduzioni, e ogni
possibilità di subordinazione ad un modello del Vero, del Giusto, del Diritto»«La
27
Il problema è affrontato anche in Pour en finir avec le jugement, laddove si accenna alla divisione tra guerra-contro, e
guerra-per.
28
G.DELEUZE, Mille Plateaux, la nomadologie
13
macchina da guerra di fatto non esiste che nelle proprie metamorfosi»,«forza sempre
esteriore a se o ultima forza, ennesima potenza»
29
.
La macchina da guerra, o macchina a metamorfosi, agisce sul corpo senza organi e
benché attraversi gli strati, non ne assume gli scopi né i mezzi. Si muove su un altro
piano, al quale il corpo organizzato, umanizzato, guarda come a possibilità perdute, di
cui è stato derubato.
Da questo punto di vista il corpo che parla e ragiona è sempre infermo, troppo lesto
o troppo lento, inadatto a cogliere l’ attimo e divenire. Esso è immobilizzato dalla
propria morfologia e anatomia, mentre il corpo senza organi è energetico, suddiviso
per zone di intensità piuttosto che per organi.
Destratificare è allora una questione di corpo, che riguarda lo spirito nella densità
profonda della materia, e si esplicita in una sorta di ginnastica spirituale, un “atletismo
affettivo”, secondo la terminologia di Antonin Artaud.
L’attore, così come viene trattato ne”Il teatro e il suo Doppio”, agisce sul corpo in
punti precisi, come un medico tradizionale cinese, per stimolare e far passare l’energia
vitale. Egli ricerca la base organica di ogni emozione, e giocando con i diversi ritmi
impressi al suo soffio, ne deve ripercorrere la scala intera. Sino a rendere percepibili
le forze che scuotono intimamente gli organi, portarle al limite della loro intensità, per
farle evoluire su un altro piano, che doppia tanto lui che la scena.« Raggiungere le
passioni per il tramite della loro forza, piuttosto che considerarle come astrazioni pure,
conferisce all’attore una maestria che l’eguaglia ad un vero guaritore»
30
Prolungare ogni gesto, ogni grido in quel Doppio che irrompe nello spazio della
rappresentazione, lo deborda e lo immerge in un’atmosfera di mistero e magia che lo
trasfigura.
L’operazione teatrale, e taumaturgica, compiuta dall’atleta affettivo, in un certo
modo, incontra l’agopuntura e lo sciamanesimo come sue applicazioni concrete.
La figura dello sciamano in particolare, merita una certa attenzione per il modo in
cui si lega alle metamorfosi. Diversamente dal re, centrale e solare, garante dell’unità
e dell’identità della collettività, lo sciamano è un personaggio più defilato, abita ai
margini, nelle foreste e nei luoghi dove più evidente appare la connivenza con
l’alterità. Le sue tecniche segrete gli servono per estendere la sua influenza sul mondo
degli invisibili, che sottende e prepara quello visibile. Agendo sull’invisibile crea,
modifica il visibile. Egli è infatti sensato intrattenere rapporti con gli spiriti degli
animali, delle piante, delle rocce e dei defunti.
Ciò che è importante, è notare come questi possano essere considerati altrettanti
divenire-animale e vegetale che s’impossessano dell’uomo. Cioè processi, possibilità
di esistenza che non passano per punti di soggettivazione, ma deviano e si
compongono diversamente, restando così invisibili all’organizzazione molare. Non
hanno alcuna funzione rappresentativa, sono i segni, i tratti per mezzo dei quali
29
In una certa maniera il corpo senza organi spostando l’attenzione sul corpo, solleva più in generale il problema della
potenzializzazione, senza che vi sia per questo, ricorso alla trascendenza.
30
A.Artaud, Le Théâtre et son double, Gallimard 1998
14
l’attore rivela il Doppio. Sono indici di una transizione dall’invisibile al visibile, e dal
visibile all’invisibile che li trasporta in un movimento comune, e trasforma ogni cosa.
Lo scopo del teatro della crudeltà non è dunque di occuparsi di vicende umane, di
intrecci psicologici o preoccupazioni morali. Il processo creativo viene spostato
all’indietro, e mira a far emergere la vita anorganica nella sua violenza, rendere
palpabile la necessità che costringe un corpo a diventare organismo e poi a prendere la
parola.
Aspira ad un linguaggio spaziale, di segni e geroglifici fisici, che si propaghi in una
pluralità di dimensioni. «L’identificazione dell’oggetto del teatro con tutte le
possibilità della manifestazione formale ed estesa, fa apparire l’idea di una certa
poesia nello spazio che si confonde essa stessa con la stregoneria».
31
La crudeltà sta nello strappare il manifestato al non-manifestato e farlo vibrare in un
piano fisico, intellettuale e spirituale. Provocare uno choc al pensiero, ponendo
l’intero essere di fronte alla propria impossibilità.
Per Artaud un’idea simile di teatro si ritrova solo in oriente, laddove l’arte non ha
smarrito la sua aura sacrale, e la forza emanata non si esaurisce nelle parole e nella
loro interpretazione. L’oriente è il luogo di una “fisica del gesto assoluto”, e si
alimenta in verità più profonde e terribili di quelle dei drammi psicologici, che si
accontentano di narrare le peripezie dell’individualismo occidentale.
Non si tratta di esemplificare ed interpretare in modo efficace delle turbe che
travagliano gli uomini e il loro mondo. Il punto è svolgere, sviluppare, potenziare al
massimo uno stato di cose, fino a ricavare un evento.
Ogni sentimento portato all’estremo è intraducibile, racchiude mondi che non
passano per la parola né impiegano i concetti della ragione, ma affiorano e si rivelano
attraverso posture, grida, combinazione di gesti, danze e maschere.
Come la macchina da guerra, l’attore del teatro della crudeltà, ripercorrendo e
rendendo via via percepibile la scala completa dell’affettività, rivela la potenza viva
ed efficace delle metamorfosi e dei divenire, che testimoniano di «un’inumanità
vissuta immediatamente nel corpo in quanto tale»
32
. Tuttavia nel momento in cui ne
predispone l’avvento, deve farsene necessariamente investire. Per questo non lo si può
considerare solo come un medico, ma anche come il paziente, che deve «esaurire in sé
tutti i veleni, tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia e diventare tra tutti il
grande malato, il grande criminale, il grande maledetto e il Supremo sapiente – poiché
giunge all’ignoto»
33
Lo patisce, lo sperimenta, lo vive. E arriva così a padroneggiare
quello che prima bruciava.
Destratificare è dunque anche, e soprattutto, un pathos. Una discesa nella profondità
e nell’estensione della sensazione, da cui occorrerà ricavare una logica per non essere
sopraffatti.”Saper soffrire”, come diceva Nietzsche. E saper soffrire richiede abilità,
astuzia, tempismo. Metis e Kairos
34
. La capacità di leggere una situazione, di
31
Ibid., p. 112
32
G.DELEUZE e GUATTARI, Mille Plateaux, Visagéité.
33
A.RIMBAUD,lettres du voyant
34
La Metis designa un’intelligenza in situazione, tecnica. In un certo modo essa è l’astuzia. In questo senso i suoi
rappresentanti mitici furono, per gli dei, Zeus, per i titani, Prometeo, e infine per gli uomini Ulisse. Kairos, è strettamente
legato a questa forma di intelligenza e ne esprime la modalità nel temporalità. Kairos è il momento giusto. Era descritto
15
coglierne con uno sguardo le linee di fuga, per capovolgere il senso a proprio favore.
Immettere il negativo, la sofferenza e tutto quanto sembra ostacolare la vita, in un
processo creativo da cui possano emergere nuovi modi di esistenza e di pensiero.
Ciò significa render affermative le forze che prima si limitavano a reagire e a
chiudersi allo scopo di conservarsi. Ma come era già stato notato, il prezzo di questa
elevazione alla potenza più alta è l’inumanità, l’alleanza al totalmente altro, alle forze
che minacciano e passano attraverso il corpo organizzato e molare.
Una tale connivenza inumana, presuppone infatti il passaggio ad un altro regime di
esistenza, dove pertanto l’individuazione non sia più fondata né sulle forme, né sulle
sostanze. Deleuze la chiama ecceità
35
. Vale a dire eventi, singolarità, intese come
coesistenza tra più elementi eterogenei su uno stesso piano di consistenza, per
affermare il quale, il pensiero deve generarsi in sé stesso e andare contro ciò che lo
rende impossibile. Affermare contemporaneamente sé e la propria impossibilità, così
da spaziare oltre gli orizzonti in cui la soggettività lo costringe. Arrivare al punto in
cui non vi è più un soggetto che conosce un oggetto,
ma un pensiero che è già di per sé evento e creazione di singolarità, e precede, per
certi versi, ciò che lo pensa. Come se non fossero attori e registi a rappresentare
qualcosa, ma la creazione alla ricerca di una modo per generarsi ed investire il Tutto.
L’inumanità di cui è questione designa l’umanità e il suo opposto, considerato non
come limite o negazione, ma in quanto potenza affermativa, divenire. Aprirsi all’
inumanità significa sfruttare ogni singola componente, portare a termine ed esaurire
l’umanità, attingendo sino alla sua molecola più dispersa., “saturare ogni attimo”.
La molecolarità è difatti la dimensione propria al divenire. Deleuze la definisce
come il tramite tra l’elementare e il cosmico, il punto d’incontro tra la biologia e lo
spirito.
Il senso di questa nozione è molteplice giacché molecolare è, innanzitutto, ciò che
sfugge alla normale soglia di percezione, che è troppo piccolo e veloce, o al contrario
grande e lento, per interessare quanto avviene negli strati, nella dimensione molare, in
cui vige, attenta e controllata, la coscienza. L’infinitamente grande e l’infinitamente
piccolo, pur nella loro differenza, esprimono una distanza analoga dalla misura umana
delle cose. Distanza a cui si può dunque, in una certa misura, attribuire anche una
valenza “spirituale”, benché materiale, proprio in quanto iato dall’umano. La
dimensione molecolare diventa una sorte di movimento, una fuga o un viaggio. Da
questo punto di vista, la si può considerare come una trasparenza che scorre
nell’Ecumene, ma che solo si rivela, nelle linee di fuga che conducono al Planomene,
al piano di consistenza.
come un uomo che correva, con un solo ciuffo di capelli davanti alla testa, in modo che lo si potesse afferrare solo
frontalmente, come l’occasione che si presenta una volta, per poi non tornare più. Metis e Kairos, diventano dunque
necessari al movimento di destratificazione, che non avviene mai d’un colpo solo, ma per aggiustamenti successivi, pena,
dice Deleuze, la trasformazione della linea di fuga in linea suicidaria.
35
In Mille plateaux, p. 318. «C’è una modo di individuazione molto diverso da quello di una persona, di un soggetto, di una
cosa o di una sostanza. Gli riserviamo il nome di hecceité. Una stagione, un inverno, un’estate, un’ora, una data hanno
un’individualità perfetta e che non manca di nulla, per quanto non si confondano ad una cosa o un soggetto», che può essere
correlato a quel «e abbiamo forse torto a credere all’esistenza delle cose», in Pourparlers, p.40.
16
Con ciò, la dimensione molecolare si riferisce anche ad un modo diverso di
temporalizzare. Poiché molecolare è il tempo dell’evento, rispetto al quale Chronos, il
tempo storico, è sempre troppo in anticipo o in ritardo. Questo perché solo l’essere si
riferisce agli strati e alla dimensione molare, mentre il divenire si propaga
molecolarmente, attraverso gli strati, verso il piano di consistenza. Lo stesso può
essere considerato valido di tutte le altre coppie introdotte da Deleuze, riguardanti lo
spazio, il tempo, l’immagine, il pensiero, che si possono raggruppare assieme, al fine
da chiarirne i rapporti reciproci.
Se si volesse trovare un’immagine per esplicitare in maniera generale tali dualità, tra
lo spazio liscio e quello spazio striato, tra la dimensione molare e molecolare, non
bisognerebbe ricorrere ad un’opposizione come esiste tra il giorno e la notte, ma a
quella molto più pertinente del ghiaccio e dell’acqua. L’acqua come
deterritorializzazione assoluta delle calotte ghiacciate e il ghiaccio come
riterritorializzazione dell’acqua.
I termini sono sempre uno dentro l’altro, ma in una certa maniera, alimentano
movimenti diversi.
La molecolarità sottrae il gesto all’organizzazione molare, lo svincola dalle sue
funzioni e significati abituali, per imprimergli un’altra direzione, liberatoria ed
espressiva piuttosto che rappresentativa. La molecolarità conduce la potenza al
culmine di sé senza sviarla nei meccanismi, gli agencements, con cui si costruisce e si
conserva la realtà. È molecolarmente che la deterritorializzazione diventa assoluta,
divenire dove le cose prive di riferimenti coesistono in uno “spazio liscio”, dove si
compone il corpo senza organi, di cui i flussi e le forze non sono che parzialmente
trattenute dal corpo organizzato e molare.
Il corpo senza organi è il corpo rubato, il corpo che l’organismo, gli strati, ci
sottraggono, «on m’a volé mon corps», ma è anche la Parola che il linguaggio ci
usurpa. Eppure è importante notare come tra i due non vi sia successione. Essi
coesistono, ma necessitano, si può dire, di due sguardi diversi
36
. Il corpo senza organi
è l’uovo come realtà intensiva, dove le cose non si distinguono che per gradienti e
tassi di velocità «convergenza fondamentale della scienza del mito, dell’embriologia e
della mitologia, dell’uovo biologico e dell’uovo psichico».
37
Tuttavia il corpo senza organi non si costruisce in un colpo solo. Occorre mimare gli
strati per uscirne,”divenire-tutto il mondo”, che è ben diverso dall’essere come tutto il
mondo
38
. La rappresentazione smette silenziosamente di rappresentare, diventa parte
di qualcos’altro, di un’altra vita che se ne impossessa e ne cambia la direzione.
36
Nell’apprendistato di Castaneda, il punto culminante dell’insegnamento, la cosiddetta “ spiegazione degli stregoni”, è
quando i due maestri, ognuno sussurrando ad un orecchio, provocano la scissione dell’individuo in due dimensioni,
chiamate tonal e nagual, a cui Deleuze accenna in Mille plateaux. Per Castaneda il riferimento è a l’isola del tonal , il sapere
degli stregoni, il corpo, la mente, introduzione e traduzione di F.JESI, , RCS libri Milano 1997.
37
G.DELEUZE, Mille Plateaux, comment se faire un corps sans organes?
38
Essere come tutto il mondo, riguarda la somiglianza e l’imitazione e si traduce in un anonimato piatto. Divenire come
tutto il mondo invece è un tendere all’impercettibile, e presuppone l’idea di frattura. Si diviene tutto il mondo quando «il
passato di fatto ha cessato di esistere». A quel punto si diviene mondo, impercettibili, come la Pantera rosa, che dipinge su
di sé il mondo., si coglie l’ora del mondo, il divenire, senza più immobilizzarsi in alcun stato, senza più essere catturati da
nulla, impercettibili, clandestini, senza volto. Si tratta di una nozione poetica sulla quale Deleuze scrive alcune delle pagine
più belle di Mille plateaux, per esempio 244, 344.