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che fare con il concetto di preferenza: l’utilità, in questo senso, è solo un’espressione
numerica di una preferenza in un ordinamento di preferenze.
Connessi all’utilità ci possono essere tanti concetti (una sintesi è nel paragrafo 3.1), ma i
più importanti sono due: quello di preferenza e quello di felicità. Queste due concezioni
danno luogo a due modi totalmente diversi di interpretare l’utilità stessa (par. 3.2). Se si
considera l’utilità come un concetto legato a quello di preferenza, come accade nella
cosiddetta preference theory, allora l’utilità assume una connotazione puramente formale,
essendo semplicemente una rappresentazione numerica di preferenze date e decise dallo
stesso soggetto.
Se invece si prende in considerazione soprattutto il legame con la felicità, come fa la
happiness theory, invece, l’utilità diviene un concetto che ha che fare con uno stato mentale,
e che non necessariamente è consapevole nella mente del soggetto a cui si fa riferimento.
Esiste poi un terzo modo di affrontare la questione, quello delle preferenze informate (la
cosiddetta preference informed theory), che si situa a metà fra le due concezioni appena viste,
in modo a mio avviso abbastanza ambiguo.
Una distinzione fondamentale è quella tra utilità soggettiva e utilità oggettiva (nel par 2.3).
Una cosa è la valutazione soggettiva di utilità (più brevemente, l’utilità soggettiva);
un’altra è l’utilità reale, quello che chiamo l’utilità oggettiva. Una valutazione, come
accade per tutte le proprietà, è necessariamente soggettiva: se vedo una persona, posso
effettuare una valutazione sul suo presunto peso, senza l’ausilio di strumenti di
misurazione; ma questa valutazione, inevitabilmente soggettiva, potrà essere diversa da
un’altra valutazione, e (questo è il punto importante) sarà diversa dal peso reale che ha
quella persona, a meno che non sia una valutazione perfetta.
Penso che non ci siano dubbi, almeno in una concezione di tipo “realista”, che una volta
data una definizione precisa alla proprietà da misurare, quella proprietà abbia un’intensità
oggettiva. Il peso, per esempio, è la forza gravitazionale a cui è soggetto un corpo.
Dipenderà dunque dalla massa del corpo e dalla massa della terra (o del pianeta su cui
poggia il corpo).La forza gravitazionale comunque può essere più o meno forte, e tutto
questo indipendentemente dal fatto che io sia in grado di misurarla in modo corretto o
meno. Quello che conta, si badi bene, non è il numero che si attribuisce al peso di un
oggetto: questo dipenderà infatti dall’unità di misura e dalla scala utilizzata (nel caso del
peso, per esempio, esiste un cilindro a Parigi, a cui è stato attribuito convenzionalmente il
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peso di 1 kg, e che serve come base per i confronti. Ma lo standard potrebbe benissimo
avere un peso diverso, così come è nel caso della libbra). Quando si parla di intensità
oggettiva ci riferisce al fatto che, dati due oggetti qualunque, indipendentemente
dall’unità di misura e dalla scala utilizzata, un oggetto sarà più pesante, meno pesante, o
ugualmente pesante rispetto all’altro. Non importa come lo valutiamo: una volta definitala
proprietà, esiste una realtà oggettiva.
Nel caso della persona: il semplice fatto che io possa compiere un errore di valutazione,
facendo uso di una bilancia poco precisa, non significa che quella persona non abbia un
peso, o che il peso oggettivo corrisponda alla mia valutazione errata.
Il caso dell’utilità, con le dovute precauzioni, è, a mio avviso, analogo. Nella teoria della
felicità, se noi fissiamo correttamente i parametri che identifichino bene quale sia la
proprietà in esame, non dovremmo negare che questa proprietà esista, anche se nessuno la
valuta correttamente. Quelle che ho chiamato le dimensioni dell’utilità costituiscono questi
parametri: un oggetto di riferimento (per esempio un panino), un soggetto, un momento
temporale e una durata. Una volta identificate queste dimensioni, posso definire l’utilità
del panino, come il grado con cui il panino contribuirà effettivamente alla felicità del
soggetto in questione, in quel momento, e in quel determinato periodo di tempo
considerato.
Se ho in mente la concezione dell’utilità legata alle preferenze è naturalmente
impossibile effettuare una distinzione fra utilità oggettiva e utilità soggettiva; l’utilità
stessa è infatti definita già come utilità soggettiva, essendo una autovalutazione di utilità
da parte del soggetto di riferimento.
Perché è importante la distinzione fra utilità oggettiva e soggettiva? La ragione è da
ricercarsi nel differente uso che hanno i due concetti in relazione soprattutto al principio di
sovranità del consumatore (o di autonomia delle preferenze) e al contrapposto paternalismo.
Questo è un punto fondamentale. Un utilitarismo di tipo paternalistico, mirando
all’effettiva utilità dei soggetti, è obbligato a considerare l’utilità oggettiva. Ovviamente,
per far questo, l’ideale paternalista darà una sua valutazione di utilità, dunque sempre
un’utilità soggettiva, ma il suo obiettivo rimarrà l’inconoscibile utilità oggettiva; non
prenderà comunque in considerazione sicuramente le utilità soggettive dei soggetti di
riferimento, quelle cioè autovalutate. Queste utilità saranno invece tenute in gran conto da
chi segua il principio di sovranità del consumatore, per il quale il giudizio dell’interessato
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è l’unico che debba essere considerato. Secondo questa strategia, dunque, l’obiettivo,
anche ideale, non è più l’utilità oggettiva, bensì solo l’utilità soggettiva dei soggetti di
riferimento.
In economia il principio di sovranità di consumatore è molto in voga: a livello
descrittivo è effettivamente l’unico principio che ha il diritto di essere considerato, visto il
fatto che gli individui concretamente agiscono in base a delle utilità soggettive. Ma in
campo etico bisogna stare molto attenti: l’utilitarismo, volendo massimizzare l’utilità
collettiva, non può prendere in considerazione esclusivamente ciò che gli individui
pensano sia bene per loro, principio pienamente democratico, ma non utilitarista.
Se infatti un’intera società, in preda al delirio, decidesse volontariamente di provare su
di sé gli effetti delle radiazioni nucleari, un utilitarista di buon senso non potrebbe essere
d’accordo solo sulla base del principio di autonomia delle preferenze. Potrebbe anzi, in
virtù del suo giudizio, pensare (in questo caso probabilmente a ragione), che le utilità
soggettive manifestate dai cittadini siano errate e non siano per niente correlate con le loro
utilità oggettive.
Ho presentato (paragrafi 3.3 e 3.4) i concetti di preferenza e di felicità, ritenendoli più
importanti in modo più approfondito. L’uso della preferenza si basa su certi requisiti di
razionalità (riflessività, completezza, transitività), che si possono anche discutere. Sono
presenti inoltre varie nozioni di preferenza (preferenze effettive, informate, spurie), che
differiscono notevolmente nel significato, nei presupposti e nell’uso.
La felicità viene definita come una “sintesi” dei sentimenti di una persona. Distinguendo
tra un lato cognitivo ed uno emozionale del soggetto, si identifica in quest’ultimo aspetto il
fulcro della felicità, che può essere comunque intesa, al pari dell’utilità in modi molto
differenti. Sostengo anche che la felicità debba essere presumibilmente considerata come il
fine ultimo più importante, e proprio per questo l’utilità, in campo prescrittivo, dovrebbe
rifarsi alla felicità.
Ho presentato anche un accenno al fatto che le condizioni esterne a cui è soggetto
l’individuo non sono correlate in maniera semplice con la felicità dell’individuo,
intervenendo fattori quali l’ambientamento, le aspettative e il confronto con gli altri: questo
per mostrare come un politico o un qualunque decisore che voglia avere come fine la
massima felicità di una o più persona debba stare attento nel valutare l’impatto delle
condizioni oggettive sugli individui. In questo contesto va inquadrato il problema dello
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schiavo felice, che è felice perché si è adattato a misere condizioni di vita e perché non ha
grandi aspettative per il futuro.
Nei paragrafi 3.5 e 3.6 ho presentato brevemente i vari utilizzi pratici dell’utilità, in
riferimento soprattutto al fine che ci si prefigge. Un conto è utilizzare l’utilità a fini
normativi o a fini descrittivi. E, in campo normativo, un conto è orientarsi più sui fini
(l’etica), o più sui mezzi.
1.3 LA VALUTAZIONE DELL’UTILITÀ
Come fare concretamente per valutare l’utilità? Innanzitutto va decisa la scala da
utilizzare: questa può essere una scala di rapporto (come nel caso del peso), una scala ad
intervalli (come sono le scale Celsius e Fahrenait per la temperatura), o una semplice scala
ordinale. Le informazioni presenti nei valori hanno un diverso significato a seconda della
scala che si sta utilizzando. Così, in una scala di rapporto ha senso parlare di rapporti fra i
valori; in una scala ad intervalli hanno senso solo i rapporti fra le differenze fra i valori; in
una scala di rapporto, infine, ha significato solo l’ordine fra i valori.
Il secondo passo importante nella valutazione dell’utilità è considerare se si sta
valutando l’utilità di un singolo oggetto o della persona in generale: in questo secondo
caso l’utilità può essere interpretata come la felicità della persona. E importantissimo è
valutare se si sta considerando l’utilità propria (in cui cioè il valutante è egli stesso il
soggetto di riferimento), o l’utilità altrui.
Nel caso della valutazione della propria utilità generale, si incontrano già alcuni
problemi. Come si fa a sapere quanto siamo felici? La felicità è sicuramente uno stato
mentale in qualche modo consapevole (altrimenti sarebbe irrilevante), ma per effettuare
una valutazione dobbiamo confrontarci con gli altri, e questo non è facile.
Nel caso della valutazione della felicità altrui le cose si complicano: come fare infatti per
inferire quanto siano felici le altre persone, non potendo entrare nella loro testa? I modi
sono principalmente tre: l’osservazione dei fattori esterni che circondano l’individuo, che si
presume possano influenzare lo stesso (ma con le dovute precauzioni: siamo diversi ed
esistono i meccanismi di adattamento); l’osservazione dei comportamenti, in base all’ipotesi
che la felicità influenzi in qualche modo i comportamenti di un individuo (le espressioni,
le azioni, il modo di porsi di fronte agli altri…); oppure la rilevazione delle autopercezioni
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degli individui stessi, supponendo che sappiano valutare correttamente la propria felicità.
Si possono ipotizzare inoltre, considerato che dobbiamo valutare degli stati mentali, dei
metodi fantascientifici che facciano uso di strumenti quali elettrodi o simili.
Se invece dell’utilità generale della persona, devo semplicemente valutare l’utilità di un
singolo oggetto (come un panino, un’azione, un evento), il discorso cambia. Un calcolo di
questo tipo (par. 4.5) sarà tecnico (se si rifà all’utilità tecnica) o umanistico (se l’obiettivo è il
calcolo dell’utilità umanistica).
Come fare concretamente per assegnare dei numeri ai vari oggetti, solitamente
conseguenze. Sono stati proposti vari metodi, dai più semplici ai più complessi e
discutibili. Un metodo molto usato è quello di Von Neumann-Morgenstern, che utilizza
come stima di utilità la disponibilità che ha il soggetto a rischiare per avere una
conseguenza piuttosto che un’altra. Un altro metodo molto famoso è quello di equiparare
l’utilità di un bene al valore monetario che ha questo bene: ma in questo caso bisogna fare
molta attenzione (par. 4.8).
Il capitolo sulla valutazione dell’utilità si chiude con una disamina dei confronti
interpersonali di utilità, cioè della comparazione di utilità di persone diverse su una
medesima scala (problema già affrontato, da un diverso punto di vista e con riferimento
solo all’utilità generale della persona, parlando della valutazione della felicità altrui). Sono
possibili i confronti interpersonali di utilità? Se sì, su quali presupposti si regge la
possibilità di effettuarli? Alla prima domanda risponderò di sì; alla seconda introdurrò il
postulato di similarità , ricordato soprattutto da chi fa sua la teoria delle preferenze
informate, ma che va ugualmente bene per chi usa la teoria della felicità.
1.4 LA TEORIA DELLE DECISIONI
Il capitolo 5 è dedicato interamente alla teoria delle decisioni individuali. Ho presentato
questa teoria perché si tratta di un tentativo di utilizzo dell’utilità per prendere delle
decisioni pratiche. Nella teoria delle decisioni, una volta elencati gli atti che è possibile
compiere e gli eventi del mondo incerti, la decisione dell’atto da compiere sarà effettuata
in base ai valori di utilità che sono presenti nelle celle, nell’intersezione cioè fra atti ed
eventi. Bisogna dire che la teoria delle decisioni non dice assolutamente niente sul modo in
cui bisogna valutare l’utilità delle conseguenze (noi abbiamo già affrontato il problema nel
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precedente capitolo). Lo scopo della teoria, puramente prescrittiva, è di indicare
all’individuo i modi corretti con cui, partendo da valutazioni di utilità date, si possa
scegliere un atto. Si utilizza, nella teoria delle decisioni, il concetto di preferenza, visto che
l’utilità deve essere necessariamente soggettiva. Si possono immaginare, del resto, le
preferenze come derivate dall’obiettivo della felicità. Nella teoria delle decisioni si utilizza
spesso un’utilità ordinale, anche se, in molti utilizzi, non possiamo fare a meno di
considerare un’utilità di tipo cardinale.
I tipi di problemi affrontati possono essere parametrici o strategici. Gli eventi di una
decisione di tipo strategico sono costituti da atti possibili di un’altra decisore; questo tipo
di problema ha dato luogo ad una branca autonoma della teoria delle decisioni, la teoria dei
giochi, a cui faccio semplicemente un accenno. All’interno delle condizioni parametriche, si
può effettuare una distinzione fra condizioni di certezza, incertezza e rischio. La distinzione
ha a che fare con le informazioni che abbiamo sul verificarsi degli eventi incerti: nel caso di
certezza sappiamo quale evento si verificherà, nel caso di incertezza non lo sappiamo, così
come nelle condizioni di rischio, in cui però abbiamo almeno informazioni sulle
probabilità di accadimento dei vari eventi possibili.
Nel par 5.8 presento i vari criteri che possono essere adottati, in condizioni di incertezza
e di rischio. Sono importanti soprattutto il criterio del maximin e dell’utilità attesa, visto che
hanno delle applicazioni in campo utilitaristico. E’ fondamentale dire che non esiste un
criterio “perfetto” o razionale per prendere una decisione. Nella tabella 24 del capitolo
successivo, presentando il principio di imparzialità per l’utilità collettiva, mostro un
esempio in cui metto in luce le pecche di ciascun criterio.
1.5 L’UTILITÀ COLLETTIVA
Nel sesto capitolo ho presentato i vari metodi con cui l’utilità può essere aggregata, per
giungere ad un valore dell’utilità collettiva, partendo da un insieme di utilità individuali.
Ho accennato anche al principio base che dovrebbe seguire una persona per effettuare
delle valutazioni dell’utilità di varie situazioni a livello collettivo in modo corretto: il
principio di imparzialità.
Nel paragrafo 6.3 ho introdotto i vari metodi con cui l’utilità collettiva può essere
valutata. E’ da notare che in questo paragrafo mi sono occupato della concezione di utilità
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legata alla felicità: in questo senso, dunque, l’utilità collettiva viene a coincidere con la
felicità collettiva. Di tutt’altro tipo (come ho detto in altri punti della tesi) è il problema
relativo all’aggregazione delle preferenze, che dà luogo alla teoria della scelta sociale.
Mentre la felicità collettiva è connessa all’utilitarismo, la “preferenza collettiva” è connessa
più alla democrazia, preoccupandosi del modo con cui possono venire aggregati nel
migliore dei modi dei giudizi di utilità soggettivi. Per capire meglio questa questione,
forse non chiarita abbastanza nello scritto, si tenga presente i due procedimenti logici a cui
si va incontro per valutare le due diverse utilità collettive.
Per valutare la felicità collettiva, il valutante ha bisogno di dare una stima delle utilità
oggettive dei vari individui componenti il gruppo; successivamente tenterà di dare una
sintesi di tutto questo con i metodi di aggregazione visti precedentemente. Nel caso della
preferenza collettiva, invece, il valutante dovrà semplicemente registrare il valore di utilità
soggettiva fornito dagli individui, per poi tentare di aggregare le varie utilità. Si vede bene
che il primo procedimento è più utilitaristico del secondo, che è però più democratico del
primo.
Alla fine del capitolo ho trattato un modo con cui si può valutare l’utilità collettiva sui
singoli oggetti. Fino ad ora mi ero riferito all’utilità collettiva generale, riferita cioè ad una
situazione sociale di tipo globale. Il problema analizzato nel paragrafo 6.4 è invece
connesso alla valutazione dell’utilità che derivare ad esempio dalla scelta del luogo di
ubicazione di un aeroporto, della scelta di costruire o meno una metropolitana etcc. A
questo scopo vengono utilizzate spesso l’analisi costi-benefici e l’analisi multicriteriale, che,
facendo uso di vari criteri, vivisezionano gli effetti di una scelta in modo da metterne in
luce i pro e i contro (oppure i costi e i benefici).
1.6 RAZIONALITÀ E UTILITÀ
Nelle teorie prescrittive è usato molto frequentemente il concetto di razionalità. L’uomo
agisce in vista di determinati fini, per i quali cerca di mettere in atto i mezzi più idonei.
Dobbiamo stare attenti però a non confondere razionalità e correttezza (par. 7.1).La
razionalità riguarda infatti la validità del ragionamento che porta alla decisione. Il
ragionamento potrà essere più o meno buono, indipendentemente dalla bontà effettiva
della decisione. La correttezza è invece una proprietà riferita al contenuto della decisione.
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Se, per fare un esempio, sono un meteorologo e devo fare una previsione sul tempo che
farà domani, avendo ovviamente il fine di indovinare questa previsione, potrò seguire due
strade: con la prima, farò uso di satelliti, isobare, rilevazioni varie, computer e buon senso
(tutti mezzi), e da questi passerò alla previsione; con la seconda, mi limiterò a tirare un
dado e a dare quella previsione corrispondente al numero uscito in una tabellina da me
costruita. E’ evidente che la maggior parte delle persone riterrà razionale la prima
procedura e irrazionale la seconda. Infatti probabilmente è così. Nulla vieta però che la
previsione effettuata con il metodo del dado si dimostri accidentalmente più vicina alla
realtà della prima. In questo caso la decisione più corretta sarebbe la meno razionale.
La razionalità può essere intesa in varie accezioni, che ho presentato brevemente nel
paragrafo 7.2. Ma è indiscutibile che la nozione più comune di razionalità è quella mezzi-
fini. Un’azione viene detta razionale quando si adottano i mezzi più adeguati in vista del
raggiungimento di un determinato fine. Ci sono problemi anche con questa definizione
apparentemente semplice, che ho riassunto brevemente nel medesimo paragrafo.
Qual è il collegamento fra l’idea di razionalità e quella di utilità? La risposta non è
difficile: l’utilità può infatti essere intesa come il fine supremo a cui fare risalire tutti i fini
secondari. E’ proprio questa l’aspirazione dell’utilitarismo, fin dai primi tempi: trovare un
principio che potesse essere un principio base, che bastasse da solo a giustificare una
scelta. Il principio di massimizzazione dell’utilità è un principio molto ampio, che però non
include tutto: ne restano esclusi i diritti, la giustizia, la libertà, la volontà divina, la
democrazia. Tutto questo può esistere, per un utilitarismo forte, solo come mezzo per
massimizzare l’utilità. In effetti è spesso così, anche se a volte ci sono dei casi abbastanza
emblematici, che ho discusso nel paragrafo 7.3.
Cosa dire in conclusione? L’utilità può essere un valido principio da seguire in campo
prescrittivo. Secondo me, se l’utilità viene intesa come contributo alla felicità, la risposta è
sì. Bisogna naturalmente considerare un tipo di utilità oggettivo e non soggettivo. Quello
che deve interessare, per fare del bene, non è quello che la gente pensa che sia bene per
loro, bensì quello che è effettivamente (a nostro avviso) bene per loro. Di fronte ad un
uomo in preda alla follia che si vuole tagliare una mano, noi siamo legittimamente tenuti a
fare di tutti per impedire che compia questo gesto. Così possiamo tentare di impedire ai
drogati di drogarsi, ad un alcolizzato di ubriacarsi, ecc.
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Ma non voglio che si pensi che io sia favorevole ad un atteggiamento paternalista. In
teoria il ragionamento paternalista regge. In pratica regge solo nelle condizioni abbastanza
ovvie che ho appena detto (pazzo, drogato, bambino, incapace..). Nella realtà infatti,
nessuno può pensare di giudicare l’utilità dell’interessato meglio dell’interessato stesso, o
quantomeno non gli può essere concesso il diritto di giudicare dal punto di vista legale.
Per qualcuno che vede le cose in modo migliore dell’interessato, ci sarebbero molti più
soprusi o errori, anche in buona fede. Per non contare il fatto che un atteggiamento
paternalista sarebbe disutile solo per il fatto che ad un obbligo si reagisce peggio che ad
una propria scelta. Per queste ragioni, è più “utile” per l’intera società che siano garantiti i
diritti di libertà e di autonomia nelle scelte. I giudizi paternalistici possono essere dati in
veste di consigli, educazione, esortazioni. Ma mai obblighi.