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CAPITOLO I
FEDERICO FELLINI
1.1 BIOGRAFIA
Nato a Rimini il 20 gennaio del 1920, Fellini proveniva da una famiglia
piccola borghese dell’epoca: il padre Urbano, di estrazione contadina, era
un’ affermato rappresentante di commercio, mentre la madre, Ida Barbini,
casalinga, proveniva da una famiglia di agiati commercianti. Sin da
bambino Fellini mostrava un temperamento buono e tranquillo e che,
avesse sin da piccolo una particolare attitudine e predilezione per il
disegno. Anche al ginnasio-liceo, che frequentava con il suo inseparabile
compagno e amico Titta, Federico è uno scolaro “normale”: mediamente
diligente, riflessivo e per niente ribelle. Amante della lettura, in particolare
la sua formazione era passata attraverso i classici di Salgari, Defoe,
Dickens e altri, Fellini prediligeva soprattutto i FUMETTI che ricoprivano
un ruolo particolarmente importante e che in futuro sarebbero diventati per
lui più di un semplice passatempo. Infatti questo amore sarà un tratto
fondamentale della sua formazione culturale e la particolarità di tutto il suo
cinema sia perché lo indurrà a “vedere” graficamente i suoi personaggi
(infatti spesso Fellini disegnava su carta degli abbozzi che poi sarebbero
diventati i personaggi dei suoi film) prima ancora di pensarli
narrativamente e psicologicamente, sia perché gli lascerà una predilizione
per il frammento narrativo rispetto alla storia completa e compiuta.
Durante gli anni riminesi pochi sono gli eventi importanti tra cui si
possono citare nel 1935 un viaggio a Forlì per far parte della scorta
d’onore di Vittorio Emanuele III, nel 1936 la partecipazione ad un
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campeggio di avanguardisti che gli ispira una serie di caricature sui
“balilla” che l’anno successivo diventeranno la sua prima pubblicazione.
Infine l’ultimo avvenimento della vita riminese di Fellini, e sicuramente il
più importante, è l’apertura, insieme al pittore Demos Bovini, di una
“bottega del ritratto” chiamata «FEBO». Si trattò di un’ esperienza
formativa fondamentale nella vita di Fellini, non solo perché la sua
passione per il disegno caricaturale sarebbe potuta diventare una fonte di
guadagno ma soprattutto perché avrebbe potuto offrirgli l’occasione per
andar via da Rimini. Infatti, proprio nell’estate del 1937, Fellini comincia
ad inviare le sue prime cartoline del pubblico alla «Domenica del
Corriere» e a sognare di poter abbandonare la sua città natale per aprire le
porte a ciò che avrebbe potuto offrirgli la vita nella capitale. Il sogno
diventa realtà dopo la maturità quando inizia a collaborare alle riviste della
società Nerbini di Firenze, fra cui il popolare bisettimanale «420» e
«L’avventuroso».
Fellini si trasferì a Roma nel gennaio 1939 e l’amicizia con Alvaro De
Torres lo spingerà a non frequentare la Facoltà di Giurisprudenza alla
quale si era iscritto ma inizierà a collaborare al quotidiano «Il Piccolo» e
subito dopo al «Marc’Aurelio» dove incontra, fra gli altri, il redattore
Stefano Vanzina (Steno) e Ruggero Maccari, che in seguito lo
introdurranno nel mondo del cinema. Fellini vivrà un periodo da lui stesso
definito bohèmien.
In questo periodo conobbe Piero Tellini che lo aiuterà a muovere i suoi
primi passi nel cinema ma soprattutto conobbe Aldo Fabrizi per il quale
scriverà dei brevi sketch comici e lo introdurrà nel variopinto mondo dei
piccoli teatri di varietà (i quali faranno spesso da sfondo ai suoi film).
Contemporaneamente, inizia anche a lavorare come sceneggiatore
umoristico per la radio.
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Il 1943 fu un anno molto importante per Fellini sia dal punto di vista
professionale sia per la sua vita privata. Infatti, dopo alcune puntate di
sperimentazione per il Terziglio, una trasmissione settimanale a tema che
si sviluppava in un’ora con tre brevi racconti di autori diversi, ideato da
Cesare Cavallotti, Fellini recupera i suoi primi personaggi, Cico e Pallina,
pubblicati originariamente sul «Marc’Aurelio». In questo programma
radiofonico Fellini conobbe Giulietta Masina, chiamata ad interpretare il
ruolo di Pallina.
Originaria di S. Giorgio di Piano presso Bologna, di buona famiglia
borghese e laureata in lettere, Giulietta si era già guadagnata una discreta
fama di attrice molto dotata recitando nei GUF universitari. Pur essendo
molto equilibrata, con un carattere e un temperamento molto diversi da
quelli che appartenevano al Fellini dei tempi in cui si sono conosciuti, tra
loro nasce sin da subito un forte legame che li porterà ad un fidanzamento
lampo e il 30 ottobre del 1943 diventeranno marito e moglie, uniti
affettivamente e artisticamente per il resto della loro vita. Durante la II
Guerra mondiale Fellini, insieme ad alcuni suoi amici, apre un «Fanny
Face Shop» dove si fanno caricature, ritratti e fotografie; in questo locale
conobbe Roberto Rossellini che lo contatterà successivamente per
proporgli di collaborare alla sceneggiatura di Roma città aperta in
particolare le scene che riguardano don Pietro interpretato da Aldo Fabrizi.
Ma il 1945 si apre sotto il segno del dolore per Fellini, infatti in marzo
Giulietta dà alla luce un bambino, Pierfederico, che purtroppo vivrà solo
due settimane. Questo è un capitolo molto delicato del rapporto tra
Federico e Giulietta; ma sicuramente l’assenza di un figlio ha consentito a
Fellini di vivere in bilico tra onirico e non-onirico e di dare libero sfogo
alla sua fervida immaginazione. Questo stesso anno fu però
professionalmente importante. Le successive collaborazioni porteranno
alla luce Paisà, di cui Fellini seguì tutta la lavorazione percorrendo in
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lungo e in largo tutta l’Italia. Peraltro, per un’ indisposizione di Rossellini,
Fellini ebbe anche l’occasione di girare un paio di inquadrature per
l’episodio fiorentino, Il miracolo, secondo episodio di L’amore, che, oltre
alla responsabilità soggettista e sceneggiatore, gli permise la prima
esperienza ufficiale di aiuto-regia.
L’enorme successo che ottenne il film di Rossellini aprì la strada anche a
Federico che si conquistò la fama di sceneggiatore “serio” e non solo di
racconti comico-sentimentali e ciò lo portò ad importanti collaborazioni
con altri registi fra i quali: Lattuada (Senza pietà, Il delitto di Giovanni
Episcopo, Il mulino del Pò); Germi (In nome della legge, Il cammino
della speranza, Il brigante di Tacca di Lupo e La città si difende);
Comencini (Persiane chiuse).
Ma prima di passare alla sua prima e vera regia vi fu una collaborazione di
co-regia con Lattuada, il film è: Le luci del varietà. Il film, di cui Fellini
aveva scritto il soggetto e la sceneggiatura insieme a Lattuada, Ennio
Faiano e Tullio Pinelli, purtroppo non ottenne un buon risultato né critico
né economico. Ma nonostante l’insuccesso di co-regia con Lattuada, è un
produttore, Luigi Rovere, ad offrirgli spontaneamente la sua prima regia
autonoma. Da questa prima opportunità nasce Lo sceicco bianco, film
incompreso ed ignorato per molti anni, che ha avuto un iter produttivo
alquanto travagliato.
Con i produttori Fellini ha sempre un rapporto conflittuale. All’inizio della
sua carriera, questa conflittualità era dovuta in parte all’alternarsi di
successi ed insuccessi che lo costringevano a cambiare produttore da film a
film. Ma le cose non cambiarono neanche quando diventò un regista
affermato. In effetti Fellini litigava con i produttori un po’ per tutto: per i
film che voleva fare e per quelli che i produttori vorrebbero che lui facesse,
per i casting, per i tempi, i modi e soprattutto i costi delle lavorazioni; per i
finali aperti dei suoi film; per la sua abitudine a non scrivere sceneggiature
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dettagliate; per i film progettati e mai realizzati (in particolare: Viaggio
con Anita e Il viaggio di G. Mastorna).
Purtroppo, nonostante le grandi speranze riposte nella riuscita di questo
film, esso fa guadagnare a Fellini soltanto grandi critiche negative ed
ottenne un secondo fiasco da un punto di vista commerciale. Fellini però
credeva ancora fortemente nei suoi mezzi espressivi e andò ancora in cerca
dell’occasione giusta per esprimere il suo talento nella forma più consona a
se stesso. Fra i pochi amici che gli erano rimasti dopo l’insuccesso de Lo
sceicco bianco c’era il produttore Pegoraro al quale era piaciuto molto il
film e si offrì di finanziare un suo secondo tentativo e Fellini aveva già il
copione de La stradache però, dati gli esiti commerciali negativi dell’altra
recente favola del cinema italiano - Miracolo a Milano (1951) di De Sica e
Zavattini- spaventò Pegoraro. Così, in uno dei tanto pomeriggi passati a
chiacchierare, Pinelli suggerì un’ idea che Fellini associò immediatamente
ai suoi ricordi riminesi e trova il soggetto e il titolo di un altro film: I
Vitelloni, i cui toni da commedia dolceamara trovarono prontamente il
favore di Pegoraro. Con la collaborazione di Flaiano, la sceneggiatura
vienne scritta praticamente di getto e Fellini realizzò il film in breve tempo
secondo una metodologia produttiva che si allontanava sempre più dai
canoni neorealistici.
I Vitelloni vinse il Leone d’argento al festival di Venezia e ottenne un
buon successo commerciale. Solo a quel punto Pegoraro prense seriamente
in considerazione il progetto de La strada ma restò assolutamente
contrario all’idea di utilizzare come attrice Giulietta Masina propostagli da
Fellini sin dall’inizio. Inoltre non fu soltanto l’avversione nei confronti
della Masina l’unico problema di cast che Fellini si trovò ad affrontare: i
produttori avrebbero voluto utilizzare Alberto Sordi nella parte di
Zampanò. Nel 1954 al festival di Venezia il film conquistò un altro Leone
d’Argento, ma questa volta però si scatenarono accese discussioni tra i
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critici che si dividono in due opposte fazioni: i cattolici apprezzarono e
lodano il film mentre i marxisti lo accusarono di tradire l’estetica del
neorealismo.
Ma, nonostante le aspre critiche, il film ottenne comunque un grande
successo di pubblico sia in Italia che all’estero e I Vitelloni vinse non solo
l’Oscar ma anche un premio speciale appositamente istituito dalla Screen
Guild Direction. Dall’agosto al dicembre 1954 Fellini pubblicò sulla rivista
«Cinema» il soggetto Moraldo in città(soggetto che farà parte di una serie
di film che non realizzerà mai ma che, al contempo, si potranno trovare
sparsi nei suoi film).
Il passo successivo portò Fellini a realizzare Il bidone che venne girato in
poco più di due mesi e per il quale Fellini lavorò il più in fretta possibile al
montaggio per poterlo presentare al festival di Venezia, dove però vienne
accolto con una particolare freddezza. Questa fu per Fellini una grande
delusione anche perchè la gelida accoglienza a Venezia e il conseguente
insuccesso commerciale del film raffreddarono notevolmente gli
entusiasmi di Lombardo (il quale con grande gioia decise di finanziare il
film).
Nel periodo seguente all’uscita de Il bidone Fellini cercò per mesi un
nuovo soggetto e gli tornò alla mente il ricordo di Wanda, una prostituta
aggressiva e collerica, linguacciuta e litigiosa ,ma allo stesso tempo dolce e
innamorata dell’amore e che per amore aveva tentato il suicidio per tre
volte, che il regista aveva incontrato nel corso delle riprese de Il bidone.
Fellini trovò il soggetto per un suo nuovo film: Le notti di Cabiria però
c’era il problema di trovare il produttore e, dopo varie ricerche, ritrovò De
Laurentiis. Il film, presentato ufficialmente al festival di Venezia nel 1957
ottienne un’enorme successo coronato dal premio a Giulietta Masina come
miglior attrice protagonista e un secondo Oscar, nonché dal successo
commerciale nelle sale cinematografiche di tutto il mondo.
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Dopo il clamoroso successo de Le notti di Cabiria Fellini era molto
indeciso sul soggetto da realizzare. Inizialmente si concentrò su Viaggio
con Anita, un suo soggetto originale che traeva spunto dal suo viaggio a
Rimini in occasione della morte del padre, ma che si sviluppava
fondamentalmente secondo una trama di fantasia e non secondo linee
autobiografiche. Il soggetto piaque molto a De Laurentiis che aveva già
pronto il cast degli interpreti principali: Sophia Loren e Gregory Peck, ma
Fellini aveva dei seri dubbi sul soggetto, ristudiò a fondo il soggetto e alla
fine decise di abbandonarlo (ne utilizzerà però stralci nei suoi film
successivi, mentre il soggetto originale, con opportune variazioni, verrà
realizzato da Mario Monicelli nel 1979).
Durante questo periodo Fellini frequentò molto via Veneto, studiandone e
analizzandone usi e costumi, prendendo appunti soprattutto sul fenomeno
dei personaggi famosi che vengono continuamente fotografati dai fotografi
tra i quali emergono Tazio Secchiamoli che gli ispira il personaggio di
“paparazzo” e Pierluigi Praturlon che nell’estate del 1958 aveva
fotografato Anita Ekberg che si immergeva nelle acque della fontana di
Trevi. Il suo lavoro di ricerca continuò anche nella periferia di Roma
sempre insieme ai suoi inseparabili collaboratori e iniziò a sviluppare il
soggetto che avrà come titolo provvisorio Via Veneto. Fellini però mise in
chiaro sin dall’inizio che non aveva intenzione di elaborare un tipo di
storia lineare e che il suo intento era quello di costruire una trama i cui
pezzi erano disposti secondo un suo ordine personale e casuale. Come
spesso gli era successo, il soggetto non convinse De Laurentiis il quale
avrebbe preferito un tipo di storia più lineare e più “sicura”. I produttori
cercarono in tutti i modi di convincere Fellini ad eliminare alcune scene,
soprattutto la sequenza del sul suicidio di Steiner considerato un episodio
troppo amaro e deprimente. Questo forte scetticismo nei confronti del film
e l’elevato aumento dei costi a causa della lunga preparazione e a quella
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del cast (Fellini aveva scelto Mastroianni mentre i produttori avrebbero
voluto Paul Newman o Burt Lancaster) costrinsero Fellini a cambiare ben
undici produttori.
Finalmente grazie alla bontà del napoletano Amato, il quale riuscì a
convincere anche Rizzoli, le riprese del film iniziano nel marzo del 1959.
All’anteprima romana, dopo tre ore di proiezione, il film fu accolto da soli
“venti secondi” di applausi ma peggio andò a Milano dove già durante il
film ci furono urla, commenti di disapprovazione ma soprattutto sputi
rivolti a Fellini all’uscita della proiezione. La dolce vita fece un’enorme
scalpore, ma non si trattò di un vero e proprio fiasco piuttosto si parlò di
scandalo, grande, enorme, di proporzioni mai registrate prima ma che in
realtà contribuirono non poco agli incassi record che registrò il film in tutto
il mondo. Il film divenne un caso politico, prima ancora che artistico-
culturale e anche le posizioni della critica ebbero un’inversione di
tendenza, infatti i marxisti, che fino ad allora avevano non poche parole di
disapprovazione per Fellini e le sue opere, furono in quel caso i suoi più
accaniti difensori; viceversa i cattolici, che avevano sempre amato e lodato
i suoi film precedenti, gli si scagliarono contro con lettere telegrammi ed
esposti ai questori chiedendo l’immediato ritiro della pellicola o quanto
meno il pesante intervento delle forbici della censura.
Tali polemiche arrivarono addirittura in Parlamento che nel giro di
pochissimi giorni richiesero l’intervento di molti politici e l’intervento del
ministro del Turismo e dello spettacolo: l’ On. Umberto Tupini (che però
non intervenne “adeguatamente” e a sua volta innalzò altre aspre e feroci
polemiche). Per placare tutto il rumore che La dolce vita aveva causato,
Fellini rilasciò varie interviste, scrisse pagine di delucidazioni e girò tutta
l’Italia partecipando ad una miriade di dibattiti. Ma ciò non servì ad
affievolire le ben alimentate critiche e polemiche e nulla cambiò neanche
quando il film vinse la Palma d’Oro a Cannes, né dopo il Film Critics
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Awards a New York e nemmeno dopo l’Oscar a Piero Gherardi per i
costumi.
Tutto questo trambusto, diviso tra gioie e dolori, portarono però a Fellini
tanta fatica e tanto stress che gli fecero trascorrere un periodo di cura a
Chianciano. Ma Fellini non si fece sfuggire la proposta fattagli da Tonino
Cervi il quale gli propose di contribuire con un episodio ad un film
collettivo contro la censura allora imperante in Italia. Nacque così Le
tentazioni di Sant’Antonio e che insieme agli episodi diretti da Vittorio De
Sica (La Riffa), Mario Monicelli (Renzo e Luciana) e Luchino Visconti
(Il lavoro) costituisce Boccaccio ’70. Probabilmente Fellini considerava
questa esperienza solo una sorta di riscatto nei confronti dei critici, ma non
vi è dubbio che Federico ebbe modo di dare libero sfogo alla sua fantasia e
alla sperimentazione del colore e sul linguaggio onirico.
Nel frattempo, considerata la buona intesa con Rizzoli, Fellini cercò di
concretizzare il sogno di avere una sua casa di produzione e fondò con lui
la “Federiz” intesa a produrre i suoi film, ma anche opere di giovani e
promettenti debuttanti. Ma presto la casa di produzione non avrà successo
e riuscirà soltanto a produrre Giulietta degli spiriti.
In questo periodo Fellini conobbe De Seta e questo fu un evento
fondamentale della sua vita, infatti De Seta gli fornì il numero di telefono
dello psicologo austriaco junghiano Ernest Bernhard e lo incita a
contattarlo.
Da quel momento in poi Fellini iniziò un lungo viaggio di studio dentro se
stesso, iniziò un analisi dell’inconscio; ma ciò che più colpì Fellini di Jung
era il modo in cui lui riesciva a coniugare scienza e magia, razionalità e
fantasia. Quindi Fellini, basandosi sulle teorie junghiane, sosteneva che
fosse possibile esprimersi con il cinema e parlare con il pubblico a un
livello non solo razionale ma, anche subliminale ricorrendo alla
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figurazione simbolica di intuizioni, sensazioni che non arrivano a diventare
pensiero conscio e sintatticamente organizzabile.
L’avvicinarsi a Bernhard e alla psicologia junghiana coincisero non
soltanto con un periodo entro cui si aprirono nuovi orizzonti figurativi e
creativi per Fellini, ma coincise anche con un periodo di profonda crisi
creativa ed incertezza. Ma fu sotto il profilo di questa indecisione che
nacque 8 ½ (titolo provvisorio poi diventato definitivo), il cui
autobiografismo si impose a Fellini man mano che procedevano sia
l’ideazione che la prima fase della realizzazione del film. Indubbiamente 8
½ è il film più sincero e più vero che sia stato mai realizzato perché è vero
che per tutto il periodo della preparazione del film egli fu ossessionato e
tormentato dai costumi e da tutte le maestranze che chiedevano
delucidazioni sulle necessità scenografiche del film nonché dagli attori che
insistevano per avere chiarimenti sui loro ruoli. Considerando però che il
film è intessuto di sogni e fantasticherie e che non vi è alcuna prova certa
della veridicità autobiografica di molti degli episodi dell’infanzia
raccontata, 8 ½ è al contempo il più fictionale, il più fantastico e, forse, il
più “bugiardo” film che la storia del cinema possa ricordare.
Presentato all’inizio del 1963, il film vienne ben accolto dalla critica di
tutto il mondo e che al festival di Mosca vinse il primo premio e in seguito
il film vinse sette Nastri d’Argento e un altro Oscar che fece di Fellini il
regista più famoso nel mondo.
Grazie agli ottimi risultati di 8 ½ , Fellini poteva scegliere tranquillamente
il soggetto per il suo nuovo film: Giulietta degli spiriti, che trovò
d’accordo anche Rizzoli nell’utilizzare Giulietta Masina come interprete.
Nonostante il clima di euforia, sul set vi furono molti nervosismi dovuti
maggiormente al passaggio al colore. Anche la vita privata di Fellini subì
notevoli cambiamenti, infatti il suo bisogno di esplorare l’inconscio, il
paranormale, il sogno lo spinsero non solo ad intensificare le sue seduti
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spiritiche ma lo portarono anche ad assumere allucinogeni (se pur sotto
controllo medico).
Tutte queste esperienze personali trovano eco nel suo film il quale viene
apprezzato per i suoi valori formali e figurativi, ma verrà anche letto come
una versione al femminile e riduttiva di 8 ½.
Il relativo insuccesso di Giulietta degli spiriti coincise con l’inizio del
periodo più travagliato della vita personale e professionale di Fellini,
costellato da avvenimenti di segno negativo: Rizzoli si ritirò dal sodalizio
della «Federiz» ponendo definitivamente fine all’esperienza, Flaiano ruppè
i rapporti con lui sostenendo che non vi fosse più compatibilità di vedute
con la sua nuova linea di ricerca, Pinelli, Ghepardi e Brunello Rondi si
allontanarono dalla cerchia dei suoi amici più intimi.
Il senso di isolamento che cominciò a crescere in Fellini si fece più acuto
quando nel giugno del 1965 scomparse improvvisamente Ernest Bernhard
e quando all’inizio del 1966 muorì anche il suo abituale direttore della
fotografia Gianni Di Venanzo.
Dopo la morte di Bernhard, Fellini decise di girare Il viaggio di G.
Mastorna, quindi le sue riflessioni si incentrarono sul tema della morte che
però non convinse molto De Laurentiis ma che accettò comunque di
produrre il film. Quando tutto sembrava pronto e definito, nell’aprile 1967,
a pochi giorni dall’inizio delle riprese, Fellini sviene e viene
immediatamente trasportato in ospedale.
Tra mille vicissitudini e vari rimandi, tra i molteplici conflitti con De
Laurentiis, alla fine Fellini rinunciò definitivamente al film.
Durante i giorni di degenza, Fellini scrisse insieme all’amico Renzo Renzi
il libro dei ricordi: La mia Rimini, da cui in seguito sarà tratto Amarcord.
Inoltre durante la sua convalescenza ebbe anche modo di rileggere il testo
di Petronio sostenendo di essere rimasto affascinato dalle parti mancanti,
dal «buio fra un episodio e l’altro», cioè dalla frammentarietà che