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fermano, quasi volessero anche loro contemplare questa terra ricca di ospitalità e
di stili di vita passati.
Sia chi visita la Sicilia per la prima volta sia le persone che ci ritornano non
mancano mai di sottolineare lo straordinario fascino dell'isola.
Il suo spettacolare paesaggio che, da un aspro entroterra si trasforma in costa
frastagliata, con le isole sparse nel suo mare fino alle pendici vulcaniche e spesso
innevate dell'Etna la rendono unica ed insostituibile e per questo assolutamente da
visitare.
“Nel bene e nel male, la Sicilia è l'Italia al superlativo”
- Edmonde Charles Roux -
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Capitolo 1
“Per conoscere una terra bisogna mangiarci insieme”
- Detto istriano -
1.1 Breve storia del turismo enogastronomico
Quando si parla di turismo enogastronomico bisogna tenere presente che da un
lato è un fenomeno relativamente giovane, dall'altro che sta crescendo in modo
molto significativo e costante anche se non è ancora quantificabile con una certa
precisione.
llterritorio rurale e le sue produzioni tipiche sono una grande risorsa per la cultura
di ciascuna regione; dalla presa di coscienza di questo fondamentale assunto sono
nati molti progetti di valorizzazione del territorio e delle produzioni tipiche come
per esempio gli itinerari enogastronomici che si stanno rivelando di grande
successo.
In Italia, il turismo enogastronomico è un fenomeno che risale sostanzialmente
agli anni Novanta, prima infatti non era possibile parlare di un’offerta organizzata,
bensì di sporadiche manifestazioni che avevano ancora il sapore della sagra
paesana.
Ma da cosa è nato il turismo enogastronomico, e cosa spinge gli occidentali a
girare per le campagne alla ricerca di prodotti come il formaggio a latte crudo, il
prosciutto stagionato sotto la cenere o del vino a denominazione di origine?
Una delle risposte più importanti a questa domanda risiede in quel processo che
da decenni coinvolge i paesi del blocco occidentale, e che viene normalmente
denominato “globalizzazione”.
Il termine ormai è divenuto sinonimo di perdita delle proprie radici e della propria
identità culturale, una sorta di spauracchio che ha portato con sé una reazione a
volte anche molto forte da parte dei singoli individui, “costretti” a ripensare alla
terra dei padri come a un paradiso perduto.
In sintesi, la globalizzazione ha favorito la nascita dei prodotti certificati, delle
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Indicazioni Geografiche e delle Denominazione di Origine Protette.
Per una sorta di paradosso, la nostra reazione all’invasione dei pomodori cinesi è
quella di girare in macchina per le campagne alla ricerca dei cibi biologici
nostrani.
Per capire la nascita dell’enoturismo bisogna però ripercorrere in breve queste
tappe e metterle in relazione con quello che il cibo significa per l’essere umano.
“Noi siamo ciò che mangiamo”, o meglio, ciò che mangiamo diventa noi.
Nella sfera animale, non esiste un atto più intimo di quello del mangiare e
l’esperienza del cibo coinvolge tutti i sensi perché anche l’udito ha il suo ruolo,
soprattutto in occasioni conviviali (il tintinnio dei cristalli e degli argenti, tanto
per fare un esempio).
A ben guardare, neppure l’atto sessuale possiede caratteristiche di intimità così
forti come quelle che accompagnano l’ingestione di un cibo.
Dunque, l’esperienza del mangiare è un fatto complesso, che comprende in sé
elementi diversi, e che coinvolge sia la sfera sensuale che quella intellettiva.
Perché il mangiare è anche, se non soprattutto, un’esperienza di indole culturale,
nella quale entrano in gioco la nostra educazione familiare, il nostro ceto di
provenienza, le nostre conoscenze e, fatto estremamente importante, le nostre
aspirazioni.
Potremmo dire che di fronte al menù proposto da un ristorante le nostre scelte
sono al 50% mediate da ciò che noi siamo e, al 50% da ciò che vorremmo essere o
comunque dall’immagine che di noi stessi vogliamo dare agli
altri.
Un altro elemento del quale tenere conto è quello che il linguista Roman Jakobson
descriveva nel secolo scorso: “Nessuno può comprendere la parola formaggio, se
prima non ha un’esperienza non linguistica del
formaggio”.
Dunque non è possibile parlare di un determinato cibo se prima non se ne è avuta
esperienza diretta che, come detto prima, coinvolga i nostri sensi e il nostro
intelletto.
Premesso questo, possiamo tornare a parlare dei mutamenti sociologici che hanno
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interessato la società italiana del Novecento portando alla nascita del turismo
enogastronomico.
Uscita dall’ultima guerra con uno “spettro della fame” destinato a durare a lungo,
l’Italia ha conosciuto un periodo nel quale il cibo sostanzialmente era “buono se
tanto”.
La qualità non era un fattore determinante, casomai quello che era ancora
importante era la “cucina di casa”, quella della mamma e della nonna, in porzioni
generose.
I mitici anni Sessanta oltre a rappresentare certamente il periodo più spensierato e
al contempo “ricco di speranze” che il nostro Paese abbia conosciuto negli ultimi
decenni, hanno segnato un momento importante per il
cibo.
L’Italia si stava “rivestendo”, e anche le portate nel piatto dovevano assumere un
aspetto esotico, che allontanasse il ricordo della campagna, dei sapori forti e
umili, e di conseguenza dei propri natali, dei quali ben pochi potevano vantarsi.
Sono gli anni dell’esodo delle campagne, e del mito delle metropoli con le loro
fabbriche, che ogni mattina inghiottivano migliaia di operai ma che a fine mese
davano loro quello stipendio che permetteva di sfamare la
famiglia.
E’ in questi anni che le signorine di città venivano educate a diventare buone
padrone di casa per mezzo di manuali che spaziavano dalle ricette di cucina ai
consigli sul bon ton. In questi abbecedari delle buone maniere si trovano notizie
interessanti sulle novità portate alla nostra alimentazione dal processo di
urbanizzazione.
Il formaggio, quello stesso formaggio di cui parlava Jakobson, era assolutamente
bandito dalle tavole familiari in presenza di
ospiti.
Il formaggio, negli anni ’60 e ’70, era diventato il simbolo di un’Italia povera e
rurale assolutamente da dimenticare, e mentre si consigliava di accogliere gli
amici offrendo loro piatti esotici come i “sigari di melanzane”, il formaggio
andava mangiato di nascosto, nella stretta intimità della famiglia, possibilmente
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vergognandosi anche un po’.
Contemporaneamente, i gusti si rarefacevano sempre di più, all’insegna di una
“leggerezza” che da una parte ha fatto la fortuna della parola anglosassone light, e
dall’altra ha molto contribuito ad aumentare l’atrofia delle papille gustative.
Con questa leggerezza siamo arrivati agli anni Ottanta, quelli immortalati da Raf
per la loro mancanza di profondi
significati.
Sono gli anni dell’edonismo reaganiano e dell’insostenibile leggerezza
dell’essere, ma sono anche gli anni della caduta del muro di Berlino, e della
disgregazione del blocco orientale, che ha fatto perdere fascino anche a James
Bond, costretto ormai alla pensione per mancanza di russi e tedeschi dell’Est
cattivi da combattere.
Dal punto di vista della cultura enogastronomia, gli anni Ottanta hanno segnato il
fondo nella “caduta del gusto”, dopo il quale non potevamo altro che
incominciare, lentamente, a
risalire.
E’ del 1989 infatti la nascita dello Slow Food, avvenuta niente meno che a Parigi,
capitale francese che sembrò l’unica sede adatta per dare inizio al il processo di
controriforma del gusto.
Il mangiare piano contro il mangiare veloce statunitense, i formaggi forti contro le
hamburger insapori, la campagna contro la città…
Cosa era successo per arrivare a questo? Era accaduto quello che era inevitabile:
l’uomo, prima di suicidarsi, è capace di una resistenza estrema, e di ripensare le
proprie radici per trovare nuova forza per combattere.
Fallito il modello di metropoli proposto dalla società occidentali dopo le due
guerre mondiali, la campagna, con i suoi silenzi, che invogliano all’umana
conversazione, i suoi ritmi stagionali, la sua naturale dignità, è apparsa come
l’unico approdo per l’uomo moderno, alla ricerca di una nuova comunione con la
propria sostanza umana.
C’è da dire tuttavia che il movimento di ritorno alla campagna è stato in buona
parte capitanato dalla classe intellettuale, che inevitabilmente ha portato con sé i
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rappresentanti del jet set, sempre sensibili al richiamo dell’arte e della
cultura.
Le conversazioni colte si sono infiorettate di uova del pollaio e di insalatina fresca
dell’orto, di alberi delle mele e di alberi degli
zoccoli.
Il biologico è divenuto parola d’ordine, e tutti abbiamo iniziato a conoscere i
formaggi a latte crudo e quelli stagionati in grotta, i culatelli e i salami d’oca, i
vini delle sabbie e quelli nati dalla viticoltura eroica.
Ma al di là degli estremismi che questo processo di ritorno alla campagna ha
portato con sé - fino a consegnarci in alcuni casi paesaggi “pettinati”, tanto belli
quanto falsi, e un post-agriturismo divenuto piuttosto country hotel, o albergo di
charme, o al relais di campagna che dir si voglia, per l’uomo comune questo
fenomeno è stato importante e ha segnato una forte reazione alla globalizzazione,
e alle paure che questa porta con
sé.
L’uomo ha iniziato a ripensare se stesso e il rapporto con i suoi simili; ma
soprattutto ha ricercato le proprie radici, perché solo attraverso la storia può
esistere progresso.
Per riprendere contatto con il proprio passato e con le proprie origini culturali
l’uomo ha da sempre un mezzo quanto mai potente e diretto: il cibo.
Il recupero dei cibi tradizionali e dei prodotti delle nostre campagne ha dato
all’uomo metropolitano la possibilità di riconciliarsi con se
stesso.
L’ingerire un cibo vero, non confezionato, non manipolato da macchinari e non
contaminato da conservanti ha instaurato un processo di autoidentificazione.
L’uomo ha detto: “io sono questo, perché mangio questo. Io sono sano, perché
mangio sano. Io sono figlio dei miei padri, perché mangio i loro cibi.”
Per questo i turisti enogastronomici hanno un alto grado di scolarizzazione, sono
generalmente colti, spesso sono liberi professionisti o comunque ricoprono
cariche di rilievo.
Sono uomini e donne alla ricerca del piacere, nel senso filosofico del termine, e
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che hanno una buona immagine di sé.
Inconsapevolmente sanno che insieme al prodotto acquistato in fattoria portano a
casa il sogno che tale prodotto porta con sé; il sogno di un orizzonte più vasto,
all’interno del quale l’uomo si muove come “essere naturale”, e in questo senso
biologico, a tutti gli effetti.
Attualmente in Italia l'unica Legge creata per valorizzare i territori a vocazione
vinicola è la Legge 268/99 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.185 del 9 agosto
1999 che come scopo principale ha quello di “istituzionalizzare” le cosiddette
“Strade del Vino” ovvero, come si evince dall'art 2 della suddetta legge, dei
percorsi segnalati e pubblicizzati con appositi cartelli, lungo i quali insistono
valori naturali, culturali e ambientali, vigneti e cantine di aziende agricole singole
o associate aperte al pubblico; esse costituiscono strumento attraverso il quale i
territori vinicoli e le relative produzioni possono essere divulgati,
commercializzati e fruiti in forma di offerta turistica.
Secondo uno studio promosso dall'AREV e dalle Città del Vino datato 2003 in
Italia sono presenti 83 strade del vino e dei sapori.
Da questo ricerca si evince che le regioni dove sono presenti più “Strade” sono la
Toscana (14), la Calabria (11) e la Puglia (10).
Il Turismo Enogastronomico inoltre deve essere disciplinato da denominazioni di
Origine che attestino la reale naturalezza e tipicità del prodotto; in questa gamma
di denominazioni possiamo distinguere le prime che disciplinano l'ambito
vinicolo, le secondo quello agroalimentare.
Per quanto riguarda le Denominazioni di Origine per i vini le più conosciute ed
usate sono:
DOCG, Denominazione di Origine Controllata e Garantita
DOC, Denominazione di Origine Controllata
IGT, Indicazione Geografica Tipica
Tutte e tre le denominazioni qui sopra riportate sono disciplinate dalla Legge
164/92.