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CAPITOLO PRIMO
LA “CRIMINALITA’ ECONOMICA” DALLE
ORIGINI A OGGI: STORIA D’UNA EVOLUZIONE
TORMENTATA
1 – Dalle origini della nozione al secondo dopoguerra
1.1 Non è affatto agevole ripercorrere la storia di un concetto tanto
complesso e sfaccettato quale quello di “criminalità economica”, e nel
farlo non si può comunque prescindere da una breve analisi
sull’interpretazione che, in passato, si è sviluppata intorno a tale
espressione. Proprio l’ambiguità del termine “economia”, infatti, ha per
molti secoli impedito una ricostruzione unitaria e veritiera della categoria
rendendo il compito arduo anche per gli studiosi contemporanei.
L’equivoco ha origini lontane, risalenti alla stessa etimologia del lemma:
così “economia” deriva dal greco “οικονοµία”, vale a dire lett. “gestione
della casa" (
1
), e sino a tutto il medioevo situazioni-tipo diversissime
quali il furto o la violazione di domicilio si facevano rientrare in tale
ambito quali lesioni di quel “patrimonio domestico” che per molti secoli
(
1
) Al riguardo si noti, per esempio, che lo storico greco SENOFONTE, nella sua opera Οικονοµικός ,
VI 4-10 racconta che Socrate affermava che “economia” è il nome di una scienza con cui gli uomini
possono ingrandire la casa, intendendosi per casa “ciò che ognuno ha”.
3
ha costituito l’unica espressione della proprietà privata. In seguito
all’evoluzione e al progresso della civiltà, poi, la categoria de qua è
andata sempre più arricchendosi di ulteriori fattispecie, tanto da giungere
al paradosso che “qualunque comportamento illecito, offensivo di
interessi anche lontanamente economici, potrebbe rientrare nell’ampio
genus criminalità economica”(
2
).
1.2 Come per molti altri ambiti di studio, anche per quel che riguarda la
criminalità economica uno spartiacque fondamentale è dato dagli eventi
verificatisi tra il XVIII°
e il XIX° secolo, periodo in cui gli
stravolgimenti socio-economici (Prima e Seconda Rivoluzione
Industriale) e culturali (Illuminismo e, in seguito, Positivismo) hanno
portato significative novità nell’evoluzione del concetto in esame. In
quegli anni la nascita e lo sviluppo dell’industrializzazione di massa,
l’affermazione del ruolo delle banche e del “mercato” unitamente alla
democratizzazione dei grandi Stati nazionali ed allo sviluppo in essi di
forme più o meno avanzate di codificazione legislativa portò alla
creazione o all’espansione di forme di criminalità – societaria, valutaria,
(
2
) Cfr. LO MONTE, Riflessioni in tema di controllo della criminalità economica: tra legislazione
simbolica ed esigenze di riforma, presso Riv. Trim. di Dir. Pen. dell’Economia, anno 1998, v. 2/3. In
proposito si osservi anche l’opinione di PICA in Diritto penale dell’economia e dell’impresa, UTET
1996, secondo cui “ove collegata ad ambiti più tecnici e settoriali, l’espressione economia mantiene
una pluralità di significati, potendosi intendere con essa sia il sistema economico, e dunque il
complesso dei meccanismi che regolano e fanno funzionare i rapporti economici, sia le diverse forme
di attività economiche, sia la concreta tipologia dei rapporti economici, sia infine gli aspetti
strettamente patrimoniali delle attività economiche”.
4
fiscale, commerciale – del tutto nuove o pressoché sconosciute in epoche
precedenti e tali da comportare un progressivo mutamento del concetto
di economia che, abbandonando le connotazioni statiche del passato,
doveva adattarsi dinamicamente ai cambiamenti in atto. Ma mentre gli
ordinamenti statunitensi e del Regno Unito (caratterizzati peraltro dal
“sistema” di Common Law) già accoglievano soluzioni innovative sotto
il profilo, ad esempio, dei c.d. “corporate crimes”(
3
) e stabilendo forme
di responsabilità a carico delle persone giuridiche, nell’Europa
Continentale la messa in discussione dell’antico principio “societas
delinquere non potest” avrebbe richiesto molti altri anni ed in materia si
scontava un deciso ritardo nell’adeguamento alle nuove realtà socio-
economiche.
In Italia, in particolare, nasceva proprio negli stessi anni il nuovo codice
penale, il codice Zanardelli del 1889, che pur mostrando talune
importanti novità si presentava, da diversi punti di vista, elaborato “con
lo sguardo rivolto al passato” (
4
). La realtà economica del nostro paese, a
ben vedere, non era affatto paragonabile a quella di altri paesi fortemente
industrializzati come quelli anglosassoni, la Germania o la Francia, ed il
ruolo ancora dominante del settore primario non poteva che determinare
(
3
) Si faccia riferimento alle celebri sentenze Santa Clara County vs. Southern Pacific Rairoad del
1886 e Salomon vs. Salomon & Co. del 1897, rispettivamente pronunciate dai supremi organi
giurisdizionali americano e inglese.
(
4
) Così VASSALLI, in Codice Penale, cit. p. 269.
5
uno scarso interesse del legislatore verso le nuove, “rampanti” forme di
criminalità. In relazione a questa arretratezza strutturale la situazione
italiana non era cambiata di molto quando, quarant’anni dopo, il regime
fascista varò il codice Rocco, in vigore tutt’oggi. Esso prevede, al Titolo
VIII sui delitti “contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”,
un complesso di norme ispirate dalla dottrina fascista e che dovevano
essere tra l’altro funzionali alla realizzazione del “sistema corporativo”,
che finiva però col sopprimere le esigenze di libertà necessarie per uno
sviluppo efficace dell’economia nell’ottica di un totale controllo dello
Stato nelle vicende economiche, fenomeno acuito in seguito dalla linea
di politica autarchica.
Le norme in questione (artt. 499 – 518 C.P.) hanno mostrato quasi subito
la loro inutilità, scatenando critiche radicali tra gli studiosi che,
soprattutto in tempi recenti, hanno bollato quest’apparato come
“disorganico ed ispirato a concezioni economiche del tutto superate”(
5
).
Emerse sin da subito come il legislatore fascista abbia voluto in questa
parte ribadire le proprie concezioni politiche più che tipizzare condotte
illecite che avessero una reale potenzialità destabilizzante per il sistema
(
5
) Sul punto numerosissimi i contributi della dottrina: tra i più importanti si segnalano CONTI,
Economia Pubblica, industria e commercio (delitti contro), in Dig. Disc. Pen., 1990; PATALANO,
Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in AA.VV., Studi in onore di G. Vassalli,
I, Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, 1945 – 1990 a cura di M.C.
BASSIOUNI-A.R. LATAGLIATA-A.M. STILE, Milano 1991, che afferma come il sistema si
caratterizzi per “incompletezza, disorganicità e complessiva inadeguatezza”. Notevolissimi in tema
anche i contributi di PEDRAZZI, che ha parlato di un impianto “economicamente datato”.
6
economico (
6
). Anche la Relazione ministeriale sul progetto del codice
penale del ’30, del resto, confermava come le norme intendessero attuare
“un’effettiva e specifica difesa degli istituti e dei presupposti
fondamentali dello Stato corporativo”: con ciò, attestando de facto le
loro scarsissime possibilità applicative.
Ne è risultato un insieme di disposizioni del tutto avulso dalla realtà e
pertanto incapace di far fronte, seppur in parte, alle esigenze legate ad
un’economia in continua evoluzione, con conseguenti (rischiose)
operazioni interpretative che sollevano problemi di analogia in malam
partem (
7
) .
Una digressione merita invece l’inserimento, nel codice civile del 1942,
di un corpus di articoli (dal 2621 al 2642 c.c.) destinato alla repressione
di taluni comportamenti fraudolenti nello specifico settore dei reati
societari. Ciò che risalta è la minuziosità della disciplina, con la quale si
tende più “a punire l’inosservanza di norme organizzative che la
realizzazione di fatti socialmente dannosi” tramite un utilizzo certe volte
distorto della sanzione penale; quest’ultima, poi, finisce per colpire le
persone fisiche, i c.d. “responsabili”, senza poter dunque incidere
(
6
) E’ l’opinione, peraltro largamente condivisa, di MOCCIA, Riflessioni sui nodi problematici della
normativa italiana in materia di criminalità economica, presso Riv. Trim. di Dir. Pen. dell’Economia,
1997 v. 1, il quale al riguardo osserva “Non è un caso se alcune norme (artt. 499, 500,513, 514 c.p.)
non hanno praticamente trovato alcuna applicazione. Non è un caso il riferimento costante a parametri
normativi difficilmente definibili in termini di certezza. Si pensi al «grave nocumento alla produzione
nazionale» di cui all’art. 499.”
(
7
) Sempre MOCCIA, ibidem cit. p. 11 , il quale si schiera tra i più decisi contestatori della vigenza di
un codice “vetusto” come quello Rocco.
7
“sull’effettiva capacità dell’impresa di produrre o di continuare a
perpetuare moduli illeciti” (
8
). A questa regolamentazione va comunque
il merito di aver offerto una “base di partenza” sufficientemente valida,
su cui anni dopo si sedimenteranno quei provvedimenti normativi
tendenti ad omologare la realtà normativa all’evolversi delle dinamiche
societarie.
1.3 Mentre in Italia si scontava una certa “cristallizzazione” politica
dovuta al regime totalitario (
9
), l’indagine sui “crimini economici”
riceveva un forte impulso, oltreoceano, dalla ricerca criminologica.
Un’opera fondamentale, vero e proprio caposaldo degli studi al riguardo,
è certamente il lavoro di Edwin H. Sutherland “White Collar Crime”,
pubblicato nei primi anni ’40 ma attualissimo per le tematiche trattate ed
il metodo “galileiano” (
10
) di approfondimento. In esso l’autore, pur
partendo dalla premessa che “il reato, come lo si intende comunemente e
(
8
) Tutto il virgolettato di questa parte è tratto dal predetto saggio di MOCCIA, cit. pp. 14-16.
(
9
) Da puntualizzare che una corrente dottrinale guidata da PATERNITI (che la propugna in Diritto
penale dell’economia, ed. Giappichelli 1998) sostiene l’opinione contraria, riconoscendo il sistema
italiano come uno dei più avanzati in virtù d’un interpretazione differente che pone quale origine del
“diritto penale dell’economia” “quei complessi di norme con cui gli Stati intervennero nell’economia
durante gli eventi bellici” e di cui l’Italia si sarebbe dotata già nel 1930.
(
10
) Il Sutherland infatti, per dimostrare le proprie tesi, parte da un osservazione empirica dell’attività
di 70 grandi società statunitensi operanti in vari settori produttivi nell’arco di quarant’anni (dal 1900
al 1940) e dall’analisi delle condotte illecite da esse realizzate.
8
risulta ufficialmente registrato, presenta un’elevata incidenza tra i ceti
socio-economici inferiori e una bassa incidenza tra i ceti superiori” (
11
),
adduce una serie di dati volti a dimostrare il comportamento “poco
virtuoso” di decine di imprese e società statunitensi, elencando
minuziosamente gli illeciti commessi e la natura degli stessi fino alla
dimostrazione che gran parte di essi nasceva dal “comportamento
fraudolento” dei responsabili, dei capi, dei c.d. “colletti bianchi”
(espressione coniata proprio dal Sutherland). Questi sottolinea come tali
reati “non sono modeste e involontarie violazioni di norme tecniche, ma
condotte premeditate, relativamente unitarie e coerenti” (
12
). La
criminalità societaria (quale species rappresentativa del più ampio genus
“criminalità economica”) è definita dallo stesso autore come “abituale” e
nessun meccanismo riabilitativo è ritenuto sufficientemente efficace;
essa sarebbe “molto più diffusa di quanto risulti dal numero dei
procedimenti e delle domande giudiziali” (
13
), e soprattutto non
(
11
) Cit. SUTHERLAND, White Collar Crime (Il crimine dei colletti bianchi), a cura di G.Forti,
Giuffrè 1987, che porta a conferma delle sue tesi due diversi tipi di indagine, poste in essere l’una da
Sheldon e Glueck e avente ad oggetto l’osservazione “che la stragrande maggioranza – dal 76% al
91% – dei colpevoli di reati a Boston versa «al di sotto del livello di benessere», l’altra operata da
Shaw e McKay in 20 città degli USA in relazione alla c.d. «distribuzione ecologica dei rei» per la
quale i criminali sono concentrati per lo più in aree di povertà”.
(
12
) SUTHERLAND, op. cit., p. 289; l’autore si rifà ad una suggestiva definizione di VEBLEN, il
quale affermava: “Nella mancanza di scrupoli con cui piega beni e persone ai propri scopi,
nell’impassibile noncuranza per i sentimenti e i desideri altrui e per le conseguenze ultime delle
proprie azioni, il tipico «uomo pecuniario» assomiglia al tipico delinquente; rispetto a quest’ultimo,
tuttavia, egli possiede un più acuto senso di classe e una maggiore lungimiranza, che gli consente di
perseguire mete più lontane”.
(
13
) SUTHERLAND, op. cit. p. 290; viene anche riportato un passo d’un discorso del vicepresidente
Truman il quale annunciava un’intensificazione delle verifiche da parte della Federal Trade
Commission e la fissazione di “riunioni commerciali” periodiche per discutere della questione.
9
genererebbe particolare disapprovazione sociale (
14
). Infine, ed è forse il
dato più allarmante, “gli uomini d’affari provano ed esprimono disprezzo
per la legge, lo Stato e i funzionari pubblici. Anche da questo punto di
vista, dunque, essi assomigliano ai ladri professionali, spregiatori di
legge, polizia, pubblici ministeri e giudici. Per gli imprenditori, i
funzionari statali per lo più non sono che politicanti e burocrati, e le
persone autorizzate a indagare sulla loro attività nient’altro che
«ficcanaso» (
15
). Il Sutherland perviene così ad un duplice ordine di
considerazioni finali: egli infatti sostiene che “le più significative
differenze tra il crimine dei colletti bianchi e il furto professionale
riguardano il concetto che il reo ha di sé stesso e l’opinione che la
collettività ha di lui. Il ladro professionale si considera un criminale e
non diverso è il giudizio della collettività nei suoi confronti. Non avendo
alcuna aspirazione a godere di una buona reputazione sociale, egli va
fiero della propria fama di criminale. L’uomo d’affari, viceversa, si
considera un cittadino rispettabile e nel complesso questa è anche
l’opinione della collettività” (
16
). La scarsa “coscienza dell’illecito” e
(
14
) Lo stesso autore afferma, quasi preconizzando certe “distorsioni” sempre più frequenti del
sistema, che “solitamente un uomo d’affari, quando viola le leggi che regolano il suo ramo d’attività,
non vede compromessa la propria reputazione tra i colleghi. Ci sarà qualcuno che avrà meno stima di
lui, ma anche molti altri che lo ammireranno per quello che ha fatto”.
(
15
) SUTHERLAND, ibidem cit. p. 292.
(
16
) SUTHERLAND, ibidem cit. pp. 293-295; merita solo un accenno la considerazione che, secondo
l’A., i c.d. “ladri professionali” sono coloro i quali si rendono responsabili di burglary, robbery,
larceny, etc; tutte fattispecie tipicamente patrimoniali che in passato venivano fatte rientrare sotto la
latissima accezione di reati contro l’ “οικονοµία”.
10
l’altrettanto carente disapprovazione sociale sono profili che ricorreranno
perennemente nell’indagine circa la criminalità economica e sui quali si
avrà ampiamente modo di ritornare. E’ solo il caso di sottolineare come
l’opera “White Collar Crime”, pur relativa ad aspetti più prettamente
criminologici, ha indicato anche ai legislatori nazionali, a partire dalla
seconda metà del ‘900, una “strada” da percorrere sia (preliminarmente)
per una piena comprensione del fenomeno della c.d. “criminalità
economica” sia, e in particolar modo, in un’ottica preventiva e repressiva
finalmente efficace.
2 – Dal dopoguerra a oggi, tra legge e società
2.1 Uno dei momenti essenziali dell’evoluzione del diritto in Italia è
dato, ovviamente, dall’entrata in vigore, nel 1948, della Costituzione
Repubblicana; ciò rileva anche in materia di criminalità economica ma in
una misura, almeno a prima vista e nei primi anni di vigenza della Carta,
inferiore rispetto ad altri ambiti. Occorre tuttavia appena accennare al
fatto che talune scelte del legislatore del ’48 determineranno l’affacciarsi
di questioni spinose, che nei decenni successivi costituiranno un duro
banco di prova in tema di normazione nel campo del diritto penale
dell’economia; il riferimento è, in primo luogo, all’art. 27 comma 1 sulla
“personalità” della responsabilità penale e, in secondo luogo, a quel