pioneristici di Mundell (4), Mc Kinnon (5), Keenen (6). Almeno riguardo alla parte
essenzialmente teorica di questo lavoro.
Non si è tralasciato, cosa di notevole importanza alla luce dell’avvenuta
unificazione monetaria europea, vedere se il dibattito sulle aree valutarie ottime
abbia portato ad un risvolto pratico.
Se si può parlare attualmente dell’esistenza di aree valutarie ottime e se
c’è da attendersi in futuro, più o meno immediato, di potere osservare un mondo
diviso per grandi aree in grado di portare il sistema internazionale a trovare un
maggiore equilibrio.
Quell’equilibrio che le massime autorità economiche e politiche dei governi
del mondo stanno cercando con ansia di ritrovare dalla ormai lontana e storica
data del 17 agosto ’71 quando con poche, secche, parole l’allora presidente degli
Stati Uniti, Richard Nixon, decretò a seguito di vicende monetarie sulle quali tanto
si è scritto la sospensione della convertibilità dollaro-oro e al tempo stesso il
definitivo affossamento del sino allora vigente sistema monetario internazionale.
(1) MUNDELL R.A. A Theory of Optimum Currency Areas, in “American economic
review”, sett.61, pp. 657-665 vol. LI N. 4.
(2) MC KINNON R.I. Optimum Currency Areas, in “American economic review”,
sett.63, N. 4 vol. LIII, pp. 717-775.
(3) KEENEN P.B. The Theory of Optimum Currency Areas: an Ecletic View, in
“Monetary problems of the internazional economy”, a cura di R. Mundell e
A.K. Svoboda, Chigago universitary Press, Chigago, pp. 45-60.
(4) MUNDELL R.A. – op. cit.
(5) MC KINNON R.I. – op. cit.
(6) KEENEN P.B. – op. cit.
CAPITOLO I
ORIGINE E SUCCESSIVI CONTRIBUTI DELLA
TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI
CAPITOLO I
ORIGINE E SUCCESSIVI CONTRIBUTI DELLA
TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI
1.1. – Il Contributo Pionieristico di Mundell.
“E’ del tutto ovvio che le crisi periodiche della bilancia dei pagamenti
rimarranno un aspetto tipico del sistema economico internazionale finchè la fissità
dei tassi di cambio e la rigidità, dei livelli dei salari e dei prezzi impediscono al
sistema internazionale dei prezzi di svolgere un ruolo naturale nel processo di
aggiustamento (1).
Così osservava, in apertura al suo articolo pubblicato nel ‘61sull’”American
economic review”, Mundell che aggiungeva come fosse più facile impostare il
problema e criticare le alternative di quanto non sia l’offrire suggerimenti
costruttivi e realizzabili per eliminare un sistema di squilibrio internazionale”.
Ed è ciò che Mundell illustra nel suo saggio mettendo in guardia
dall’adottare l’alternativa che, in determinati casi, sembra la più plausibile quella
di “un sistema di divise nazionali legate da tassi di cambio flessibili”.
“Un sistema di cambi flessibili – spiega il Mundell – è di solito presentato
dai suoi sostenitori (2) come un mezzo attraverso il qua le la svalutazione può
prendere il posto della disoccupazione quando la bilancia estera è in deficit e la
rivalutazione può sostituire l’inflazione quando la bilancia è in avanzo. Ma allora
nasce la domanda se tutte le divise nazionali esistenti dovrebbero essere
flessibili…” (3).
Per Mundell il problema può essere impostato in modo più generale e
chiaro definendo un’area monetaria (valutaria) come una regione “all’interno della
quale i tassi di cambio sono fissi e chiedendosi: qual è la regione appropriata per
un’area monetaria? (4).
Problema puramente accademico considerata la difficoltà ad immaginare
che sia politicamente possibile che le divise nazionali vengano mai abbandonate
in favore di qualunque altro accordo?
Mundell fa a se stesso quest’obiezione e si da tre risposte:
1) In certe parti del mondo si stanno realizzando processi di integrazione o di
separazione economica, si fanno nuovi esperimenti, per cui un concetto di
area monetaria ottimale può chiarire il significato di tali esperienze.
2) Questi paesi, come il Canadà, che hanno provato i cambi flessibili,
probabilmente devono affrontare dei problemi particolari che la teoria delle
aree monetarie ottimali può chiarire, se l’area monetaria non coincide con
quella ottimale.
3) L’idea può essere usata per illustrare certe funzioni delle divise che sono
state considerate in modo inadeguato nella letteratura economica e talvolta
trascurate nell’esame dei problemi di politica economica.
Il saggio Mundelliano prosegue illustrando l’importante differenza tra
l’aggiustamento all’interno di un’area monetaria che ha più monete; ovvero la
differenza tra l’aggiustamento interregionale e quello internazionale anche se in
quest’ultimo caso i tassi di cambio sono fissi. (5)
“Consideriamo un semplice modello di due entità (regioni o paesi)
inizialmente in piena occupazione e con bilancia dei pagamenti in equilibrio –
spiega Mundell – e vediamo che cosa accade quando tale equilibrio è disturbato
da uno spostamento della domanda dai beni dell’entità B a quelli dell’entità A.
Supponiamo che i salari monetari e i prezzi non possano diminuire nel breve
periodo senza che si generi disoccupazione, e che le autorità monetarie
agiscano in modo da impedire l’inflazione.
Facciamo dapprima l’ipotesi che le entità siano paesi con monete
nazionali. Lo spostamento di domanda da B ad A genera disoccupazione in B e
pressione inflazionistica in A. Nella misura in cui i prezzi vengono lasciati
aumenta re in A, la variazione della ragione di scambio solleverò in parte B dal
peso dell’aggiustamento. Ma, se A restringe il credito per impedire ai prezzi di
aumentare, tutto il peso dell’aggiustamento è rovesciato sul paese B; è
necessaria una riduzione del reddito reale di B e questa, se non può essere
ottenuta attraverso una variazione della ragione di scambio (perché B non può
abbassare e A non vuol fare aumentare i prezzi), deve essere realizzata
attraverso una diminuzione della produzione e dell’occupazione di B. La politica
dei paesi in avanzo, consistente nel diminuire i prezzi, quindi imprime una
tendenza recessiva alla economia mondiale basata su un sistema di cambi fissi o
(più in generale) ad un’area monetaria con molte divise distinte.
Confrontiamo questa situazione con quella in cui le entità sono regioni all’interno
di una economia che usa un’unica moneta e supponiamo che il governo
nazionale persegua una politica in piena occupazione. Lo spostamento di
domanda da B ad A genera disoccupazione nella regione B e pressione
inflazionistica in A e un avanzo nella bilancia dei pagamenti di A. Per eliminare la
disoccupazione in B le autorità monetarie accrescono l’offerta di moneta.
L’espansione monetaria tuttavia aggrava la pressione inflazionistica nella regione
A: in realtà la via principale attraverso la quale la politica monetaria ha effetto nel
ridurre il pieno impiego nella regione in deficit consiste nel far crescere i prezzi in
quella in surplus, modificando la ragione di scambio a danno di B. Così la piena
occupazione imprime una tendenza inflazionistica all’economia multiregionale o
(più in generale) ad un’area monetaria che adotta un’unica divisa.
In un’area monetaria che comprende diversi paesi con monete nazionali il
livello dell’occupazione nei paesi in deficit è determinato dalla disponibilità di
quelli in surplus a svolgere una politica inflazionistica. Ma in un’area monetaria
che comprende molte regioni e un’unica moneta il ritmo di inflazione è
determinato dalla disponibilità delle autorità centrali a permettere che vi sia
disoccupazione nelle regioni in deficit.
I due sistemi potrebbero essere riavvicinati attraverso un mutamento di
carattere istituzionale: la disoccupazione potrebbe essere evitata nell’economia
mondiale se le banche centrali si mettessero d’accordo sul fatto che il peso
dell’aggiustamento internazionale dovrebbe cadere sui paesi in avanzo, i quali
dovrebbero perseguire una politica inflazionistica finchè non venisse eliminata la
disoccupazione in quelli in deficit; oppure potrebbe essere istituita una banca
centrale mondiale con il potere di creare uno strumento internazionale di
pagamento. Però un’area monetaria di qualsivoglia dei due tipi non può eliminare
si la disoccupazione si all’inflazione tra i suo membri. Il difetto non sta nel tipo di
area monetaria, ma nell’estensione della stessa. L’area monetaria “ottimale” non
è il mondo: l’ottimalità è qui definita in termini della capacità di stabilizzare
l’occupazione nazionale e i livelli dei prezzi.
A questo punto Mundell passa a trattare sulle divise nazionali e sui tassi di
cambio flessibili.
“L’esistenza di più di un’area monetaria nel mondo implica – scrive
Mundell – tassi di cambio variabili. Nell’esempio della teoria del commercio
internazionale, se la domanda si sposta dai prodotti del paese B a quelli di A, una
svalutazione da parte di B o una rivalutazione da parte di A correggerebbe lo
squilibrio esterno, alleggerirebbe la disoccupazione in B e diminuirebbe
l’inflazione in A”. (6)
E’ questo il caso in cui è più opportuna l’introduzione di tassi flessibili
basati su monete nazionali.
Altri esempi potrebbero tuttavia essere secondo Mundell ugualmente
rilevanti.
L’economista suppone che il mondo sia costituito da due paesi, il Canadà
e gli Stati Uniti, ciascuno dei quali ha una propria moneta. Suppone che il
continente sia diviso in due regioni che non corrispondono alle entità nazionali
(l’Est che produce ad esempio automobili e l’Ovest che produce ad esempio
prodotti in legno). Per provare l’argomentazione a favore dei cambi flessibili in
questo esempio suppone che il dollaro statunitense fluttui rispetto a quello
canadese, e che un aumento nella produttività (ad esempio) dell’industria
automobilistica determini un eccesso di domanda di prodotti in legno e un
eccesso di offerta di automobili.
L’effetto immediato dello spostamento della domanda consiste nel causare
disoccupazione nell’Est e pressione inflazionistica nell’Ovest, e un flusso di
riserve bancarie dall’Est all’Ovest a causa del deficit nella bilancia dei pagamenti
regionali della prima zona. Per diminuire la disoccupazione nell’Est le banche
centrali in entrambi i paesi dovrebbero espandere l’offerta di moneta nazionale o,
per frenare l’inflazione nell’Ovest, dovrebbero contrarre la stessa. (Nel frattempo
il tasso di cambio tra Canadà e Stati Uniti si muoverebbe in modo da preservare
l’equilibrio nelle bilance dei pagamenti nazionali). In tal modo la disoccupazione
può essere eliminata in entrambi i paesi, ma solo a spese della inflazione,
oppure quest’ultima può essere frenata in entrambi i paesi, ma a spese della
disoccupazione, o infine il peso dell’aggiustamento può essere diviso tra Est e
ovest in modo che vi sia un po’ di disoccupazione nella prima regione e un po’ di
inflazione nella seconda. Però la disoccupazione e l’inflazione non possono
essere entrambi evitate.
Il sistema dei cambi flessibili non serve a correggere la situazione della
bilancia dei pagamenti tra le due regioni (che è il problema essenziale), sebbene
corregga tale situazione tra i due paesi; esso non è pertanto necessariamente
preferibile a un sistema basato sull’uso di un’unica moneta o ad uno di divise
nazionali legate da tassi di cambio fissi.
Un esempio che non annulla l’argomentazione in favore dei cambi
flessibili, ma potrebbe – secondo Mundell – notevolmente indebolirne la rilevanza
se viene applicato alle monete nazionali. La logica dell’argomento in effetti può
essere salvata se le monete nazionali vengono abbandonate in favore di monete
regionali.
Per esaminare ciò, “supponiamo che il “mondo” riorganizzi le monete in
modo che i dollari dell’Est e dell’Ovest sostituiscano quelli canadesi e
statunitensi. Se il tasso di cambio tra Est e Ovest fosse tenuto fisso, nascerebbe
un dilemma simile a quello esaminato nel primo paragrafo. Ma, se tale tasso
fosse flessibile, un eccesso di domanda di prodotti in legno non causerebbe
necessariamente né inflazione né disoccupazione in nessuna delle due regioni. Il
dollaro occidentale si svaluta rispetto a quello orientale garantendo così
l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, mentre le banche centrali dell’Est e
dell’Ovest adottano delle politiche monetarie che assicurano la costanza della
domanda effettiva in termini delle divise regionali e perciò prezzo ed occupazione
stabili” . (7)
Lo stesso argomento – secondo Mundell – potrebbe essere affrontate da
un altro punto di vista.
Originariamente è stato proposto un sistema di cambi flessibili come
alternativa al meccanismo di quello aureo, che molti economisti ritenevano
responsabile della diffusione mondiale della depressione dopo il 1929.Se però le
accuse contro il sistema aureo erano giuste, perché una simile accusa non
dovrebbe valere contro un sistema basato sull’uso di un’unica moneta in un
paese con molte regioni? In regime aureola depressione in un paese verrebbe
trasmessa attraverso il moltiplicatore del commercio internazionale ai paesi
stranieri. Analogamente in un sistema con una sola moneta la depressione in
un’unica regione verrebbe trasmessa alle altre esattamente per gli stessi motivi.
Se il sistema aureo imponeva una dura disciplina alla economia nazionale e
determinava la trasmissione delle fluttuazioni economiche, uno basato su
un’unica moneta avrebbe gli stessi difetti; i problemi di bilancia dei pagamenti
interregionali sono invisibili, per così dire, perché non vi è possibilità di sfuggire
agli effetti di autoaggiustamento dei flussi monetari interregionali.
Oggi, se l’argomento in favore dei cambi flessibili è forte, esso è, da un
punto di vista logico un argomento in favore dei tassi di cambio flessibili basati su
monete regionali, non su monete nazionali.
Infatti l’area monetaria ottimale è la regione.
La teoria del commercio internazionale è stata sviluppata aggiunge nella
sua opera Mundell sulla base dell’ipotesi ricardiana che i fattori di produzione
sono mobili all’interno, ma non mobili internazionalmente. Tuttavia Williams, Ohil,
Iversen ed altri autori hanno sostenuto che questa ipotesi non è valida e hanno
mostrato come il suo abbandono influenzerebbe la teoria del commercio
internazionale (8). Io ho tentato di dimostrare che il suo abbandono ha
conseguenze importanti anche per la teoria monetaria del commercio
internazionale e specialmente per quella dei cambio flessibili. L’argomento in
favore di cambi flessibili basati su monete nazionali è valido solo finchè è valida
l’ipotesi ricardiana relativa alla mobilità dei fattori (9). Se quest’ultima è alta
all’interno e bassa internazionalmente, un sistema di tassi di cambio flessibili
basato su monete nazionali potrebbe funzionare bene. Ma se le regioni non
coincidono con la nazione, nel senso che una regione è costituita da un territori
appartenente a più nazioni o che le nazioni sono costituite ciascuna da più
regioni, l’argomento in favore dei cambi flessibili rimane valido solo se i sistemi
monetari sono riorganizzati su base regionale.
Nel mondo reale naturalmente le monete sono essenzialmente
un’espressione di sovranità nazionale, per cui una riorganizzazione effettiva dei
sistemi monetari sarebbe possibile solo se venisse affiancata da profondi
mutamenti politici.
Il concetto di area monetaria ottimale pertanto è in pratica applicabile solo
a quelle aree in cui l’organizzazione politica è allo stato fluido come nelle regioni
ex-coloniali e all’Europa occidentale.
In quest’ultima regione la creazione del Mercato Comune è considerata da
molti come un passo importante verso l’obiettivo dell’unificazione politica e il
problema dell’istituzione di una moneta unica per i sei paesi è stato ampiamente
discusso. Si può ricordare la ben nota posizione di Meade il quale sostiene che le
condizioni per l’adozione di una moneta unica nell’Europa occidentale non
esistono e che, specialmente a causa dell’insufficiente mobilità della
manodopera, un sistema di cambi flessibili sarebbe più efficace nel mantenere
l’equilibrio nella bilancio dei pagamenti e la stabilità interna. D’altra parte vi è il
punto di vista, apparentemente opposto, di Scitovsky il quale raccomanda
l’introduzione di un’unica moneta, poiché ritiene che essa genererebbe un alto
grado di mobilità dei capitali, ma aggiunge che dovrebbero essere prese delle
misure per accrescere la mobilità della manodopera e rendere più facili delle
politiche occupazionali sovranazionali.
Usando la nostra terminologia, Meade appoggia le aree monetarie
nazionali, mentre Scitovsky dà un’approvazione, con delle precisazioni
aggiuntive, all’idea dell’istituzione di una moneta unica nell’Europa occidentale.
Il concetto di area monetaria ottimale ci aiuta a vedere che, nonostante il
contrasto apparente tra i due punti di vista, il conflitto si riduce ad una questione
empirica piuttosto che teorica. In entrambi gli autori è implicita l’idea che un
elemento essenziale di un’area in cui vi sia una sola moneta è un’ampia mobilità
dei fattori all’interno di essa; però Meade ritiene che la necessaria mobilità dei
fattori non esista, mentre Scitovsky sostiene che la mobilità del lavoro dev’essere
accresciuta e che la creazione di una moneta unita stimolerebbe, di per se
stessa, la mobilità dei capitali. In altre parole nessuno dei due autori mette in
dubbio che l’area monetaria ottimale sia la regione (definita in termini di mobilità
dei fattori all’interno e di assenza di mobilità di questi verso l’esterno), ma essi
hanno implicitamente diversi punti di vista riguardo al grado preciso di mobilità
necessario per determinare l’estensione di una regione.
Pertanto il problema si riduce ad accertare se l’Europa occidentale può
essere considerata un’unica regione, oppure no, e questo è essenzialmente un
problema empirico.
Ora nasce un dilemma: - si chiede Mundell – è più utile considerare la
mobilità dei fattori come un concetto relativo piuttosto che assoluto, con
dimensioni sia geografiche che industriali, ed è probabile che tale concetto muti
nel tempo con le variazioni delle condizioni politiche ed economiche. Allora, se gli
obiettivi di stabilità interna devono essere perseguiti in modo rigido, quanto
maggiore sarà il numero delle aree monetarie separate nel mondo, tanto più tali
obiettivi saranno raggiunti (assumendo, come sempre, che l’argomentazione
fondamentale in favore dei cambi flessibili sia di per sé valida). Ma ciò sembra
implicare che le regioni dovrebbero essere definite in modo così ristretto che
ciascuna minima sacca di disoccupazione dovuta ad assenza di mobilità della
manodopera dovrebbe essere considerata come una regione distinta, e ciascuna
di queste dovrebbe avere una moneta distinta! Una tale affermazione difficilmente
può essere accettata sulla base del buonsenso.
La conclusione riflette il fatto che finora noi abbiamo preso in
considerazione i motivi per tenere piccole le aree monetarie, ma non i motivi per
mantenere e accrescere la loro dimensione. In altri termini abbiamo esaminato
solo il problema della stabilizzazione, al cui fine è preferibile avere molte aree
monetarie ma non abbiamo considerato i costi crescenti che nascono
dall’esistenza di tale elevato numero di aree.
Vi sono due altri elementi contro la creazione di numerose aree monetarie. “In
primo luogo i mercati valutari non devono essere così ristretti che un singolo
speculatore (forse eccettuando le banche centrali) possa influenzare il presso di
mercato; altrimenti l’argomento relativo alla speculazione contrario ai cambi
flessibili assumerebbe un peso notevole. L’altro argomento contro la
“balcanizzazione” riguarda il pilastro su cui poggia l’argomento in favore dei
cambi flessibili. La tesi di coloro che sostengono questi ultimi afferma chela
nazione considerata non è disposta ad accettare una variazione del suo reddito
reale attraverso mutamenti nel tasso di salario monetario o nei livelli dei prezzi,
ma che è disposta ad accettare le stesse variazioni nel suo reddito attraverso una
modificazione del tasso di cambio. In altre parole essi assumono che i sindacati
guardano al salario monetario piuttosto che a quello reale e che, se essi
modificano le richieste salariali in funzione di variazioni nel costo della vita, lo
fanno solo se l’indice del costo della vita non comprende le importazioni. Man
mano che l’area monetaria diviene più piccola e la percentuale di consumo totale
costituita da importazioni cresce, questa ipotesi diviene sempre meno plausibile.
Può non essere irrealistico supporre che vi sia un qualche grado di
illusione monetaria nel processo di contrattazione tra i sindacati e gli industriali (o
frizioni e ritardi che producono gli stessi effetti), ma è certamente irrealistico
assumere che un altissimo grado d’illusione monetaria esista in piccole aree
monetarie. Poiché il grado illusione necessario diviene tanto più grande quanto
più piccolo sono le aree monetarie, è plausibile concludere che tale aumento
pone un limite superiore al numero desiderabile di queste.
Analizzando gli aspetti della mobilità nel più lungo periodo supponiamo
che tra le varie zone di un’area monetaria la mobilità dei fattori sia di tipo
determinato nel senso di un movimento a senso unico di lavoro di capitale da una
zona all’altra. Andamento che in pratica si è potuto osservare in alcuni paesi.
Le implicazioni nel lungo periodo potrebbero risultare inaccettabili. Poiché
lo sviluppo industriale non può essere perseguito in ogni zona le politiche di
sviluppo dovrebbero essere adottate alle esigenze delle aree più vaste in modo
da disporre di una scelta tra localizzazioni industriali più o meno convenienti.
Ma sarebbe poco “realistico valutare l’attitudine di alcuni paesi a formare
una unione monetaria basandosi su un meccanismo che potrebbe spogliare
vaste regioni di popolazione e capitali spingendole verso una stadio di economie
in declino. (10) Il processo può spingersi molto lontano in quanto i differenti saggi
di crescita tendono a perpetuarsi. Possono sorgere per mutamenti accidentali e a
meno che “tali mutamenti non siano annullati dal corso degli eventi può essere
causa di abbandono dei capitali da regioni in cui sarebbero necessari ”.
Nella teoria sullo sviluppo regionale cumulativo di Myrdal non si può fare
affidamento solo sull’effetto dell’espansione proveniente dai poli di sviluppo al fine
di neutralizzare l’effetto di riflusso tendente ad accrescere le disuguaglianze
regionali.
“Per se stessi le migrazioni, i movimenti di capitale, il commercio sono il
mezzo attraverso cui si svolge il processo cumulativo in senso ascendente nelle
regioni fortunate i discendente in quelle sfortunate” (11)
Inoltre le economie esterne di cui una localizzazione industriale dispone
sembrano essere sopravvalutate dagli imprenditori.
Se si considera in un contesto economico l’efficienza dell’impiego delle
risorse in cui quantità e disponibilità dei fattori produttivi non sono più date ma
mutano allo stesso modo dell’efficienza dei processi produttivi, in cui viene tenuto
conto del sorgere di economie interne ed esterne, e si considerano le deviazioni
dei prezzi di mercato dei fattori e dei prodotti dai loro costi opportunità allora
hanno meno probabilità di verificarsi conflitti fra le direttive delle politiche di
sviluppo e quelle dell’efficienza.
Stesso discorso vale per le obiezioni contro provvedimenti che si risolvono
in una differenziazione nelle disponibilità e nel costo del credito. Sono
provvedimenti che influiscono sulla ripartizione delle risorse in un’area unificata
finendo per incidere sui benefici di una unione economico-monetaria. Obiezioni
che risulterebbero ancora meno giustificate se valutate in un contesto tecnico che
integri gli effetti dell’efficienza economica e di equità distributiva.
Data però la difficoltà di attribuire un valore a tali effetti che li renderebbe
commisurabili ai costi e ai benefici si è sempre evitato di affrontare questo
problema. Ma non si può continuare così e si ha la necessità come sosteneva
Meade (12) di uno strumento adatto a valutare gli aspetti dell’efficienza e
dell’equità dei cambiamenti economici. In altre parole si ha bisogno di una
funzione integrata di efficienza equità del benessere sociale allo scopo di potere
estendere le nozioni di costi e benefici agli svantaggi e vantaggi globali delle
politiche economiche. Si otterrebbe una nozione di “efficienza globale” con cui
misurare i benefici di politiche aventi ad obiettivo come l’equilibrato sviluppo
regionale.
Cosa che diventa più valida quando sono paesi diversi ad unire le loro
economie. Infatti se le economie nazionali rappresentano una combinazione
geograficamente concentrata di poli dinamici e di localizzazioni che dipendono
dai poli per il loro sviluppo vasti paesi tendono a comportarsi come se ciascuno di
essi fosse un’unica localizzazione industriale. Una distrazione dovuta al fatto che
ogni Stato sfrutta i propri poli a beneficio dei propri cittadini provocando ostacoli
allo sviluppo. (13) Per spiegare l’atteggiamento protezionistico di alcuni governi
Johnson ipotizza una “preferenza per la produzione industriale” invece di
assumere il benessere come dipendente dal consumo privato di beni e servizi
tipico della teoria del commercio internazionale e dell’economia del benessere. E
avverte che l’economista dovrebbe chiedersi se “la produzione industriale generi
gli attesi benefici economici. Di calcolare il costo produttivo del protezionismo e
se questo costo sia compensato dai benefici” (14)
La risposta dovrebbe essere differente nel caso di paesi che, nel processo
di formazione di una unione economica, volessero assicurarsi una parte della
produzione industriale e nel caso grandi unità economiche, la cui influenza
economica non coincide con i confini politici, continuassero ad essere usate
“come strumenti di prosperità e armi per il potere dello Stato nazionale”. (15)
anche se la tendenza alla polarizzazione dell’attività economica non avesse effetti
negativi sull’unione nel suo complesso essa influenzerebbe favorevolmente gli
interessi di alcuni paesi membri e sfavorevolmente quelli di altri. Effetti che
difficilmente potrebbero essere trascurati. La tesi che fa derivare vantaggi
economici da politiche regionali tendenti a concentrare aumenti della domanda di
prodotti e manodopera in regioni ove quest’ultima sia sottoutilizzata presuppone
che la mobilità non possa eliminare la disoccupazione. E’ il caso di processi
produttivi assai diversi come intensità di lavoro.
Inoltre l’incremento della popolazione può più che compensare gli effetti
dell’emigrazione. Due elementi correlati. L’emigrazione netta può determinare
una sottoutilizzazione di capitali privati e sociali al punto da stimolare un più alto
tasso di natalità e ciò spiega l’esistenza di alcune aree di elevata mobilità e
persistente disoccupazione. L’ampiezza e velocità dei mutamenti della domanda,
della tecnologia, dell’organizzazione industriale possono superare gli effetti della
mobilità. Tutta questa analisi porta a concludere che è necessario tenere conto di
mobilità e immobilità indipendentemente dalle dimensione della area considerata.
Ai fini di una politica stabilizzatrice più utile sarebbe tenere conto del movimento e
della rigidità dei fattori piuttosto che basarsi sulla mobilità e scartare il fatto che
superi o meno un certo limite. Se il tasso di disoccupazione nell’area è funzione
anche della distribuzione geografica delle forze di lavoro sarebbero necessari
aumenti nella domanda differenziati in base alla localizzazione. La stessa
immobilità dei fattori potrebbe essere messa a profitto per attuare politiche
differenziate.
1.2 – Il Contributo di Mc Kinnon.
E’ un saggio questo di Mundell destinato a non rimanere isolato. Appena
due anni dopo un altro economista Statunitense Mc Kinnon (16), porta un suo
contributo al dibattito.
Sviluppando ulteriormente l’idea di ottimalità ed esaminando l’influenza
dell’apertura di una economia (cioè del rapporto tra beni commerciabili e beni non
commerciabili) sul problema della compatibilità fra equilibrio esterno ed equilibrio
interno; e sottolineerà il bisogno di stabilità del livello interno dei prezzi.
“Ottimo” è qui impiegato – spiega in apertura del suo saggio Mc Kinnon –
per descrivere un’area valutaria entro la quale l’uso della politica monetaria-