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problematiche ad esse inerenti; per quanto riguarda i Lupercalia, questi sono stati
contestualizzati in relazione al calendario arcaico, mediante l’inserimento nell’ambito
dei Parentalia di febbraio e il raffronto di questo con gli altri cicli festivi legati ai morti
e ai riti di fine d’anno.
Sempre nell’ambito della leggenda di fondazione riveste inoltre particolare importanza
il tema del brigantaggio, presente già nelle vicende di Caco e attribuito agli stessi
gemelli fondatori in gioventù (Eutropio). A questa tematica si collega l’istituzione
dell’asylum romuleo, dove potevano trovare scampo proscritti e servi fuggitivi, luogo
che, secondo Calpurnio Pisone, era sacro a Lucoris, che da una parte indica il dio del
bosco, dall’altra è identificato come dio lupo.
In base all’importanza della tematica relativa alle origini della città di Roma, si è
ritenuto doveroso delineare un panorama delle principali tendenze interpretative della
storiografia moderna, partendo da Niebuhr per arrivare alle teorie di Carandini,
mettendo in rilievo le considerazioni che, per logicità e giudizio (quasi) unanime della
ricerca storica, appaiono le più cogenti, ma anche sottolineando l’importanza della
documentazione archeologica, il cui incremento contribuisce indubbiamente al
progresso degli studi.
Successivamente alle fonti relative alla fondazione, si analizzano quelle relative alla
componente etnologica, che comprendono sia i prodigi e le credenze relativi al lupo, sia
le modalità e le motivazioni alla base della caccia di cui la fiera era ambito oggetto.
La documentazione archeologica analizzata comprende contesti topografici, selezionati
in base alle indicazioni delle fonti e le rappresentazioni relative alla lupa e al lupo,
selezionate in base all’antichità o a particolari non conformi con la saga canonica.
Tra i contesti analizzati sono la grotta del Lupercal, il percorso seguito dai luperci
durante la corsa dei Lupercalia, il Velabro, in quanto relativo ai culti di Acca Larenzia e
sfondo del racconto di Ovidio a proposito di Tacita e Mercurio, il bosco di Lucoris,
dove si tenevano i Lucaria (dal punto di vista calendariale connessi con il dies
Alliensis), che è stato riferito da Colonna al lucus di Laverna, dea dei ladri e dea
dell’oltretomba identificata da alcuni con Lara, che si trovava sulla Salaria.
Tra i materiali particolare interesse ai fini della ricerca riveste la Lupa Capitolina, per la
quale, grazie a una serie di analisi scientifiche relative al recente restauro, sono stati resi
disponibili nuovi dati. Questi sono stati interpretati nel corso della ricerca in maniera
originale e hanno contribuito a chiarire alcune fasi della realizzazione dell’opera, come
ad esempio l’utilizzo di un modello dal vivo, e a proporre un rialzamento della
cronologia di un quarto di secolo rispetto a quella tradizionalmente accettata, mettendo
in luce le incongruenze della datazione canonica di Matz, basata su confronti
contradditori, e analizzando le corrispondenze stilistiche alla luce della documentazione
storica e dei dati tecnici emersi nel corso del restauro. Altri materiali interessanti si sono
dimostrati il didramma romano-campano con lupa e gemelli, che costituisce la prima
rappresentazione del mito a carattere ufficiale, ma anche lo specchio prenestino da
Bolsena e l’affresco di Marco Fabio Secondo da Pompei, per l’insolita presenza del dio
Mercurio.
La seconda parte della ricerca è relativa alla comparazione.
Le difficoltà di sistemare in un insieme organico le attestazioni relative al lupo
provenienti dalle popolazioni in contatto con il mondo romano dall’VIII al I secolo a.C,.
riguardano sicuramente il gran numero di fonti e documentazione, ma soprattutto la
complessità del tema stesso, per cui le valenze attribuite di volta in volta al lupo,
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mitiche, religiose, rituali, non sono mai nettamente definite, ma solitamente sfumano
una nell’altra, rendendo oltremodo complicata una loro classificazione; è naturale però
che il corretto svolgimento del tema renda indispensabile il seguire un andamento per
quanto possibile schematico. Per questo motivo, ai fini di una maggiore conformità
metodologica, si è deciso di procedere per aree geografiche e per tematica, avendo
individuato tra le valenze a cui viene riferito il lupo almeno 5 aree tematiche principali,
qui di seguito riportate.
1. Tematica del capostipite ancestrale, in cui all’antenato capostipite di un popolo,
una città o simili, viene attribuito un collegamento, più o meno diretto con il lupo.
2. Tematica della lupa, in cui la componente femminile è vista soprattutto in
funzione di nutrice e/o di simbolo cittadino.
3. Tematica del demone lupo, in cui la figura del lupo è legata al mondo degli inferi;
si tratta di un fenomeno evidentissimo anche in ambiente greco e, sopratutto, etrusco. Il
lupo (e in particolari casi anche il cane) si qualifica così come essere ctonio, in tal senso
legato alla terra e, per estensione, a quanto la terra produce. In questo modo si crea un
legame quasi automatico tra mondo infero e forze che regolano (o impediscono) la
crescita dei prodotti della terra, passando a interessare contestualmente anche la sfera
della fecondità, con esiti particolarmente evidenti nell’ambito dei Lupercalia, e
riguardando più in generale il sovrapporsi della morte alla vita e viceversa (cosmogonia
germanica e celtica).
4. Tematica delle iniziazioni, in cui il lupo è presente a livello rituale; nei riti
iniziatici allontanare i giovani dalla propria comunità lasciandoli vivere di rapina ai
margini di questa, aveva lo scopo di far loro apprezzare il valore della vita civile.
5. Tematica dei banditi e i ladri, il cui modo di vivere è sovente riferito ai lupi, infatti
i banditi, i fuggitivi, gli esuli e i proscritti erano frequentemente paragonati a questi
animali.
La vita da lupi era dunque attribuita a tre diverse categorie e tre ambiti distinti, vale a
dire all’umanità “primordiale” in genere prima dell’istituzione della civiltà e delle leggi
(nel mito), ai giovani durante il periodo iniziatico (nel rito), ai briganti e ai fuorilegge
(nella realtà storica).
L’area analizzata più approfonditamente è sicuramente quella greca, dove è stata
ravvisata un’importanza notevolissima attribuita al lupo, compiutamente analizzata
negli studi di Mainoldi.
È l’Arcadia che fornisce con Licaone l’esempio prototipico dell’uomo-lupo capostipite.
Il mito è stato contestualizzato nell’ambito dei culti del monte Lykaios, in particolare
con i Lykaia e i sacrifici in onore di Zeus Lykaios, con i culti di Pan e di Hermes in
Parrasia, ravvisando le analogie emerse già in età antica con i Lupercalia.
La lupa come nutrice è un tema diffusissimo, a partire dal mito Latona in procinto di
partorire Apollo e Artemide, che sta alla base delle connessioni di Apollo con il lupo,
riscontrabili a Delfi, Argo, Delo e nella stessa Atene. Altri esempi di lupa che allatta
neonati sono contenuti nei racconti di Mileto, Cidone, Licasto e Parrasio, mentre tra le
connessioni più evidenti dei lupi con il mondo infero presso i Greci si possono
annoverare Mormolyke, la lupa considerata nutrice dell’Acheronte, e la
caratterizzazione di Ecate come lupa, in alternativa a quella tradizionale come cagna.
All’area del travestimento e delle iniziazioni sono collegabili rispettivamente il
personaggio di Dolone e pratiche quali la krypteia dei giovani lacedemoni, la cui
caratterizzazione come sgozzatori è stata riferita all’ambito del lupo; alcune attestazioni,
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sia nel mito che nella storia, provano anche come a questo animale venissero paragonati
assassini, banditi e ladri.
Per concludere, si delinea un quadro riassuntivo sulla figura del lupo nella letteratura
greca.
In Etruria, dove pure sono presenti il tema del capostipite, con riferimento ai Pelasgi (e
quindi collegamento con Licaone, di cui si conservano anche testimonianze
iconografiche), e il tema del fanciullo allattato da una lupa, nel caso della stele da
Bologna, il lupo si caratterizza soprattutto in rapporto alla demonologia: le maggiori
divinità dell’Oltretomba mostrano un chiaro collegamento con il lupo, ravvisabile in una
serie di attestazioni iconografiche, provenienti dalle pitture e dai rilievi funerari, nelle
quali l’equivalente etrusco di Hades e i demoni che popolano gli inferi sono raffigurati
come lupi, personaggi a testa di lupo o rivestiti dalle spoglie di un lupo. La progressiva
e graduale antropomorfizzazione testimonia l’originaria natura animale dei demoni.
Nell’area italica il lupo appare nella primitiva qualità di animale totem, come si osserva
nell’istituto del ver sacrum. Nella parte centro-meridionale della penisola questo
animale riveste un’importanza evidentissima, come caratterizzazione etnica ma anche a
livello religioso. Oltre al riferimento di Dauni, Enotri e Peucezi al mito di Licaone,
popoli che si caratterizzano come lupi sono i Lucani e gli Irpini. Dal punto di vista
religioso l’importanza del lupo e il suo rapporto con l’Apollo infero/Dispater è
innegabile nel santuario multiculturale del monte Soratte. Altro esempio di demone lupo
analizzato è quello relativo al cosiddetto eroe della città di Temesa, che come il culto di
Zeus Lykaios appare connesso alla celebrazione di sacrifici umani.
I caratteri di capostipite e di demone infernale si ritrovano fusi insieme nel Dispater
celtico, raffigurato, similmente all’esempio etrusco, come personaggio rivestito di una
pelle lupina. Nel pantheon germanico è presente un lupo mostruoso che divora gli dei e
gli astri, causando non solo la fine del mondo ma anche la sua rinascita: Duval ha
proposto di riconoscere la raffigurazione di questo mito cosmogonico in una moneta
celtica.
Altri esempi riguardano l’area balcanica, la Dacia, la Turchia, l’India, ma anche, benché
il lupo non vi sia attestato, ma probabilmente confuso dagli scrittori greci e romani con
lo sciacallo, l’Egitto: alcune identificazioni di divinità egizie, sebbene di età
relativamente tarda, possono fornire preziosi elementi per la ricerca, come nel caso di
Osiride, che secondo Diodoro risuscita in forma di lupo, e Anubi, divinità infernale con
testa di sciacallo, che è identificato con Mercurio.
Nell’ambito della fase di raccolta dei dati si è ritenuto indispensabile trattare anche i
principali temi relativi al cane per i seguenti motivi. Innanzitutto il lupo e il cane sono
prossimi geneticamente, infatti le razze canine sono, secondo recenti studi basati
sull’analisi del dna, il risultato della domesticazione dei lupi, mentre fino a qualche
decennio fa si credeva discendessero anche da altri canidi come sciacalli e iene. In
secondo luogo, cane e lupo costituiscono nell’immaginario collettivo una dicotomia
inscindibile, in quanto il primo rappresenta lo stato domestico, il secondo lo stato
selvaggio: tale contrapposizione, è testimoniata da una serie di indizi anche nel mondo
antico, almeno a partire da Platone. Infine, a prescindere dalla contrapposizione
concettuale tra cane e lupo, esiste un particolare ambito al quale entrambi gli animali si
riferiscono, cioè l’appartenenza alla sfera della morte e quindi la caratterizzazione di
animali infernali.
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Per quanto riguarda la terza parte, la fase di analisi, sono state seguite due vie, una in cui
i dati sono stati analizzati alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, l’altra, più
tradizionale, di esegesi storica, religiosa e archeologica.
Lo studio della biologia si è rivelato utile sotto tre punti di vista: etologico, morfologico,
fisiologico.
L’etologia è utile per valutare l’effettiva conoscenza dei comportamenti del lupo da
parte dei Romani, finalizzata alla corretta interpretazione e valutazione delle fonti: a
partire dalla descrizione del Lupercal, che presenta tutti gli elementi propri delle tane
prescelte dalle lupe per il parto, all’attribuzione di collegamenti con il silenzio (vedi la
credenza per cui chi veniva visto da un lupo diventava muto) e la rapina, propri della
modalità di caccia del lupo, per arrivare all’identificazione dei lupi con gli spiriti dei
defunti, dovute con tutta probabilità all’osservazione diretta dei comportamenti in fase
di caccia e dei ritmi circadiani (attività preponderanti nelle ore notturne, riposo nelle ore
diurne).
La morfologia rivela le caratteristiche fisiche, imprescindibili per l’analisi iconografica.
Sulla base delle caratteristiche individuate è stato per esempio possibile stabilire che
l’artefice della Lupa Capitolina ha con tutta probabilità realizzato l’opera seguendo un
modello dal vero, in particolare un lupo in vita del quale riproduce fedelmente e
puntualmente le sembianze (per quanto possibile in relazione alla sua tecnica artistica),
tranne per le mammelle esageratamente rigonfie, l’unico elemento che si discosta dalla
sostanziale organicità e naturalismo dell’opera, e che doveva presumibilmente veicolare
il messaggio iconologico richiesto dai committenti.
La fisiologia del periodo riproduttivo mostra importanti coincidenze con le ricorrenze
calendariali. La stagione dell’accoppiamento, che si verifica nella settimana compresa
nella seconda decade di febbraio (la stessa in cui la medicina antica poneva le
manifestazioni parossistiche di licantropia), coincide con i Parentalia, che hanno il loro
culmine nei Lupercalia. Questa osservazione spiega il legame tra Lupercalia e
fecondità, evidenziato dall’usanza delle matrone di esporsi alle frustate dei luperci per
garantirsi la gravidanza. La stagione del parto, che segue l’accoppiamento di poco più di
due mesi, verificandosi tra la seconda e la terza decade di aprile, coincide invece con il
ciclo festivo di aprile, dedicato appunto al parto e alle relative purificazioni.
L’interpretazione dei dati storici, archeologici e religiosi è sfociata in una serie di
considerazioni sulle divinità e i personaggi mitici analizzati in relazione alla saga di
fondazione.
È possibile affermare che la lupa è concepita come progenitrice e quindi come patrona
del mondo dei morti, come provano la presenza dei Lupercalia e dei Feralia di Lara-
Tacita nell’ambito dei Parentalia. Elemento fondamentale è la presenza di Mercurio
come paredro di Lara-Tacita, particolare riferito unicamente da Ovidio, che si riscontra
però anche in alcune testimonianze figurate (specchio prenestino da Bolsena, affresco di
M. Fabio Secondo) proponendo il problema dell’identità tra i Lares Praestites e i
gemelli fondatori, già postulata da Schwegler nel 1853 e in seguito da Cornell. La
presenza di Mercurio, considerata elemento di disturbo (inserito al posto di Marte per
Carandini), non può comunque essere riferita a una saga diversa da quella di fondazione
(come in Wiseman), per il fatto che nello specchio è presente l’allattamento dei gemelli
da parte della lupa. D’altra parte la figura di Mercurio ben si inscrive nel quadro
generale se consideriamo che le fonti parlano della presenza di Evandro sul Palatino e
del suo collegamento con i Lupercalia (Evandro era infatti figlio di Hermes) e
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dell’importanza di Fauno, lupo e capro, nell’ambito delle origini, dei Lupercalia e delle
primissime istituzioni religiose della città (basti pensare alle fonti su Numa). Fauno,
identificato con Pan, era infatti figlio di Hermes. Inoltre Fauna era identificata con
Maia, madre di Mercurio. Genealogie a parte, l’analisi dei dati e la comparazione con
gli omologhi greco, etrusco e celtico ha permesso di verificare che Mercurio non era
solo un dio del commercio (così come si specializza, forse già alla fine dell’età arcaica,
con la costruzione del tempio a lui dedicato), ma l’intemediario per eccellenza, colui
che teneva i rapporti tra dei superi e inferi e tra questi e i mortali, con caratteristiche di
eroe civilizzatore.
Sulla base di tali considerazioni e di specifiche testimonianze archeologiche, quali lo
specchio prenestino e l’affresco di M. Fabio Secondo, sembra quindi possibile proporre
l’esistenza di una versione precedente a quella canonica, secondo cui i progenitori dei
Romani sarebbero stati Marte e Ops (Rea Silvia), individuando in loro vece la coppia
Mercurio e Lara (o una sua omologa).
Lo sviluppo della ricerca ha richiesto per le diverse fasi di raccolta, elaborazione e
analisi dei dati un notevole impegno. Il principale ostacolo si è dimostrato il
reperimento materiale della bibliografia, reso difficoltoso sia dallo sterminato numero di
pubblicazioni, in particolare sulla saga delle origini, sia dall’impossibilità di frequentare
regolarmente le biblioteche romane dell’Istituto Germanico e dell’Ecole Française.
Infatti, non essendo titolare di borsa di studio, solo grazie ai fondi stanziati per le
missioni dei dottorandi è stato possibile effettuare alcuni brevi soggiorni a Roma, che
sono comunque stati sufficienti per la raccolta delle pubblicazioni più importanti. Uno
spiacevole inconveniente, il furto del computer, ha poi quasi vanificato il frutto del
primo anno di ricerca: sono andate perdute essenzialmente schede di fonti e bibliografia
e non tutto è stato recuperato nei due anni successivi (per questo non sono stati riportati
integralmente i testi antichi, in lingua e corredati di traduzione come si era pensato di
fare inizialmente, cosa che d’altra parte avrebbe ulteriormente appesantito il testo);
l’effetto di questa perdita è stato abbastanza demoralizzante, tanto che è stata ventilata
l’ipotesi di un cambiamento radicale della ricerca, ma dopo un periodo di stallo è
seguita un’attenta riflessione sulle modalità di approccio al tema, più oggettiva ma
anche più personale, che ritengo essersi dimostrata estremamente feconda. Una teoria in
particolare, il legame tra i lupi e la procreazione, che è stato possibile postulare solo
grazie alla ricerca “non convenzionale”, si è dimostrata in un certo senso valida ancora
oggi: così il periodo del dottorato, che si era aperto tra mille difficoltà e qualche
incidente di percorso, si chiude con gioia e nell’attesa di importanti scoperte.
Per concludere rivolgo un pensiero a coloro che mi hanno aiutato nelle varie fasi della
ricerca, senza citarli singolarmente per non dilungarmi troppo: le persone che hanno
contribuito dal punto di vista scientifico sono citate nel frontespizio, nel testo e nelle
note; a tutti gli altri un grandissimo grazie.
Alcune avvertenze per la lettura: il primo capitolo sul lupo come entità biologica è
decisamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe in una tesi di storia e archeologia
classica e risulta particolarmente ostico, ma la sua presenza è imprescindibile; la
bibliografia riporta solo i testi che sono stati utilizzati per la stesura del testo, perciò è da
intendersi esclusivamente come uno scioglimento delle abbreviazioni bibliografiche
citate nelle note, non come una bibliografia esaustiva dei vari argomenti sviluppati nella
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tesi; le datazioni riportate, quando non diversamente specificato, sono da intendersi
avanti Cristo.
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CONCLUSIONI
Lo svolgimento della ricerca sulle valenze del lupo nel mondo romano durante il
periodo arcaico e repubblicano si è rivelato fecondo per due ordini di motivi.
Innanzitutto, mediante un notevole lavoro di raccolta dei dati e analisi della bibliografia,
è stato possibile fornire un quadro organico della documentazione a disposizione,
considerando fonti storiche e archeologiche, sia topografiche che iconografiche. Tale
lavoro non ha riguardato il solo contesto romano, ma si è spinto ad indagare le
attribuzioni che caratterizzavano questo animale anche presso altre popolazioni, in
particolare nel mondo greco ed etrusco-italico. Da una prima analisi è insomma emersa
l’importanza del lupo nei contesti indoeuropei in generale, con l’individuazione di una
serie di tematiche preponderanti, come quella del lupo capostipite, della lupa nutrice,
del collegamento del lupo con l’Oltretomba, del paragone tra la vita dei lupi a quella
delle iniziazioni a livello rituale e a quella dei banditi a livello storico.
Di questa serie di valenze estremamente complesse, riguardanti mito, rito e cultura, si è
dimostrato necessario da una parte verificare la specificità del contesto romano,
dall’altra analizzare le numerosissime e spesso contrastanti interpretazioni degli studiosi
moderni. Infatti durante l’analisi della bibliografia è emerso come imperante un metodo
di ricerca spesso annebbiato da una serie di pregiudizi sul lupo. Tranne alcune rare
eccezioni, la maggioranza degli studiosi non si è minimamente preoccupata di riferire le
notizie delle fonti ai dati scientifici abbondantemente a disposizione per questo animale
grazie alle osservazioni degli zoologi. Un approfondimento su questa tematica, il lupo in
quanto Canis lupus, ha invece fornito la base su cui analizzare i dati emersi durante la
ricerca storica e archeologica, delineando un quadro preciso delle reali caratteristiche
dell’animale in questione, sgombro per quanto possibile da pregiudizi e stereotipi
inculcati in ciascuno di noi a partire dall’età infantile.
Personalmente ritengo quindi che la validità di questo lavoro risieda da una parte nella
notevole mole di dati raccolti e classificati, dall’altra nel particolare approccio alla
tematica, con l’utilizzo delle conoscenze zoologiche nella valutazione sia delle fonti
antiche che delle non sempre corrette affermazioni degli studiosi moderni.
Seguendo l’indice, passiamo dunque in rassegna le principali tematiche e interpretazioni
originali emerse nel corso della ricerca.
A livello di analisi delle fonti l’attestazione più importante della presenza del lupo nel
mondo romano è sicuramente la lupa, in alcuni autori nota con il nome di Luperca, che
salva prodigiosamente i gemelli pulendoli e allattandoli, ma anche la caratterizzazione
come tale della nutrice umana dei gemelli, la lupa Acca Larenzia, moglie del pastore
Faustolo. Nonostante questa sia le versione seguita dalla corrente che si potrebbe
definire razionalista, propugnata tra gli altri da Licinio Macro e Livio, è praticamente
impossibile che questa versione possa essersi affermata in epoca tarda: nessuno si
sarebbe permesso di introdurre nel mito delle origini di Roma una prostituta come
madre adottiva dei gemelli, se questo non fosse stato un elemento originario del
racconto. D’altra parte la caratterizzazione di Acca Larenzia come meretrice è evidente
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anche dalla sua descrizione in relazione al culto di Ercole in un episodio svolto secondo
le fonti sotto il regno di Anco Marcio, nel quale viene definita nobilissimum scortum: in
questo caso, come ha brillantemente dimostrato Coarelli, si tratta chiaramente
dell’adattamento dell’originaria versione indigena con la nutrice teriomorfa al contesto
emporico e fortemente influenzato dai culti di provenienza orientale del Foro Boario,
avvenuto tra il VII e il VI secolo, nel quale Acca, per effetto del sincretismo religioso, si
trasforma da lupa in ierodula. Resta comunque il fatto che la femmina di questo animale
passa, già in età arcaica, a indicare le prostitute, per quanto nobilissimae vista la loro
pertinenza in questo periodo ai contesti santuariali: ciò indica che già da questo periodo
le lupe vengono elette a rappresentare la componente sessuale femminile.
Nella celebrazione dei Lupercalia invece la caratterizzazione di luperci viene data ai
due gruppi di giovani aristocratici che sovrintendono alla cerimonia. In questo caso la
contestualizzazione della festa nell’ambito del calendario arcaico e in particolare nel
ciclo festivo di febbraio, consente di inquadrarla nei Parentalia, il novendiale dedicato
al culto degli antenati defunti. Emerge quindi l’attribuzione ai luperci di qualità
infernali, come se le schiere di giovani rappresentassero i defunti che in questa giornata
tornano nel mondo dei vivi. La valenza spiccatamente purificatoria che le fonti
ricordano per il 15 febbraio (dies februatum), rivolta sia alla città sia all’intera
popolazione, è materializzata dalle frustate che i luperci distribuiscono agli astanti, alle
quali le donne desiderose di prole si offrono volontariamente. Ci troviamo chiaramente
nel mezzo di un rituale che, attraverso la purificazione, favorisce la fecondità delle
donne, secondo la credenza presente in molte società antiche che il concepimento fosse
legato all’azione degli spiriti dei defunti. Questa componente, che da molti autori è stata
minimizzata a favore delle altre due, cioè la purificazione e l’azione degli spiriti dei
defunti, è invece a mio parere un aspetto fondamentale. Infatti, confrontando le date dei
Parentalia con la stagione di accoppiamento dei lupi, si scopre che, almeno in età
arcaica e nella prima età repubblicana, queste praticamente coincidono. Non solo, il
plenilunio di febbraio, che apre le celebrazioni con la festa di Fauno, è anche quello in
cui, secondo le fonti della medicina antica, si manifestavano le crisi di licantropia, una
forma di delirio che spesso nelle società antiche assumeva forme rituali. Inoltre la
coincidenza tra feste parentali e stagione dell’accoppiamento è confermata da una
seconda coincidenza tra calendario numano e fisiologia riproduttiva dei lupi: infatti le
date del parto delle lupe, che in età antica si sapevano già limitate a meno di due
settimane, in quanto erano messe in relazione con il viaggio di Latona verso Delo,
nascosta sotto le spoglie di una lupa per fuggire l’ira di Era, si verificavano tra la
seconda e la terza decade di aprile, esattamente quando a Roma si svolgeva il ciclo
festivo di aprile che, nelle sue manifestazioni principali, era dedicato al parto, e in cui
veniva celebrata non solo la nascita in generale ma la nascita della città stessa. È
universalmente riconosciuto che il calendario romano arcaico e le relative festività
fossero connesse con le stagioni e il corso naturale, ma a mio parere la correlazione così
specifica di due cicli festivi di estrema importanza, quali quelli di febbraio e aprile, con
le due principali fasi della fisiologia riproduttiva dei lupi, la stagione degli
accoppiamenti e quella del parto, può essere la spiegazione dell’importanza innegabile
attribuita ai lupi nella principale festa di febbraio, i Lupercalia, e della lupa nella
principale festa di aprile, i Parilia (da parere, partorire) del 21, ovvero il dies Natalis
della città.
L’analisi delle tematiche correlate ai Parentalia e alle origini di Roma ha condotto ad
approfondire culti e miti, come la presenza di Mercurio nel mito relativo ai Feralia di
Tacita, le caratteristiche di Fauno e il suo rapporto con il mito di Evandro e la gens dei
Fabi, fino a tematiche quali il ruolo di Remo e l’istituzione dei Lemuria e l’asylum
romuleo all’origine del popolamento della città. Molti fattori che emergono dimostrano
303
l’esistenza di elementi negativi nella saga delle origini (oltre alla nutrice lupa o
prostituta, l’uccisione di Remo e il popolamento della città ad opera di briganti,
assassini e proscritti), i quali, lungi dall’essere stati introdotti dalla propaganda
antiromana come postulato da Strasburger, si dimostrano al contrario come originari, e
quindi ineliminabili
L’analisi delle fonti relative agli episodi e alle credenze popolari sul lupo ha contribuito
a dimostrare appieno quanto emerso dall’interpretazione della leggenda delle origini e
dai Lupercalia. L’apparizione del lupo in contesti insoliti, come all’interno delle città, in
quanto emissario del mondo infero, è considerata un cattivo presagio; chi viene visto da
un lupo diventa muto (il silenzio è attribuzione degli dei inferi). In virtù di questa
essenza il lupo si rivela però anche agente di purificazione e di protezione: parti del lupo
come la sua testa o la sua pelle sono utilizzati in chiave apotropaica; dai suoi organi
interni, dalle sue ceneri e perfino dalle sue feci vengono ricavati preparati per la cura di
diverse malattie (ricordiamo il concetto secondo il quale la guarigione era intesa come
una purificazione del malato). Anche il collegamento con la sfera riproduttiva
femminile è evidente nelle credenze sul lupo, basti pensare al fegato di lupo che veniva
usato sia per la cura dei dolori vaginali, sia per indurre e favorire il parto,
somministrandolo sia alla partoriente che ai componenti della famiglia per tenere
lontano ogni influenza maligna.
Si può dire quindi che le credenze relative al lupo suffragano appieno quelle che sono le
attribuzioni religiose di questo animale, e al tempo stesso spiegano perché la caccia al
lupo fosse tanto sviluppata: più che eliminare il pericolo del predatore per le greggi e gli
armenti, lo scopo principale era certo procurarsi le pelli, i denti, le carni e le interiora, il
cui uso era sviluppato sia a scopo protettivo contro le influenze maligne che terapeutico.
Nel capitolo riservato all’analisi topografica è stato possibile osservare come il contesto
descritto con dovizia di particolari, riguardanti la riva limacciosa del fiume, l’antro nel
quale la lupa in questione aveva la sua tana, il Lupercal, la presenza di alberi tra i quali
la Ficus Ruminalis, rispondono perfettamente alla descrizione delle tane che le lupe
scelgono per il parto e l’allattamento dei cuccioli, solitamente cavità non troppo
profonde, nascoste nella boscaglia e presso corsi d’acqua, motivo per il quale è
estremamente possibile che, presso la piccola grotta alle pendici del Cermalo, fosse
effettivamente esisistita una tana di lupi, successivamente utilizzata come luogo di culto
e in relazione ai riti dei Lupercalia e quindi monumentalizzata.
L’analisi dei contesti topografici ha evidenziato l’esistenza di un serie di divinità
femminili che devono essere poste accanto a Fauno, Mercurio, Acca Larenzia-Lara
Tacita, già rivelate dalle fonti: tra queste le divinità del Velabro Angerona e Volupia,
una legata al silenzio di Lara-Tacita, l’altra alla voluptas, quindi da relazionare alla
caratterizzazione di Acca come prostituta; a queste si possono aggiungere dal contesto
aventino Bona Dea, identificata con Fauna, e Laverna, dea infera preposta alla
protezione dei ladri, il cui lucus si è ipotizzato essere in relazione all’asylum di
istituzione romulea, sulla base di un frammento di Calpurnio Pisone su Lucoris e
dell’identificazione di Colonna del bosco di Lucoris con quello di Laverna.
L’analisi dei materiali figurati ha messo in luce la probabile esistenza di elementi della
saga di fondazione noti già all’inizio del VII secolo, in particolare la contesa tra i
gemelli fondatori, che è stata riconosciuta da Carandini nella scena rappresentata sulla
fibula da Pontesodo.
Tra le innumerevoli informazioni sulla Lupa Capitolina sono stati elaborati soprattutto i
dati di carattere tecnico-scientifico relativi al restauro della statua effettuato per il
giubileo, i quali hanno dimostrato che l’opera, pur essendo stata esposta fin dal primo
304
periodo della sua realizzazione, è stata continuamente sottoposta ad un’assidua
manutenzione effettuata con oli e cere di lino, che hanno evitato l’insorgenza di
fenomeni degenerativi del metallo, il che significa che la statua era considerata un
importante simbolo e che probabilmente veicolava un determinato messaggio
ideologico. L’analisi archeometrica della terra di fusione prelevata dall’interno della
statua ha stabilito che il sedimento utilizzato proviene dalla zona tiberina, in un’area tra
Roma e Orvieto, motivo per i quali, insieme a Veio, nota per la scuola di Vulca, la
stessa Roma è il luogo più probabile di realizzazione della statua. L’esito dell’analisi
degli isotopi del piombo, secondo cui il metallo usato per fabbricare la statua proviene
dalle miniere sarde di Calabona, può essere messo in relazione con il primo trattato con
Cartagine del 509, nel quale le restrizioni imposte a Roma circa la Sardegna, possono
essere letti come tentativi per limitare la presenza di emissari romani effettivamente
presenti, e in modo percepito come eccessivamente invasivo su queste coste
dall’elemento punico, prima del suddetto trattato (e a questo periodo deve essere quindi
riferito l’approvvigionamento del metallo con il quale fu realizzata la statua).
La seconda fase dell’analisi dell’importante monumento si è soffermata sull’esame
morfologico. Gli studi precedenti in merito si dimostravano estremamente contradditori
sia a livello generale (qualche autore si soffermava sul naturalismo, qualche altro
sull’inorganicità) che scendendo nei dettagli: chi parlava di dimensioni più grandi del
vero, chi di struttura ossea pertinente più a un felino che a un lupo, chi di atteggiamento
minaccioso, chi di impossibilità di allattamento in quella posizione e così via. Un punto
sul quale gli studi si mostravano concordi era comunque la rilevanza delle mammelle,
che però non universalmente veniva riconosciuta come messaggio iconologico imposto
dalla committenza. Le contraddizioni emerse nell’analisi bibliografica hanno messo in
luce la necessità di prescindere dalle impressioni soggettive dei vari autori, e di
effettuare l’analisi morfologica con l’aiuto del soggetto reale, il lupo appenninico,
ovvero il Canis lupus italicus. In primo luogo si è vista la perfetta rispondenza delle
misure, sia della lunghezza sia al garrese, in conformità anche con il sesso femminile
dell’animale. In secondo luogo si è proceduto alla misurazione dell’angolo orbitale, che
viene utilizzato come criterio distintivo per riconoscere le ossa di lupo rispetto a quelle
di cane, e si è visto che il valore ottenuto rientra nei canoni dei lupi. La conformità della
statua al modello originario è emersa anche dalla sovrapposizione della struttura ossea
del cranio, nelle diverse angolazioni, alla testa della statua, che a parte trascurabili
dettagli, sono in sostanza compatibili. Si è quindi proceduto al confronto dei dettagli
anatomici, le orecchie, gli occhi, la disposizione del pelame (nelle zone dove questo è
più folto e scuro, come il collo e nel dorso, la differenza è segnata dal motivo a
ciocche), la gabbia toracica con il costato in evidenza, le vene correttamente disegnate
lungo le zampe, gli stessi piedi, nonostante non visibili perché usati come punto di
appoggio, si sono dimostrati perfettamente confrontabili con quelli dei lupi reali;
addirittura l’analisi dei denti, se escludiamo una discrepanza nella resa degli incisivi, ha
mostrato una perfetta rispondenza con la dentatura dell’animale, non solo nei singoli
elementi e nelle esatte proporzioni, ma perfino nelle cuspidi dei singoli denti e nei
diastemi tra un dente e l’altro! In tutta la statua si osserva quindi una particolare acribia
nel riprodurre fedelmente i più piccoli dettagli, perciò è possibile affermare che l’intento
dell’artista era di riprodurre naturalisticamente la fiera, e per raggiungere questo scopo
si è sicuramente servito di un modello dal vero, un lupo in vita, come dimostrano
particolari non osservabili nell’animale morto, come il particolare taglio degli occhi. La
presunta artificiosità o inorganicità invocata da alcuni deve quindi essere imputata alle
capacità del bronzista nella resa stilistica piuttosto che al modello stesso. Un’altra
annotazione riguarda le mammelle, l’unico dettaglio che non si conforma dal punto di
vista morfologico al modello reale, motivo per il quale si può affermare che in questo
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caso l’artista ha lavorato di fantasia, sicuramente per esprimere il messaggio
iconologico che i committenti volevano che fosse messo in particolare evidenza, cioè
l’allattamento. Anche la posizione della lupa, in piedi e non sdraiata, che è stata
invocata a detrimento di questo atteggiamento, o un suo presunto fare minaccioso, che
ugualmente non si conformerebbe all’atto dell’allattare, può essere smentito
dall’osservazione diretta dei comportamenti del lupo: infatti spesso le lupe allattano in
questa posizione, mentre l’atteggiamento di minaccia si esprime attraverso il
digrignamento dei denti, l’arricciamento del muso e la posizione obliqua delle orecchie,
elementi assolutamente non riscontrabili nella nostra statua, il cui atteggiamento deve
essere classificato come neutrale o semplice allerta.
La terza fase dell’analisi della Lupa Capitolina si è concentrata sulla datazione.
Purtroppo, a causa dei restauri subiti nell’età rinascimentale, è stato impossibile
determinare l’età della statua in base alle analisi della termoluminescenza e del
radiocarbonio, motivo per il quale la datazione stilistica resta l’unica accettabile. La
storia degli studi relativa alla cronologia della Lupa ha come spartiacque il 1951, anno
dell’articolo di Matz. Prima di questa data l’opera era datata, anche in base ai confronti
con le terrecotte veienti, alla fine del VI secolo. Matz propone una datazione al secondo
quarto del V secolo, basando il suo costrutto su una presunta derivazione dalle gronde
leonine del tempio di Himera. Questa datazione è incredibilmente accettata ancora oggi
nonostante si fondi su presupposti errati: allo stesso modello fa infatti risalire anche i
lacunaria tarquiniesi, che invece sono dell’ultimo terzo del VI secolo! In base ai
confronti più stringenti, quali gli stessi lacunaria, le protomi leonine e l’idria ceretana
catalogati da Duliére, è invece evidente che la datazione proposta nei primi studi relativi
alla lupa, la fine del VI secolo, è invece sicuramente la più accettabile. Se consideriamo
che le località di produzione più probabili sono Roma e Veio, è impossibile non pensare
alla tradizione di Vulca operante a Roma durante l’ultima fase del regno di Tarquinio il
Superbo, e riproporre sulla scia di Giglioli il nome dello scultore etrusco come artefice
della Lupa Capitolina. Il regno del tiranno infatti è noto per la realizzazione di opere
importanti, quali il compimento del tempio capitolino con il famoso fastigio costituito
dalla quadriga opera di Vulca, che poi viene rivendicato dal popolo mediante
l’inaugurazione dei primi consoli. Inoltre, sulla base del metallo usato per realizzare la
statua, anche se è vero che questo poteva essere tesaurizzato per lungo tempo prima di
essere utilizzato, quasi certamente è stato importato dalla Sardegna in un periodo
precedente al fatidico trattato, quindi, in questo senso, la provenienza del rame è un
ulteriore indizio che contribuisce ad un innalzamento della cronologia dell’opera alla
fine del VI secolo.
Tra gli altri materiali, se escludiamo i didrammi romano-campani, che sono la prima
attestazione della leggenda dei gemelli allattati dalla lupa in ambito ufficiale e sono già
stati da decenni messi in relazione con l’erezione o l’integrazione del simulacro
effettuata dagli Ogulni nel 296, con grande probabilità presso la Ficus Ruminalis del
Lupercal dove Dionigi ricorda l’esistenza di una statua di lupa di aspetto arcaico
(probabilmente la Lupa Capitolina, cui da questi magistrati furono aggiunti i gemelli,
non conservati), una particolare attenzione è stata dedicata all’analisi dello specchio
prenestino da Bolsena, che deve essere considerato un pezzo di effettiva fabbrica
prenestina della seconda metà del IV secolo, nonostante per molti decenni ci sia stato un
contenzioso sulla sua falsità. Sono state analizzate le varie interpretazioni, evidenziando
quella canonica, seguita in ultima analisi da Carandini, che riconosce nei bambini
allattati dalla fiera i gemelli Romolo e Remo, e quella di Wiseman, che in base alla
presenza di Mercurio identifica la donna con Tacita e i bambini con i Lares Praestites.
Queste differenti interpretazioni, lungi dall’essere inconciliabili come i secchi botta e
risposta tra i due autori farebbero pensare, in realtà possono essere tra loro
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complementari. Se infatti nell’interpretazione tradizionale appare difficilmente
spiegabile la presenza del dio Mercurio, quella di Wiseman ha il difetto di attribuire un
episodio che le fonti riferiscono unanimemente ai gemelli fondatori alla coppia dei lari.
In realtà la coppia dei Lares Praestites, come riconosciuto già da Schwegler e
riproposto da Cornell in anni relativamente più recenti, in quanto costituita dai gemelli,
protettori e antenati dei Romani, deve essere identificata con la coppia dei fondatori,
Romolo e Remo. La presenza di Mercurio, inequivocabilmente attestata anche su un
altro documento figurato, l’affresco di M. Fabio Secondo a Pompei, testimonia
evidentemente una versione della leggenda alternativa a quella canonica di età augustea
comprendente Rea Silvia e Marte, che trova un confronto con il racconto ovidiano di
Lara-Tacita che, subita la violenza di Mercurio, da alla luce i due Lari. D’altra parte
Lara è identificata con Acca Larenzia, che dei gemelli fondatori è la madre adottiva.
Quindi possiamo immaginare che accanto alla vulgata, già nel IV secolo, ancora in età
augustea e oltre, come attesta la pittura pompeiana, esistesse una versione alternativa
nella quale il dio progenitore dei Romani non veniva identificato con Marte, bensì con
Mercurio. Resta da stabilire, in base all’analisi della società romana delle origini, quale
possa essere la versione più antica.
Nell’analisi relativa all’asylum istituito da Romolo si è messo in luce come il primo
nucleo degli abitatori di Roma fosse costituito da un’accozzaglia di briganti della
peggiore specie. Per questo motivo, sulla base dell’analisi topografica, era stato
possibile immaginare che l’istituzione del culto di Laverna, dea infera dei ladri
identificata con Lara, potesse essere connessa a questo contesto. A ben vedere una
coppia Laverna-Lara/Mercurio, parrebbe più calzante in relazione al contesto delle
origini, vista la natura di ladri (anche di donne come mostra il ratto delle sabine) dei
primi Romani. È chiaro che in seguito questo carattere sia stato in qualche modo
rifiutato, basti vedere la ritrattazione di Dionigi d’Alicarnasso, il quale afferma che
nell’asylum erano stati accolti tutti coloro che fuggivano da regimi tirannici purché
liberi. Quindi, già con Fabio Pittore durante le guerre puniche e in seguito con la
sistemazione augustea, sembrò più adatta a un popolo che nel frattempo era diventato
più morigerato e con tendenze imperialiste, la discendenza da una vestale e dal dio della
guerra piuttosto che da una coppia di divinità protettrici dei ladri, del guadagno e
caratterizzate da attribuzioni infere come Mercurio e Laverna.