5
Così questa tesi si propone appunto di sviluppare un discorso concentrato su una delle
molteplici facce della produzione gilliamiana: la rappresentazione di alcuni personaggi
derivati da o legati alla tradizione fiabesca. L’attenzione verso questo particolare aspetto
nasce dall’idea che il regista sovente sia stato etichettato, troppo sbrigativamente ed
anche da chi ne apprezza il lavoro, come un artista visionario e poco più, un autore in
cui la dimensione visiva spesso soverchia la costruzione narrativa, facendo scivolare
quest’ultima in secondo piano, quasi a farne un mero veicolo della fervida
immaginazione di Gilliam. Non è mia intenzione contestare tout-court questa
affermazione, visto peraltro che non è completamente infondata; vorrei però richiamare
l’attenzione sul modo in cui il regista costruisce e gestisce alcuni suoi personaggi ed il
loro sviluppo narrativo, su come più volte essi si rivelino elementi, certo non marginali,
di un universo che Gilliam organizza con grande coerenza, riuscendo a tracciare discorsi
unitari tra i diversi film.
A questo scopo ritengo che un’analisi che poggi su basi semiotiche, con particolare
riferimento ai fondamenti di A.J. Greimas, possa proporre strumenti atti a raggiungere
l’obbiettivo. Uno sguardo sarà quindi rivolto alle istanze proprie della grammatica
narrativa di superficie (con l’esplicitazione di ruoli attanziali, programmi narrativi,
modalizzazioni), un altro alle strutture discorsive, pur tenendo presenti le difficoltà di
condurre in questa sede un’analisi esaustiva e puntuale dei motivi impiegati dall’autore
(da un lato per la vastità del materiale che diverrebbe a quel punto oggetto d’inventario,
dall’altro stante l’affermazione dello stesso Gilliam secondo la quale non c’è per forza
della sistematicità nel suo rifarsi a dei precedenti
5
). Non mancheranno ovviamente
alcuni cenni allo stile del regista e, più nello specifico, alla grammatica filmica, laddove
questa costituisca un elemento particolarmente significativo.
5
Da un dialogo tra Gilliam e lo scrivente in occasione di SciencePlusFiction 2006 (vedi appendice A).
6
1.2. PERSONAGGI DELLA FIABA: PERCHÉ E QUALI
L’attrazione di Gilliam per il fiabesco è fuori discussione: un film come I fratelli Grimm
e l’incantevole strega è anche un omaggio a questo genere e a due dei suoi maggiori
autori, senza contare che elementi a cavallo tra la fiaba ed il fantasy caratterizzano in
maniera netta buona parte della sua produzione, in special modo le prime opere. Non mi
pare dunque privo di fondamento il tentativo di abbracciare con lo sguardo alcuni
personaggi di un genere che ha tanto influenzato il regista. Semmai, il problema che
incontra chi si accinge ad un’operazione di questo tipo è l’individuazione, tra l’uno e
l’altro film, di personaggi in numero sufficiente e provvisti di caratteristiche tali da
permettere lo svolgimento di un discorso che sia il più possibile unitario e coerente.
Parlare di analisi dei personaggi in relazione al mondo fiabesco porta senz’altro
l’attenzione verso l’opera seminale di Vladimir Propp
6
, insufficiente però a risolvere il
problema di cui sopra. Il senso in cui egli usa il termine “personaggio” (distinguendo tra
eroe, antagonista, donatore, ecc., e rimanendo quindi al livello della grammatica di
superficie) e la relativa omogeneità del corpus cui il suo lavoro si riferisce, fanno sì che
non sia possibile limitarsi ad utilizzare l’opera dello studioso russo come base per
l’analisi di un universo ricco quanto quello gilliamiano. Già sopra avevo fatto cenno alla
semiotica discorsiva, che a questo punto rappresenta allora il primo criterio per
individuare i personaggi su cui mi concentrerò. In altre parole, la principale
discriminante utilizzata per riunire gli attori che presentano legami con la tradizione
fiabesca è quella legata alla loro caratterizzazione figurativa.
Un rapido inventario, che poi procederò a dettagliare, mette allora in evidenza due tipi
di figure che appaiono ricorrenti e/o importanti nella filmografia del regista statunitense:
quella del cavaliere e quella del re (ma qui sarebbe meglio parlare, come in effetti farò
in seguito, di figure di regnanti).
6
Cfr. Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 2000.
7
2. IL CAVALIERE
Innanzitutto, chi è il cavaliere? Di primo acchito la domanda potrebbe sembrare oziosa,
ma ad uno sguardo più attento ci si accorge che così non è. È facile riconoscere come
appartenenti alla categoria i combattenti a cavallo che si sfidano nel torneo medievale di
Jabberwocky; ma l’alter ego che Sam sogna in Brazil? Ed i fratelli Grimm nel film
omonimo? È legittimo inserire anch’essi nel novero dei cavalieri? La risposta non è
immediata, poiché in quasi tutte le pellicole di Gilliam compaiono vari elementi che
possono portare all’accostamento tra alcuni personaggi (sovente i protagonisti) e la
figura cavalleresca. A tal punto che Jordi Costa e Sergi Sanchez non esitano a mettere
Raoul Duke ed il dottor Gonzo (i protagonisti del viaggio lisergico nella Las Vegas del
1970 di Paura e delirio a Las Vegas) a fianco del Barone di Munchausen, definendoli
come «cavalieri erranti in pieno crepuscolo»
7
.
Di fronte a questi dubbi non mi pare allora fuori luogo proporre un’analisi del termine
/cavaliere/ inteso come lessema, sulla base del celebre esempio riportato da Greimas per
la parola /testa/
8
. Un buon vocabolario presenta le seguenti definizioni principali:
1) Chi va o viaggia a cavallo. Anticamente, guerriero a cavallo; eroe di gesta o
racconti cavallereschi.
2) Nell’antica Roma, appartenente all’ordine equestre…
3) Nel Medioevo, chi apparteneva alla cavalleria.
4) Uomo nobile e generoso; persona di modi cortesi, gentili, squisiti. Nei balli o in
società, chi fa coppia con una signora o signorina
9
.
Sembra esservi molta distanza tra le prime tre definizioni, che - prese da sole -
proporrebbero per il lessema dei semi nucleari quali /valore (in combattimento)/ e
/lignaggio/, e la quarta, che configura un personaggio apparentemente diverso ed il cui
seme figurativo sarà piuttosto /galanteria/. Eppure c’è un seme che è in realtà
riscontrabile in tutte queste definizioni, ed è quello di /nobiltà/. Questa considerazione
non mette al riparo dal rischio di ambiguità, giacché proprio la distanza tra le quattro
7
Jordi Costa e Sergi Sanchez, Terry Gilliam. El soñador rebelde, San Sebastián, Euskadiko Filmategia –
Filmoteca Vasca, 1998, p. 29 (trad. mia).
8
Cfr. Maria Pia Pozzato, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma, Carocci, 2001, pp. 103-104.
9
Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano,
Selezione dal Reader’s digest, 1987, vol. I, pp. 539-540.
8
virtualità di cui sopra rende evidente come vi siano almeno due tipi di nobiltà: uno che
vede il termine posto in relazione con una società del passato, dove generalmente un
determinato status sociale presumeva la conoscenza e l’esercizio delle armi; ed uno più
atemporale e sostanzialmente opposto. Infatti, posto un sintagma elementare del tipo S
∩ O, questa seconda accezione, posta in essere lontano dai campi di battaglia, prevede
la presenza di funzioni quali /sedurre/, /accompagnare/ o /servire/ in luogo di
/sconfiggere/ o /uccidere/ e (operando un salto al piano discorsivo) di un oggetto
all’interno del sintagma identificabile con un personaggio /femminile/ piuttosto che con
uno /maschile/.
La prima conseguenza di questo chiarimento è che esso permette di rispondere agli
interrogativi di apertura, consentendo di scremare le figure di cavaliere, così come le ho
appena definite, tra i vari personaggi che popolano i film di Gilliam. Ecco allora che,
solo per citare due esempi, sia il Dennis Cooper di Jabberwocky, che pure a fine film
ucciderà un mostro ed avrà in premio la mano della principessa e metà del regno, che i
fratelli Jakob e Wilhelm Grimm, che in I fratelli Grimm e l’incantevole strega finiscono
con lo sconfiggere la strega del titolo, non possono rientrare nello spettro di questa
analisi, in quanto i loro caratteri risultano privi dei tratti semici succitati. Si tratta,
utilizzando un’espressione certo non tecnica ma più immediata, di cavalieri “per forza”:
il primo, come si vedrà poi, realizza quello che, anche dal punto di vista degli
investimenti figurativi, è un programma narrativo canonico della narrazione fiabesca ma
non è il suo programma narrativo. Un discorso analogo vale per i secondi, una coppia di
ciarlatani costretti da minaccia mortale a sviluppare un programma (quello che si
realizza appunto con la morte della strega) di cui farebbero volentieri a meno. Al
contrario, rientra a pieno titolo nell’analisi il personaggio del Sam “onirico”: il suo
programma narrativo, infatti (teso alla liberazione della ragazza prigioniera), è
riconducibile da un lato al canone fiabesco, in virtù delle convocazioni figurative che lo
caratterizzano; dall’altro ad un soggetto che riassume in sé entrambe le accezioni del
termine /cavaliere/, giacché l’indubbia perizia con le armi dimostrata dal personaggio è
il mezzo per giungere ad un oggetto rappresentato da una figura femminile.
Di conseguenza, ecco di seguito (ordinati cronologicamente per film) i personaggi che,
incrociandone la caratterizzazione figurativa con la definizione lessematica di cavaliere
- e tenendo presenti gli stilemi della narrazione fiabesca -, saranno oggetto di questa
prima parte del mio lavoro:
9
1) Jabberwocky: i cavalieri che partecipano al torneo, quello che si arrampica in
cima alla torre della principessa per poi crollare di sotto mentre lei parla con
Dennis, quindi il campione scelto per sconfiggere il mostro ed il cavaliere nero
che gli si oppone;
2) I banditi del tempo: il cavaliere che all’inizio del film balza fuori dall’armadio
della stanza di Kevin;
3) Brazil: l’alter-ego onirico di Sam;
4) Le avventure del Barone di Munchausen: il barone;
5) La leggenda del re pescatore: il cavaliere rosso che appare a Parry.
10
2.1. JABBERWOCKY
2.1.1. Considerazioni preliminari su ironia e grottesco
Dopo la possibilità di verificare quali personaggi gilliamiani contengano i semi propri
della figura del cavaliere, l’analisi del lessema offre un ulteriore spunto, tale da
permettere un primo approccio a due registri costanti nell’opera del regista: l’ironia ed il
grottesco. Appare chiaro come le prime tre definizioni del termine /cavaliere/, e non a
caso quelle più direttamente collegabili al personaggio così come emerge dalla
tradizione fiabesca, lo situino in un particolare contesto, per lo meno temporale
(“anticamente”, “nell’antica Roma”, “nel Medioevo”). Queste connotazioni ci fanno
capire come automaticamente alla figura vengano associate, secondo il senso comune,
determinate configurazioni discorsive. A sua volta, ciò favorisce il sorgere di un
orizzonte d’attesa piuttosto preciso ogni volta che ci si trova di fronte ad un testo che
presenti figure cavalleresche.
Proprio il fatto che un simile personaggio rappresenti un patrimonio culturale
particolarmente condiviso e dai contorni così netti lo rende un bersaglio particolarmente
ghiotto per il regista. Prima che nel citato Monty Python and the Holy Grail, lo si può
riscontrare già all’inizio del sodalizio con i Monty Python: negli sketch del Flying
Circus, lo spettacolo televisivo realizzato tra il 1969 ed il 1974 per la BBC, proprio
Gilliam interpretava l’uomo in armatura medievale che censurava i personaggi più idioti
colpendoli alla testa con un pollo crudo
10
. Riprendendo il concetto di orizzonte di attesa,
è evidente come in quel caso il lato grottesco fosse dato dall’utilizzo di un oggetto
figurativamente non coerente con l’universo evocato dalla figura di riferimento (il
cavaliere).
Passando a Jabberwocky, primo film da “solista” nella carriera di Gilliam, è lo stesso
regista a fornire la propria interpretazione di grottesco ed ironia: «Sono due cose molto
diverse tra loro. Mi piace il grottesco perché è più estremo; mi piace essere un
cartoonist, il cartoonist realizza disegni grotteschi, ogni volta che disegni distorci, e
quando distorci crei questo senso del grottesco. E l’ironia è una cosa molto diversa…
L’unico dio in cui credo è il dio dell’ironia, perché questa è la vita: proprio mentre pensi
che stia andando da una parte, ecco che va dall’altra»
11
. Pare quindi di capire che per il
10
Cfr. Francesco Alò, Monty Python. La storia, gli spettacoli, i film, Torino, Lindau, 2004, pp. 106-107.
11
Da un dialogo tra Gilliam e lo scrivente in occasione di SciencePlusFiction 2006 (vedi appendice A).
11
cineasta il concetto di grottesco sia inscindibilmente legato alla dimensione figurativa,
mentre l’ironia abbracci un ambito più largo. L’impressione risulta confermata quando,
sempre a proposito di ironia, Gilliam parla del personaggio di Dennis, il protagonista di
Jabberwocky: «Beh, è questo [l’ironia della situazione] che mi interessava ed il motivo
per cui definisco il film come la collisione tra due fiabe: perché lui ottiene il lieto fine
della fiaba, la bella principessa e metà del regno, ma ciò che vuole è qualcosa di così
banale, la ragazza grassa…»
12
. L’ironia viene allora proposta come un registro che
attiene ai programmi narrativi, unendo dunque il livello discorsivo del testo a quello
della grammatica narrativa. Stabilita quindi una linea di confine che potrà tornare utile
anche quando si tratterò di esaminare altri titoli, ritorno allo specifico di Jabberwocky.
Storia di Dennis Cooper, giovane figlio del bottaio di un villaggio che alla prosecuzione
dell’attività paterna preferisce la seduzione della grande città, nella speranza di fare
fortuna con improbabili trovate pre-industriali e conquistare così il cuore dell’amata
Griselda (la ragazza grassa citata da Gilliam), il film presenta, ai fini di questa analisi,
un elemento alquanto paradossale. Al suo interno infatti, il personaggio del cavaliere,
così come l’ho definito sopra, è, tranne che nel finale, sostanzialmente marginale,
nonostante la pellicola attinga a piene mani dal repertorio narrativo e figurativo tipico
della fiaba.
In Jabberwocky, come evidenziato in precedenza
13
, sono quattro le incarnazioni della
figura cavalleresca, e, almeno inizialmente, la loro incidenza sul programma narrativo
del protagonista, Dennis, è assai relativa.
12
Da un dialogo tra Gilliam e lo scrivente in occasione di SciencePlusFiction 2006 (vedi appendice A).
13
Cfr. cap. 2.
12
2.1.2. La prima sequenza del torneo
I cavalieri appaiono una prima volta dopo 40’10”, nella prima delle due sequenze in cui
vediamo svolgersi il torneo che dovrà designare il campione del reame; questi sarà
quindi destinato a sfidare il mostro che infesta la regione, con la promessa, in caso di
vittoria, di ottenere metà del regno e la mano della principessa. Si propone dunque uno
dei cliché più ricorrenti della narrazione fiabesca, in cui convergono sia figure
canoniche di quest’ambito (il re, il cavaliere, la principessa), sia la classica struttura del
contratto, riconducibile al sintagma seguente:
EN1: F (dono) =
[D1: campione Æ O1: morte del mostro Æ D2: re]
EN2: F (contro-dono) =
[D1: re Æ O1: principessa e metà del regno Æ D2: campione]
Da quanto appena detto, possiamo dedurre l’ /eliminazione dell’oppressore/ come tema,
a sua volta derivato per conversione nelle strutture discorsive dal valore /libertà/.
L’agente che si fa carico di perseguire questo valore, e quindi il soggetto del programma
narrativo implicito nel tema, è il campione del re. Ed è proprio per identificare questa
figura che entra in gioco il topos del torneo (che a sua volta, leggendo il riconoscimento
dell’eroe come un altro tema, ne diviene un preciso percorso figurativo): la serie di
duelli è in questo senso per i cavalieri il momento della prova decisiva, propedeutica a
quella glorificante, cioè al riconoscimento del vincitore da parte del re e al conseguente
investimento della missione. Di seguito, la distribuzione dei ruoli attanziali e gli schemi
relativi al programma narrativo base e a quelli d’uso considerando il cavaliere come
soggetto della prova rappresentata dalla giostra:
destinante soggetto oggetto destinatario
re cavaliere status di campione cavaliere
PN1: [S1 Æ (S2 ∩ O1)]
13
dove:
S1 = soggetto del fare (cavaliere)
S2 = soggetto di stato = S1
O1 = oggetto (status di campione)
PN1:
[S1 (volere/dovere)
[cavaliere (vuole)
(S2 ∩ O1)]
(cavaliere ∩ status di
campione)]
O2v: (sapere)
PNu1---------------------
[S1 Æ (S2 ∩ O2v)]
[cavaliere Æ (cavaliere ∩
perizia nell'uso delle armi)]
O2v: (potere)
PNu1---------------------
[S1 Æ (S2 ∩ =2v)]
[cavaliere Æ (cavaliere ∩ armi)]
All’inizio del torneo, dunque, si suppone implicitamente che tutti i cavalieri in lizza
abbiano già affrontato la prova qualificante: sono quindi soggetti attualizzati rispetto al
PN1 sia secondo il saper fare (identificabile nella perizia nell’uso delle armi), sia
secondo il poter fare (l’effettivo possesso delle armi). Fino a qui si rimane perciò in
terreni ben noti alla narrazione fiabesca, dai cui stereotipi, per quanto riguarda la figura
del cavaliere, non ci si è ancora spostati. Presto però Gilliam proporrà tradimenti al
percorso figurativo fin qui adottato e correlazioni particolarmente significative per
quanto riguarda il quadrato della veridizione, con un rovesciamento delle aspettative del
pubblico che si rivelerà funzionale al taglio ironico della sua opera.
Occorre però soffermarsi ancora sulla prima sequenza del torneo: rispetto alla prova che
esso rappresenta, tutti i cavalieri, come si è detto, condividono la stessa modalizzazione
e, in sostanza, lo stesso programma narrativo. È possibile allora inquadrarli come un
unico attore collettivo (totalità partitiva), tanto più che Gilliam rinuncia ad accentuarne
la caratterizzazione figurativa: con l’elmo calato in testa, ci è impossibile distinguere i
14
tratti somatici dei vari personaggi, né armature, scudi, lance o cavalli presentano dettagli
significativi. I cavalieri divengono così maschere, archetipi privati di uno statuto
autonomo: gli unici riferimenti possibili sono quelli legati alla configurazione discorsiva
ed al percorso figurativo di partenza.
Il regista quindi, almeno inizialmente, non va a modificare la figura del cavaliere così
come è raffigurata tradizionalmente; al contrario, ne lascia intatti i tratti principali, in
modo che lo spettatore possa riconoscere i personaggi ed inquadrarli in una cornice
narrativa a lui nota. L’ironia però scatta allorquando Gilliam si prende la libertà di
modificare, annullare o viceversa esasperare in senso grottesco il contesto in cui le
figure si muovono. Ecco allora che la messa in scena del torneo cozza decisamente con
l’immagine stereotipa che ne abbiamo: la fotografia sceglie colori spenti, in modo tale
per cui il palco reale non pare particolarmente lussuoso; le trombe che annunciano i
duelli alternano squilli a fastidiose cacofonie, il lato brutale dello scontro si fonde con
l’esasperazione assurda, cosicché la sconfitta prende l’aspetto di un cavaliere
catapultato dalla lancia avversaria a metri di distanza ed in cima ad un muro, o sbalzato
di sella e destinato a finire pesantemente sullo strato di lerciume che copre il terreno
14
.
14
In realtà tutto il film descrive questo Medioevo come un’età oscura, sporca e brutale. A questo
proposito, in John Ashbrook, Terry Gilliam, Harpenden, Pocket Essentials, 2000, l’autore fa notare
(pp.24-25) le citazioni dal Leviatano di Hobbes e dai dipinti di Peter Bruegel il Vecchio; in Daniele
Dottorini e Fabio Melelli (a cura di), La favola della realtà. Il cinema di Terry Gilliam, Fasano (BR),
Schena 2002, al Medioevo dei quadri di Bruegel viene affiancato (pp. 37-38) quello immaginato da
Mario Monicelli in L’armata Brancaleone (1966).
15
2.1.3. La seconda sequenza del torneo
Ma tutto questo non mina ancora la coerenza interna al percorso figurativo
rappresentato dal torneo; la frattura, però, avviene più tardi, precisamente nella seconda
sequenza relativa al torneo, quella che inizia dopo 70’44”. Per i primi tre minuti essa
sembra solo una prosecuzione di quella appena esaminata, con il lato grottesco
accentuato dal fatto che i duelli rimangono quasi totalmente fuori campo, mentre a noi è
dato vederne solo gli effetti (gli schizzi di sangue sugli occupanti il palco reale). La
situazione però muta radicalmente quando re Bruno, dopo una discussione con il suo
consigliere Passelewe, interrompe la carneficina sostituendo al torneo cavalleresco,
come metodo d’elezione del campione, una gara di nascondino. L’effetto comico e di
spiazzamento è qui particolarmente forte in quanto Gilliam per la prima volta va a
toccare i semi nucleari della figura del cavaliere. Riprendendo infatti l’idea secondo cui
tra essi vi è il /valore (in combattimento)/,
15
il regista introduce qui un elemento
assolutamente incoerente con il percorso figurativo, portandoci a ripensare lo statuto
modale dei personaggi in causa: improvvisamente l’oggetto di valore secondo il PNu
che porta al poter fare non è più l’abilità nel duello ma la capacità di nascondersi, cioè
un valore che si pone quasi agli antipodi del primo. E sono particolarmente
significative, ai fini della produzione del comico, le scene del cavaliere che effettua la
conta appoggiato alla staccionata e degli uomini in armi che si nascondono dietro le
tende dell’accampamento: la virilità tipica di questo tipo di personaggi si accoppia qui
ad una pratica normalmente ricondotta ad un universo infantile. Di conseguenza, al
momento del riconoscimento del campione da parte del re, questo crea uno scarto tra il
testo considerato e la tradizione fiabesca: se il re, coerentemente con la prova imposta,
può riconoscere il vincitore come suo campione, certamente non può farlo il pubblico,
che ha ben chiaro come la competenza del personaggio in relazione alla missione cui si
accinge sia stata certificata su una base che non risponde né ai criteri propri del
paradigma fiabesco né a quelli della logica. Il tradimento di quello che è stato fin qui il
canone narrativo di riferimento è dunque il responsabile della produzione dell’ironia,
secondo un processo che vedremo applicato anche nel finale del film.
Tornando però all’inizio del torneo, c’è da rilevare la presenza di un personaggio che
merita un discorso a parte: si tratta, con tutta evidenza, del cavaliere nero. Già la sua
presentazione basta a “staccarlo” dal gruppo indistinto degli altri cavalieri: la
monocromia del suo aspetto, le corna con cui è ornato l’elmo, la musica con cui il
15
Cfr. cap. 2.
16
regista accompagna la scena della sua prima apparizione sono tutti elementi che
dipingono un personaggio minaccioso, verosimilmente spietato e letale, cosa di cui, del
resto, troveremo conferma poco dopo. Inoltre, il cavaliere nero è già di per sé una figura
a parte, divenuta nel corso dei secoli l’incarnazione dell’antieroe, del malvagio o, nei
casi più fortunati, di una figura comunque potente e misteriosa
16
. Non bastasse ancora,
mi permetto di ricordare come proprio questa immagine ormai consolidata
nell’immaginario collettivo sia stata sbeffeggiata da Gilliam e Jones in Monty Python
and the Holy Grail: lì un cavaliere nero, dopo aver provato il suo valore uccidendo in
duello un avversario, sfidava re Artù, rimettendoci progressivamente braccia e gambe,
mozzate dalla spada del protagonista, ma sempre rifiutandosi, in maniera tanto ostinata
quanto assurda, di dichiararsi sconfitto. Ecco dunque che un particolare orizzonte
d’attesa circa lo sviluppo di questa figura viene servito dal regista allo spettatore su un
piatto d’argento.
Il trattamento riservato a questa figura in Jabberwocky è comunque decisamente diverso
rispetto al film precedente. A differenza dei suoi “colleghi”, il cavaliere nero non ci
offre alcuno spunto per la risata se non, al limite, quando, eliminando uno dei suoi
avversari, smentirà il re che lo stava pronosticando sconfitto. Ma ridiamo appunto
dell’errore di valutazione del re; il cavaliere, dal canto suo, è rimasto assolutamente
coerente con l’immagine di lui che avevamo dall’inizio, ed è una coerenza che durerà
fino alla fine (anche a costo, come vedremo, di minare la coerenza del programma
narrativo che svilupperà in seguito). Altri elementi che ne arricchiscono la
caratterizzazione sono l’istintivo rifiuto – scena presente nella seconda sequenza del
torneo - che provoca nella principessa (che evidentemente da subito non lo percepisce
come l’incarnazione del modello romantico da lei vagheggiato) e, soprattutto, una
16
In questo senso, il caso più celebre è forse quello dell’Ivanhoe di Walter Scott, dove sotto l’elmo del
cavaliere nero, che in tutto il romanzo si distinguerà per valore dalla parte dei “buoni”, si cela Riccardo
Cuor di Leone.
17
crudeltà accoppiata al mancato rispetto delle regole: disarcionato e disarmato un
avversario, il cavaliere nero non scende da cavallo per affrontarlo a parità di condizioni,
bensì rimane in sella e lo finisce con un colpo di mazza ferrata.
Appare chiaro quindi fino dalle scene del torneo che il cavaliere nero non è
apparentabile agli altri cavalieri. Se questi, come totalità partitiva, prendono le mosse da
quella totalità integrale che è la società tipica di questo tipo di narrazione (e, essendone
un’emanazione, almeno in parte la rappresentano), egli sicuramente non può vederla
come proprio riferimento, finendo quindi con il collocarsi ai margini del percorso
figurativo. Da dove viene, allora, questo personaggio? A chi appartiene, per così dire?
La risposta ci viene data nel finale del film, quando scopriamo che è di lui che
intendono servirsi i commercianti della città per eliminare il campione del re e quindi
evitare la morte del mostro, da loro percepito come un fattore positivo per l’economia. Il
cavaliere nero, quindi, nella sua alleanza con i commercianti e nel suo essere
antisoggetto rispetto al programma narrativo del campione del re, configura un’isotopia
opposta rispetto a quella che ha dominato quasi tutto il film: ad una società fiabesca
ricalcata su un modello medievale, e quindi basata su un sistema feudale e di caste e
legata a determinati riti e codici, se ne contrappone una più moderna, basata sul
commercio e caratterizzata da una maggiore flessibilità sociale ed etica. Tutto questo
viene riflesso da Gilliam nel diverso tratteggio dei personaggi dei due cavalieri, che più
avanti avrò modo di porre a confronto. Procedendo però con ordine, tocca prima dare
conto della sequenza che precede lo scontro tra i due.
18
2.1.4. Il campione del re contro i briganti
Il campione del re, sebbene la sua competenza, come detto, sia stata messa in dubbio,
pare avere almeno mantenuto quelle che, dal punto di vista visivo, sono le sue
caratteristiche di base: bardato nella sua armatura, parte con l’imprescindibile figura
dello scudiero al seguito, e, quando crede di aver trovato il mostro, non esita ad
avanzare contro di lui. Qui però ritorna l’ironia di Gilliam, stavolta più sottile perché
tocca in maniera ambigua il personaggio: resosi conto che non c’è nei pressi alcun
mostro, il cavaliere si arresta, non dando nemmeno segno di accorgersi di quanto gli
accade intorno (la famiglia Fishfinger aggredita da una banda di briganti). Da un lato,
dunque, c’è un mancato rispetto di quell’etica cavalleresca che vorrebbe l’eroe correre
in soccorso dei deboli e degli oppressi, con particolare riferimento alla figura della
fanciulla in pericolo (qui “interpretata”, sempre con tocco ironico, dall’orrida Griselda);
dall’altra, è pur vero che l’evento non rientra in alcun modo nel programma narrativo
del personaggio, il quale infatti piuttosto che intervenire preferisce rimanere in sella
guardandosi intorno e chiedendosi quasi inebetito dove sia il mostro. E quando Dennis
lo fa involontariamente cadere da cavallo sul capo dei briganti, mettendo così in fuga gli
altri, ecco che nuovamente si crea un equivoco schematizzabile sul quadrato della
veridizione. Agli occhi di mr. Fishfinger egli incarna il ruolo del salvatore, ciò che è
riassumibile nel seguente enunciato:
S1 Æ C(S2 ∩ O1)
dove:
S1 = soggetto del fare (mr. Fishfinger)
C = predicato (credere)
S2 = soggetto di stato (cavaliere)
O1 = oggetto (salvatore)
Questo fa poi sì che il signor Fishfinger, appoggiandosi all’usanza (propria dell’isotopia
fiabesco-cavalleresca) che vorrebbe la fanciulla salvata andare in sposa al cavaliere che
l’ha liberata, cerchi di convincere il campione del re a sposare Griselda.