INTRODUZIONE
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Il lavoro vuole cercare di dimostrare se esista una compatibilità e
quindi un parallelo tra il grande contributo di J.L. Austin nel
vedere il linguaggio come agente oltre che veicolo delle azioni
dell’uomo e il Costruttivismo, che assume la realtà come una
‘costruzione’.
Per analizzare questa domanda si è scelto il contributo di G.
Bateson grazie al quale si è amplificato il problema, perché ci si è
scontrati con un autore dal pensiero rivoluzionario e visionario, che
fa realmente perdere “la diritta via”, tuttavia Bateson ha fatto da
pontefice (lat. Pontifex etim. pōns-tis e făcere – ‘colui che fa i
ponti’) tra l’aspetto propriamente filosofico dell’analisi degli atti
linguistici e il lato legato alle conseguenze psicologiche che il
linguaggio produce nella rete di relazioni interumane.
Grazie al contributo di V. Kenny e H. Maturana si è potuto leggere
Bateson sotto una chiave meno oracolare nel senso che si è
analizzato con più facilità il suo pensiero e lo si è potuto porre al
centro di contributi e riletture come quelle di E. Von Glaserfeld o
P. Dell che ne studiano il lato che vede legati sistema e
linguaggio.
Nell’ultima parte ci si è concentrati sulla spiegazione dei vari
modelli di Costruttivismo, soffermandosi sull’ultimo
costruttivismo detto ermeneutico.
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Il Costruttivismo Ermeneutico considera il linguaggio la massima
espressione per la costruzione della conoscenza e della rete di rel-
azioni. Ogni spiegazione della realtà è frutto di interpretazioni.
I due autori presi in esame nella parte finale sono H. Maturana per
quanto riguarda un parallelo prettamente filosofico, secondo cui il
linguaggio è assunto come artefice delle azioni e R. Harré grazie al
quale si vede in questi ultimi anni l’alba per la cosiddetta
Psicologia Discorsiva, che prende come punto di indagine iniziale
quella grande idea di Austin per cui si possa agire con le parole.
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La Filosofia del Linguaggio.
1.1 Austin e gli Atti Linguistici
La Psicologia ha incontrato nel suo percorso evolutivo, se cosi si
può definire, una disciplina, che studia i sistemi, le modalità e i
processi di produzione del Linguaggio: la Linguistica.
Il suo referente più significativo è senz’altro Noam Chomsky che
con la pubblicazione del suo libro “Syntactic Structures” del 1957
pone le fondamenta per l’analisi dei processi di apprendimento
linguistico, la conoscenza di una data lingua e le modalità con le
quali tale conoscenza sia utilizzata. Chomsky spiega il sistema di
restrizioni imposte dalla facoltà del linguaggio sulla struttura di una
qualsiasi lingua con l’ipotesi di una Grammatica Universale, che è
l’insieme di regole computazionali (che prendono spunto dai
processi del computer) insite in ogni individuo e che si attuano
nell’acquisizione di proprietà linguistiche.
La Linguistica deve molto, almeno sotto un aspetto propriamente
concettuale, alla Filosofia Linguistica e alla Filosofia del
Linguaggio, discipline che è necessario distinguere per poi capire
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quali delle due è quella più utile all’ indagine. La Filosofia
Linguistica, secondo John Searle, si propone “di risolvere
determinati problemi filosofici attraverso l’osservazione dell’uso
ordinario di certe parole o di altri elementi di una data lingua”
(Searle, 1969). La Filosofia del Linguaggio, invece, sempre secondo
Searle “cerca di dare descrizioni illuminanti da un punto di vista
filosofico di certe caratteristiche generali del linguaggio come
riferimento, verità, significato e necessità.”(Austin, 1962) È da
chiarire che viene fatta attenzione a fatti concreti di lingue naturali.
Queste premesse conducono ad individuare come più idonea alla
dissertazione la Filosofia del Linguaggio, perché la sua
impostazione concettuale apre la strada verso la teoria degli Atti
Linguistici.
Partendo proprio dalla lettura di Autori come John Langshaw
Austin e John Roger Searle si evince quanto lo studio degli Atti
Linguistici metta in risalto, prima di tutto, l’azione che si compie
attraverso il dire e, secondariamente, la questione della
classificazione e il funzionamento del linguaggio.
Austin fu esperto del pensiero di Liebniz nonché sublime
conoscitore delle opere morali di Aristotele, per lui si deve
utilizzare la filosofia per l’analisi del linguaggio comune,
quotidiano, ordinario.
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Egli nel 1962 propone la Teoria degli Atti Linguistici, che viene ad
essere l’idea centrale di un nuovo paradigma scientifico nelle
scienze del linguaggio: Austin imprime una svolta agli studi nel
momento in cui considera il linguaggio come “azione” piuttosto che
come struttura o risultato di un processo cognitivo. Le conseguenze
del pensiero di Austin si ritrovano in svariati campi del sapere
umano, naturalmente nella Filosofia ( Searle, Grice, Strawson ) e
nella Linguistica ( Ross, Lakoff ) ma anche nel campo della
Giurisprudenza ( Hart, Scarpelli ) e nel campo dell’Intelligenza
Artificiale ( Winograd ).
Sarà più chiaro comprendere i presupposti di Austin tenendo
presente che “enunciare la frase (ovviamente in circostanze
appropriate) non è descrivere il mio fare, ciò che si direbbe io stia
facendo, mentre la enuncio o asserire che lo sto facendo: è farlo.”
(Austin, 1962). Proprio a questo concetto corrisponde la nascita
della frase performativa o enunciato performativo o, per abbreviare,
il performativo. Il termine performativo deriva da perform
(eseguire): indica che la costruzione dell’enunciato determina
l’esecuzione di una azione – e l’atto con cui si esprime l’enunciato
non è concepito come un mero dire qualcosa. Gran parte dei
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performativi sono enunciati contrattuali (scommetto) o dichiarativi
(dichiaro guerra).
Si viene così a delineare una polarità tra i performativi e gli
enunciati constativi o asserzioni; a titolo del tutto esemplificativo:
dire “mi scuso ” è un performativo, perché oltre a eseguire un atto
comunicativo (contestuale nel dire il mio “scusarmi”) è anche
un’azione di scusa. Al contrario dire “egli sta correndo” è un
constativo, perché nel dire questa asserzione sto solo informando
qualcuno su un’azione che un altro compie, mentre chi parla non fa.
“Un’asserzione ci impegna ad un’altra asserzione, una azione ad
un’altra azione. Inoltre, proprio come se p implica logicamente q
allora ∼q implica logicamente ∼ p, cosi ″non sono in obbligo″
implica logicamente ″non prometto″ ”(Austin, 1962). Da ciò
deduciamo che per spiegare un’ asserzione non si può osservare
solo la proposizione in sé, ma è necessario considerare la situazione
totale in cui viene formulato l’enunciato – l’atto linguistico totale –
specie se si vuole vedere i possibili paralleli tra le asserzioni e gli
enunciati performativi e studiare come ognuno possa funzionare.
Austin stesso ricerca quale possa essere una definizione o una
regola per dare identità certa ai Performativi. Egli giunge a
concepire che qualunque enunciato possa essere di fatto appellabile
come Performativo e per esserlo deve essere ridotto, sviluppato, o
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riprodotto in una forma, che ha un verbo alla prima persona
singolare del presente indicativo attivo (grammaticale). Per essere
più chiari, dire “Escluso” equivale a “io ti dichiaro, ritengo,
considero o giudico escluso”, mentre l’asserzione “E’ tuo” equivale
a “ti appartiene (già)” oppure “te lo dono”.
Il tentativo di Austin è senz’altro quello di studiare il linguaggio con
maggiore precisione e rendere più chiaro quello che viene detto, in
sostanza il significato del “dire”: l’esplicitezza, dal nostro punto di
vista, apre un campo di indagine verso la forza degli enunciati e di
conseguenza al modo con cui devono essere intesi. Parlare di atto
locutorio è parlare di significato, cioè di senso e riferimento delle
espressioni linguistiche; parlare di atto illocutorio è parlare della
forza con cui vengono proferiti gli enunciati.
Il merito di Austin è quello di aver contrapposto il senso del dire
alla forza del dire. Questa presa di posizione ha gettato le
fondamenta per accettare la nozione secondo la quale, per la
comprensione del linguaggio, non basta conoscere il senso e il
riferimento degli enunciati, occorre anche conoscere le diverse forze
con cui gli enunciati vengono usati.
Per chiarire e per enunciare il performativo esplicito necessita
spiegare che, secondo il filosofo analitico di Oxford (Austin), sono
utili i cosiddetti “primitivi dispositivi” (Austin,1962) come:
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1) Modo, che deve essere imperativo, affinché renda l’enunciato
un “comando”. Se dico: “Chiudila, fallo subito”, ordino di chiudere
la porta.
2) Tono di voce, ritmo,enfasi.
3) Avverbi e sintagmi avverbiali. Se si usa all’interno di un
performativo come “Domani ci sarò” l’avverbio “certamente”, si
rinforza il significato della comunicazione.
4) Congiunzioni. A titolo del tutto di raffinatezza e in contesti
dove la lingua e il registro è più elevato si fa un uso molto
interessante di congiunzioni come: “sebbene” per dire “io ammetto
che” o “quindi” per dire “io concludo che”.
5) Azioni che accompagnano l’enunciazione. Si allude a gesti o
azioni cerimoniali.
6) Circostanze dell’enunciazione. In sostanza si fa riferimento ai
contesti o ai momenti particolari in cui si afferma qualcosa; ad
esempio in occasione di un matrimonio piuttosto che al capezzale, o
in ogni altra circostanza legata alla vita di tutti i giorni.
E’ stato utile, almeno fino ad ora, spiegare il pensiero di Austin
riguardo i performativi, perché tale nozione è indispensabile per
spiegare un’altra parte dell’opera di questo Filosofo Analitico: gli
Atti Locutori, Illocutori e Perlocutori.
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Gli Atti Locutori sono definiti dallo stesso Austin come “gli atti di
dire qualcosa”(Austin,1962), ovvero corrispondono a tutte quelle
azioni che si attuano nel momento in cui si comunica verbalmente.
Austin stesso nel definirli si affida ad una loro spiegazione più
precisa e sostiene che siano costituiti da tre tipi di (sotto-)atti:
fonetico, fatico e retico. L’atto fonetico è l’emettere dei suoni, quello
fatico è il pronunciare certi vocaboli o parole, provenienti da un
determinato lessico, mentre l’atto retico consiste nel pronunciare
determinati vocaboli accompagnati da una certa intenzionalità. Lo
stesso autore, prima di impegnarsi nella spiegazione degli atti
locutori, afferma che la descrizione che ne fa è del tutto
approssimativa e che servirebbero studiosi di grammatica e fonetica
per dare un senso del tutto più specifico all’argomento.
L’Atto Illocutorio è distinto da quello Locutorio perché è l’atto nel
dire qualcosa, è un enunciato che ha una forza perché porta un
messaggio che ha da essere capito. Austin spiega infatti che “..le
parole usate devono in una certa maniera essere «spiegate» dal
«contesto» in cui sono destinate ad essere pronunciate, o sono state
effettivamente pronunciate, in uno scambio linguistico ”. (Austin,
1962).
L’ultimo e certamente quello più complesso è l’Atto Perlocutorio,
che è l’atto(compiuto) con il dire qualcosa.