5
per il benessere affettivo ed emotivo dell’esperienza umana ed è ormai
molto diffusa la convinzione che «nella sua realtà ontologica non ha niente
in comune con qualcosa di perverso e peccaminoso: questi sono il prodotto
di labeling sociali creati dall’uomo per gestirsi in un aspetto della sua realtà
umana» [Lolli 1996; 117].
La sessualità è considerata oggi un aspetto “normale” dell’esperienza
umana; numerose discipline si sono occupate della questione, da quelle
fisiche, come la biologia, a quelle umanistiche, come la psicologia o la
sociologia; solo quest’ultima sembra però cogliere in pieno la complessità
del fenomeno, almeno nei suoi contributi più recenti.
Molti fattori entrano in gioco quando parliamo di tale questione, e su vari
livelli: vedremo come aspetti biologici, psicologici e sociali si intreccino
nella costruzione della propria esperienza di essere sessuato e sessualizzato,
ripercorrendo il percorso di conoscenza che a partite dai primi studi al
riguardo arriva ai giorni nostri e sostenendo la necessità di proporre una
nuova lettura del fenomeno attraverso un “nuovo” indirizzo di ricerca e
analisi epistemologica della sessualità come parte di una scienza dell’uomo,
costituita da un principio generale e flessibile di tipo integrazionista fra le
varie discipline.
Ci concentreremo sulla figura del transessuale
1
, oggetto specifico della tesi,
in quanto emblema della complessità umana in questo campo; sembra
infatti doveroso rivolgere lo sguardo verso una tematica così spesso
trascurata, soprattutto in considerazione del fatto che finalmente il soggetto
transessuale ha oggi la possibilità di svincolarsi dalla definizione di “malato
mentale”, “perverso”, “depravato” che purtroppo la società occidentale
gli/le ha arbitrariamente attribuito nel corso dei secoli (talvolta
“semplicemente” per salvaguardare la propria stabilità, in parte anche
basata sulla distinzione dei generi e dei loro rispettivi ruoli).
Analizzeremo quali sono le varie teorie eziologiche ed esplicative al
riguardo, concentrandoci sui contributi della sociologia e proponendo
1
Utilizziamo il termine in senso lato, come spiegato nel capitolo 1; intendiamo qui riferirci a tutti
quei soggetti che esperiscono un disagio relativo all’incongruenza tra sesso anatomico e sesso
psicologico.
6
un’analisi di alcune problematiche emerse attraverso la raccolta di storie di
vita, allo scopo di comprendere se esistono delle condizioni favorenti
questo tipo di disagio che possono essere rintracciate nella storia
sociale/relazionale dei singoli soggetti.
Prima di addentrarci nella questione, però, ritengo opportuno fare un po’ di
chiarezza a livello terminologico; spesso certi termini vengono utilizzati
comunemente in modo improprio e talvolta sovrapposti pur se
profondamente differenti, per cui, senza pretesa di esaustività, vediamo
quelli più comunemente utilizzati nella trattazione.
La prima, doverosa, distinzione riguarda i termini sesso e genere. Con sesso
(sex) possiamo riferirci ad un’attività (il fare sesso) oppure, e questo è il
significato che ci interessa in questa sede, ad «una proprietà di natura bio-
psichica, ascrivibile dunque alla natura intrinseca, al patrimonio genetico di
ogni individuo. Proprietà che determina una serie di peculiarità fisiche
specifiche, fondative di una differenza essenziale ed irriducibile»
[Bertolazzi 2004; 14]. il termine genere, o più propriamente il termine
gender (di cui genere è la traduzione non propriamente letterale), indica
invece «la classificazione sociale di un individuo in quanto afferente alla
categoria di maschile o femminile, ovvero il carattere sessuato delle identità,
dei ruoli, e delle relazioni socialmente costruiti, quindi non biologici ma
culturali, incluse le credenze, le percezioni, le preferenze, gli atteggiamenti,
i comportamenti e le attività svolte in generale» [Donati 1997; 25]. Dunque,
se «sesso è una parola che fa riferimento alle differenze anatomiche tra
maschile e femminile, ossia la differenza visibile dai genitali e la relativa
differenza nella funzione procreativa. il gender, tuttavia è una questione di
cultura: si riferisce alla classificazione sociale in mascolino o femminino»
[Oakley 1985; 16].
Tre concetti importanti da chiarire sono quelli di Identità di genere, ruolo di
genere e orientamento sessuale: spesso nel senso comune essi sono
sovrapposti o confusi, ma in realtà indicano categorie ben distinte. Con
identità di genere si fa riferimento ad “un sistema complesso di credenze
nei riguardi di se stesso, il senso della propria mascolinità o femminilità.
7
Questo sistema di credenze non ha alcuna implicazione sulle origini di
questo senso, cioè se la persona è un maschio o una femmina. Ha dunque
solo connotazioni psicologiche, il proprio stato soggettivo” (Stoller 1986).
Corrisponde, in poche parole, alla percezione sessuata di se stessi e del
proprio comportamento, ed è un concetto «multifattoriale evolutivo
dinamico» [Persico 2004; 15], multifattoriale perché è dato dalla relazione
tra fattori biologici, psicologici e socioculturali, evolutivo e dinamico
perché muta nel corso della vita. «L’identità di genere costituisce il modo
con cui l’individuo esperisce, in modo personale, il ruolo di genere, vale a
dire tutto ciò che si fa per esprimere agli altri l’appartenenza a un
determinato sesso (o l’ambivalenza in proposito). Tale ruolo è in gran parte
frutto di consuetudini sociali apprese cui l’individuo si conforma o meno
per segnalare agli altri la propria maggiore o minore aderenza al modo
secondo cui un determinato sesso dovrebbe essere recitato in base alle
regole culturali vigenti» [Dèttore 2001; 162]. Il ruolo di genere è una
rielaborazione personale di tutti quei comportamenti, atteggiamenti, tratti di
personalità che una società, in una data cultura e in un dato periodo storico,
designa come maschili o femminili, cioè come più appropriati ai ruoli
sociali tipici di maschio o femmina, e deriva dal particolare modo in cui si è
venuta a costituire l’identità di genere. Infine, il termine orientamento
sessuale viene definito come la tendenza della persona a rispondere a certi
stimoli sessuali; esso è in parte legato all’identità e al ruolo di genere, ed è
costituito dagli oggetti (persone o, talora anche cose o situazioni) che
riescono ad indurre nel soggetto attivazione ed interesse sessuale. La
dimensione più saliente dell’orientamento sessuale è ovviamente il sesso
del proprio partner; questa classe di stimoli riguarda il fatto che la persona
si definisca eterosessuale, omosessuale o bisessuale.
Riguardo ad ognuno dei concetti sopra citati, ad oggi (ma solo da pochi
decenni, a partire dalle considerazioni di Kinsey negli anni ’50) si tende a
non considerare esclusivamente categorie diametralmente opposte, come
maschio/femmina o eterosessuale/omosessuale, ma a collocare identità,
ruolo ed orientamento di ogni individuo su un continuum che va da un
8
estremo ad un altro. Se consideriamo l’identità di genere possiamo infatti
renderci conto di come non può essere sufficiente dire che un soggetto ha
un’identità totalmente congruente al proprio sesso cromosomico o
totalmente incongruente rispetto ad esso; in ognuno sono presenti tratti di
entrambi i generi, o meglio, caratteristiche, inclinazioni, atteggiamenti che
tradizionalmente sono attribuiti ad un genere piuttosto che all’altro.
L'identità di genere, derivante da complessi processi di crescita psicologica,
non coincide dunque necessariamente con la sessualità biologica,
determinata dalla genetica al momento del concepimento.
Si possono presentare, dunque, dei "disturbi dell'identità di genere": essi
sono caratterizzati da una marcata scontentezza verso il proprio sesso, dalla
convinzione di appartenere ad un sesso diverso da quello di appartenenza,
fino ad arrivare alla ricerca di interventi chirurgici per modificare la propria
condizione. In generale oggi la disforia di genere è indicata con il termine
transgenderismo, mentre con l’ultima affermazione ci riferiamo
propriamente a quei soggetti che definiamo Transessuali.
9
Capitolo 1 -
I DIVERSI APPROCCI AL TRANSGENDERISMO
Con l’avvento della società postmoderna il termine transessuale ha assunto
connotazioni diverse rispetto al passato; oggi si tende ad identificare in tal
senso essenzialmente quegli individui che stanno attraversando una fase di
transizione nelle caratteristiche esteriori da un genere biologico, quale il
maschile o il femminile, all’altro; un periodo di preparazione e passaggio
che termina al momento della conversione dei genitali attraverso
un’operazione chirurgica.
Se guardiamo però alla storia questa definizione appare riduttiva; la
possibilità di cambiare attraverso interventi chirurgici il proprio sesso
esteriore è recente (consentito e ammesso dal nostro ordinamento giuridico
solo nel 1982); ai nostri fini considereremo dunque un significato più vasto,
quello di “individuo con caratteri fisici di un determinato sesso ma che si
identifica come appartenente al sesso opposto.” Tale definizione ci permette
di allargare il nostro oggetto di indagine anche a coloro che, pur
identificandosi con il sesso opposto non hanno, per impossibilità o per
scelta, potuto effettivamente cambiare i propri connotati fisici, pur
desiderando farlo, e in generale a tutti quegli individui che esperiscono un
disagio relativo al rapporto tra sesso biologico e psicologico, come i
travestiti (per alcuni il termine corretto in tal senso sarebbe
transgenderismo
1
).
Il termine "transessuale" venne coniato nel 1949 dal dottor David Cauldwell
(1897-1959), che lo adoperò per connotare un particolare quadro clinico
all’interno delle disforie di genere, cioè uno stato d’animo caratterizzato da
1
Il transgenderismo sostiene che l'identità di genere di una persona non è una realtà duale
"maschio/femmina", ma un continuum di identità ai cui estremi vi sono i concetti di "maschio" e
"femmina". In questo senso il transgenderismo è da considerarsi come un movimento
politico/culturale che propone una visione dei sessi e dei generi fluida e che rivendica il diritto di
ogni persona di situarsi in qualsiasi posizione intermedia fra gli estremi "maschio/femmina"
stereotipati. Il termine gender si riferisce alle caratteristiche culturali e comportamentali definite
tipiche dell’uomo e della donna; non è corretto tradurlo con il termine italiano “genere”, che
sottende anche le peculiarità biologiche dei due sessi. “Tecnicamente” il transessuale è colui che si
situa all’estremo di questo continuum, perché modifica il proprio corpo, tramite operazioni e
somministrazione di ormoni , ed il proprio modo di esprimersi fino ad apparire come un
appartenente al genere opposto a quello di nascita.
10
angoscia relativa al rifiuto del proprio sesso anatomico. In seguito, fu
ripreso dall’endocrinologo Benjamin (1953; 1954; 1966) a indicare una
sindrome quasi sconosciuta, distinta da altri disturbi dell’orientamento
sessuale .[Dèttore 2001:167].
Tale definizione deriva dal pensiero occidentale moderno, rigidamente
ancorato al dualismo maschile/femminile, intollerante verso le atipicità e
stigmatizzante il diverso; esso ha fatto si che la condizione di transessuale
fosse da considerarsi una patologia, un morbo assimilabile ad altre malattie
sessuali, come le parafilie e le disfunzioni sessuali. In tal senso il disagio
vissuto dalle persone transessuali viene inquadrato a livello nosografico nel
DSM IV-TR (Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali) nella
categoria “disturbo dell’identità di genere”.
Attualmente, pur continuando ad inquadrare coloro che desiderano un corpo
del sesso opposto in categorie nosografiche psicologico-pichiatriche, la
tendenza è quella di una rivalutazione della condizione in esame, come una
tra le tante possibilità di sviluppo dell’identità di genere, anch’essa
considerata in modo più fluido e meno rigidamente determinata ed ancorata
all’identità sessuale biologica di quanto si sostenesse pochi anni fa.
Soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, al di là delle inevitabili confusioni
generate dalla sovrapposizione di termini come bisessuale, intersessuale,
ermafrodita, si è tentato di dare al fenomeno diverse spiegazioni, di natura
biologica, psicologica, antropologica e sociale; nell’esporle cercheremo di
limitarci al disturbo dell’identità di genere
2
propriamente detto, citando, per
dovere esplicativo, eventuali accavallamenti di significati.
Inizialmente esporremo le teorie bio-psicologiche al riguardo, tra le quali si
annoverano ipotesi genetiche, ormonali, psicodinamiche e psicologiche;
tratteremo anche la prospettiva antropologica, che insistendo sulla
costruzione culturale del genere descrive numerosi esempi di civiltà del
passato e del presente che affrontano la questione del transessualismo, o
meglio, del transgenderismo, in modo anche totalmente diverso dal nostro
(occidentale) comune modo di concettualizzarlo, per passare poi
2
Il Disturbo dell’Identità di genere comprende la categoria dei transgender in toto, non solo quella
dei transessuali in senso stretto.
11
all’esposizione delle teorie di tipo sociologico e infine ad una spero
interessante ottica ricompositiva e correlazionale.
Parleremo degli ultimi sviluppi del concetto di salute, accennando alle
norme internazionali al riguardo e ai recenti contributi della sociologia
riguardo all’analisi della condizione transessuale in riferimento anche ad
alcuni Autori di particolare interesse quali Achille Ardigò e Costantino
Cipolla.
1.2 – La prospettiva bio-psicologica
Per molto tempo, almeno a partire dal periodo dei lumi, la questione della
salute, della malattia e delle cure, è stata affrontata principalmente dalla
medicina, a cui si sono affiancate, sopratutto a partire dagli inizi del
novecento, con l’opera di Freud, la psicologia e la psichiatria.
Tali discipline, inizialmente molto ancorate al pensiero positivista, facevano
proprio il paradigma biomedico, fondato sulla razionalità scientifica e sul
dualismo cartesiano mente/corpo; esso concentrava esclusivamente la
propria attenzione sul corpo come sistema biologico.
La crisi del paradigma biomedico classico e del suo codice malattia/non
malattia verificatesi a partire dagli anni 70, […] ha comportato la possibilità
di rimettere in gioco, accanto al corpo come realtà biologica, anche altre
dimensioni o livelli della realtà, quali la realtà sociale, intesa come società e
cultura,la realtà psichica, costituita dal mondo interiore del soggetto
persona e la realtà fisica quale spazio materiale inorganico dell’ambiente
non umano [Giarelli 2004; 560].
Nonostante i numerosi apporti di discipline diverse, medicina, psicologia,
sociologia ecc. nel corso degli ultimi decenni, l’allontanamento dal pensiero
realista e dualista dei primi “scienziati”, con conseguente
riconcettualizzazione dei concetti di malattia e salute, per ciò che riguarda il
nostro tema, il paradigma biomedico ha lasciato in eredità un
inquadramento della condizione del transgender in una categoria nosografia
12
psichiatrica, che la considera un disturbo della psiche.
Il transessualismo è inserito, con le altre tipologie di disforia
3
di genere,
all’interno del DSM IV-tr 2000 (Manuale Statistico Diagnostico dei
Disturbi mentali, Text Revisited, American Psychiatric Association, 2000)
con il nome di Disturbo dell’Identità di Genere, l’ICD-10 (International
Classification of desease, OMS 1993) invece distingue più categorie, quali
Transessualismo, Travestitismo a doppio ruolo, Disturbo dell’identità
sessuale nell’infanzia.
Ciò talvolta comporta imbarazzo per le persone che vivono la condizione di
appartenere al sesso biologico opposto a quello psicologico, perché li
etichetta come malati mentali; questo non toglie però il fatto che ciò può
essere utile a livello del riconoscimento sociale per l’ottenimento dei diritti
circa le proprie cure.
In realtà , già a partire dalle ultime due revisioni del DSM, il dibattito sul
Disturbo dell’Identità di genere, anche alla luce di nuove teorizzazioni e
ipotesi eziologiche, ha portato a rivalutare la condizione stessa,
riconoscendo l’importanza di fattori psicologici oltre che biologici, e ad un
ripensamento concettuale imponente al riguardo; si pensi che stiamo
parlando dell’unica patologia considerata psichiatrica a non essere curata
psichiatricamente! Lo psichiatra infatti non "guarisce" la persona
transgender facendola nuovamente sentire a proprio agio con il suo sesso di
origine, bensì avviando la persona a cui è diagnosticato il "Disturbo
dell'Identità di Genere" alle terapie endocrinologiche e/o chirurgiche per
iniziare il percorso di transizione, se ritenuto necessario dal soggetto stesso,
oppure supportandolo a livello psicologico per il raggiungimento di una
stabilità emotiva data dall’accettazione con un “compromesso con madre
natura”.
Tale discrepanza è da inquadrarsi nel fatto che per molti decenni fra la fine
dell'800 e i primi venti anni del '900 la persona transgender veniva
effettivamente sottoposta a tentativi di "guarigione", ovvero di scomparsa
3
Disforia è il contrario di euforia, sottende uno stato d’animo negativo, in questo caso dovuto
all’esperire un disagio, un malessere, relativo alla percezione di un’incongruenza tra sesso
biologico e genere psicologico.
13
del "disturbo", sia attraverso la psicoterapia, sia attraverso la
somministrazione di ormoni del proprio sesso genetico (quando non con
metodi “disumani” come, ad esempio, l’elettroshock). Tali tentativi furono
fallimentari e determinarono un numero elevatissimo di suicidi fra le
persone transessuali che subivano tali trattamenti. Soltanto intorno al 1960
si iniziò a pensare che l'unica "guarigione" della persona transessuale si
potesse ottenere adeguando il corpo alla psiche, in parte o completamente, e
non viceversa.
Il movimento transessuale mondiale rifiuta l'inquadramento psichiatrico
della propria condizione pur essendo consapevole del fatto che la propria
condizione richiede l'intervento della medicina per trasformare la "disforia"
in "euforia" o comunque in una stabilizzazione accettabile della qualità di
vita. L'ezio(pato?)genesi del transessualismo è ufficialmente ignota e
l'inquadramento psichiatrico sembra più uno stratagemma per far sì che le
persone transessuali possano accedere alle mutue, ai Sistemi Sanitari
Nazionali dei loro paesi, in attesa che ne venga chiarita la vera eziogenesi.
A questo proposito è molto significativa la risposta che la dottoressa Peggy
Cohen-Kettenis
4
ha recentemente dato nel corso di una conferenza tenutasi
in Italia, a Bari, il 31 maggio 2003 conferenza. In tale occasione la docente
universitaria, alla domanda posta dal pubblico che recitava: "Se il "vero"
transessuale è colui al quale viene consentito il cambiamento di sesso, non
ha psicopatologia associata, ha un buon esito post-trattamento, ecc., perché
allora i disturbi dell'identità di genere rientrano nel DSM-IV, ossia vengono
classificati come disturbi mentali?", così rispondeva: « Questo è un buon
punto. Credo che le ragioni principali stiano fuori dal DSM. Ad esempio,
una ragione pratica, anche se non la più importante, è che senza un disturbo
classificato nel DSM, in molti paesi le compagnie di assicurazione non
coprirebbero le spese del trattamento. So che è un problema di cui si sta
discutendo nella preparazione del DSM-V».
5
Nel DSM IV-TR 2000 la categoria del Disturbo dell’Identità di Genere
4
Docente di psicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam e responsabile del Gruppo sui
Disturbi dell'Identità di Genere del Dipartimento di Psicologia del Centro Medico della stessa
Università, annoverata fra i maggiori esperti internazionali di transessualismo.
5
www.wilkipedia.it/transessualismo.
14
(DIG) comprende le persone con Disforia di genere, ossia coloro che sono
insoddisfatti del proprio sesso anatomico e che desiderano appartenere al
sesso opposto [Davison Neale 2003;367]; nello specifico vengono definiti
transessuali coloro che alla polarità estrema di tale disturbo, desiderano
esporsi a manipolazione chirurgica dei genitali e/o dei tratti sessuali
secondari, quali il seno, la forma delle natiche, delle labbra, ecc… Il DIG
sembrerebbe dunque coprire la definizione di transgender, più che quella
particolare di “transessuale”; nel testo i due termini, (se non specificato),
sono però utilizzati come sinonimi, in considerazione del fatto che nel senso
comune le categorie sono percepite come sovrapposte.
Nel DSM III si distingueva Disturbo Primario, con esordio nella
fanciullezza ed esito più incerto, e Secondario, con esordio i età
adolescenziale o adulta, ma attualmente tale distinzione è venuta a cadere. Il
DSM IV-TR considera una sola categoria, sebbene contenga
sottoclassificazioni specifiche in relazione all’età dell’esordio della Disforia.
I criteri che ci permettono di diagnosticare un DIG sono:
● Una forte e persistente identificazione col sesso opposto (non solo un
desiderio di qualche presunto vantaggio culturale derivante
dall’appartenenza al sesso opposto)
● persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di estraneità
riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso
● l’anomalia non è concomitante con una condizione fisica intersessuale.
● l’anomalia causa disagio clinicamente significativo o compromissione
dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti di funzionamento
Per ogni criterio vengono poi specificate alcune divergenze tra bambini e
adolescenti/adulti; la diagnosi deve essere senza dubbio più cauta nel caso
dei bambini che possono presentare psicopatologie simili ad un Disturbo di
Genere, ma transitorie, come l’ juvenile unmascolinity (Friedman 1988) o il
tomboysm; inoltre la diagnosi differenziale deve riguardare la schizofrenia,
l’ermafroditismo, il feticismo da travestimento.
In genere si danno tre presentazioni comuni del DIG (Carroll, 2000), che
qui riassumiamo:
15
-Disforia di genere da donna a uomo : comprende donne solitamente
piuttosto mascoline all’aspetto che si considerano uomini;
-Disforia di genere da uomo a donna, tipo androfilico: comprende uomini
in genere piuttosto femminilizzati all’aspetto, che desiderano essere
donne;
-Disforia di genere da uomo a donna, tipo autoginefilico : il termine
autoginefilia si riferisce al provare piacere sessuale alla fantasia di se
stessi come femmine. Talvolta questi soggetti possono non sentire il
bisogno di una riattribuzione di sesso, e sono inquadrati forse
erroneamente come “feticisti da travestimento”. solitamente non sono
affemminati.
In alcuni casi è stato preso in considerazione anche il Travestitismo, ma in
questo caso si valuta di volta in volta la psicologia del soggetto per stabilire
se siamo in un caso diagnosticabile come DIG.
Non esistono studi sistematici relativi all’incidenza dei disturbi dell’identità
di genere. Per quanto riguarda, invece, le stime di prevalenza del DIG negli
adulti l’ American Psychiatric Association nel 1994 parlava di 1 su 30.000
uomini e 1 su 100.000-150.000 donne.
Un tempo si riteneva che il Disturbo dell’Identità di Genere fosse associato
molto spesso a gravi disturbi di personalità (vedi, per es., Lothstein 1984);
attualmente vi sono dati meno netti, per cui si ritiene che questi soggetti non
devono mostrare necessariamente gravi aspetti di comorbilità
psicopatologica (Brown e coll. 1995) [Dèttore 2001:171], anche se si
riscontrano frequentemente tratti depressivi o ansiogeni, probabilmente
legati alla difficile situazione psicologica di disforia.
Per ciò che concerne le ipotesi eziologiche ed esplicative, sono state
proposte numerose teorie circa la genesi del DIG; in ambito medico e
psichiatrico le più seguite riguardano ipotesi genetiche, ormonali,
anatomico-funzionali, biochimiche, psicologiche e psicosociali; ne
illustriamo alcune per chiarezza, anche se ognuna, ai giorni nostri, non è in
grado da sola di dare un contributo determinante alla spiegazione di un
fenomeno che, come vedremo in seguito, è ben più complesso e
16
multifattoriale di quanto si credeva fino a poco tempo fa.
Gran parte delle teorizzazioni sulle cause del DIG si sovrappongono a
quelle riguardanti l’eziologia dell’omosessualita’ in quanto, fino a un’epoca
abbastanza recente,le due condizioni sono state confuse. Inoltre, va tenuto
anche presente che molti studi sono stati condotti su persone con DIG che si
sono sottoposte a una riattribuzione chirurgica del sesso e quindi sono
tecnicamente dei “transessuali”; non è detto che conclusioni tratte da studi
condotti su questo gruppo di soggetti siano tout court generalizzabili a tutti
i soggetti con DIG, in quanto «i transessuali costituiscono solo un
particolare esito del disturbo stesso e, quindi, potrebbero rappresentare una
porzione con caratteristiche peculiari» [ibidem: 174].
Il Disturbo dell’identità di genere non sembra legato ad anomalie
cromosomiche. Sebbene in alcuni transessuali siano stati individuati
cariotipi anormali (per es., XXY), si tratta di eccezioni e non della regola
(Bancroft 1989), per quanto riguarda gli aspetti di ereditarietà, il numero dei
casi studiati è molto esiguo e l’esperienza clinica sembra suggerire che la
familiarità sia rara (Zucker e Bradley 1995).
Negli ultimi decenni molti degli studi hanno preso in esame anche le
influenze che gli ormoni potrebbero avere nel processo di costruzione
dell’identità e nell’esordio del disturbo; principalmente è stata valutata la
loro azione sulle zone cerebrali più soggette a dimorfismo sessuale (più
soggette quindi a variare tra i due generi).
La discussione circa l’ipotesi di una genesi strettamente biologica del
transessualismo, può ricevere un’adeguata risposta solo se si considerano
correttamente i rapporti tra livelli funzionali, in particolare tra ormoni,
struttura anatomiche componenti fisiologiche e psicologiche. La riflessione
centrale su questi rapporti,mette in evidenza il fatto che
a) alcune strutture anatomiche, del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e
del sistema endocrino, producono ormoni
b) b)gli ormoni sono determinanti per la differenziazione di altre
strutture anatomiche
c) queste strutture anatomiche, insieme agli ormoni, svolgono un ruolo
17
fondamentale nello sviluppo del comportamento e dell’attività
La comprensione di quei meccanismi fisiologici (neurofisiologici e
neuroendocrini) che potrebbero essere implicate nel transessualismo, passa
pertanto attraverso l’analisi dei rapporti funzionali tra strutture anatomiche,
ormoni e comportamento. [Ruggieri e Ravenna 1999; 51,52]. Sono state
descritte principalmente tre aree che presentano significative differenze nei
due sessi, il nucleo sessuale dimorfico nell’area preottica dell’ipotalamo, il
nucleo soprachiasmatico ed una componente striata posteromediale del
“bed nucleo della stria terminale”, ma in realtà i risultati raggiunti sono stati
spesso contrastanti, per cui si auspicano nuove ricerche al riguardo.
La teoria dell’”effetto di feedback positivo all’estrogeno” (PEFE o teoria
ormonale prenatale) di Dorner (1976) ipotizza che l’identificazione con il
sesso opposto (ma anche l’omosessualità) possano essere il risultato di
eccessi o carenze di androgeni in utero durante un periodo sensibile per lo
sviluppo delle strutture ipotalamiche e ipofisarie che regolano la produzione
dell’ormone follicolo stimolante e di quello luteinizzante.
Tale teoria ha ricevuto talune conferme,ma anche alcune smentite, e la
ricerca è stata interrotta dagli studiosi soprattutto a causa della
sovrapposizione degli studi tra orientamento ed identità sessuale, oggi non
più considerati fenomeni simili. Un supporto alla teoria dell’ormone
prenatale è data dalla Iperplasia Surrenale Congenita, o “sindrome
adrenogenitale”, un’anomalia delle ghiandole del surrene che secernono
androgeni in quantità maggiore della norma; le donne con questa sindrome
sono state esposte in utero ad elevati livelli di testosterone e mostrano
elevati livelli di comportamento ed interessi da “maschiaccio”. Studi di
Zucker (1994) hanno dimostrato come i soggetti con la sindrome mostrino
maggiore disforia di genere e comportamenti di ruolo di genere alterati in
età evolutiva, minore attrazione verso gli uomini nelle fantasie sessuali, con
una certa preferenza per le donne. «[…]questi dati suggeriscono almeno una
base ormonale per alcuni aspetti dello sviluppo di genere» [Dèttore
2001:177]
18
Anche fattori psicosociali sembrano però influenzare lo sviluppo
dell’identità di genere; prove a favore di tale affermazione derivano da studi
condotti su bambini intersessuali da Money e coll. (1975) i quali conclusero
che, malgrado i genitali anomali, il sesso di assegnazione e l’allevamento
hanno un’importanza centrale rispetto alla identificazione di genere del
bambino. Tale tesi è ancora oggi molto accreditata; numerosi studi, tra cui
quelli di Green (1976) e Stoller (1968;1975;1985) e successivamente
Zucker e Bradley (1995)hanno portato, anche se con generalizzazioni forse
un po’ troppo spinte, ad individuare particolari tipologie di configurazioni
familiari o stili genitoriali che potrebbero risultare più frequentemente nelle
famiglie di origine di persone transgender. Nel caso di transessuali uomo-
donna (MtF male to female) in una percentuale di casi tra il 10% e il 15% si
avrebbe un incoraggiamento di comportamenti femminili o di travestitismo
da parte delle madri di tali bimbi, assecondate da un padre solitamente
piuttosto assente, o consenziente; tale comportamento è spiegato attraverso
il paradosso di una madre piuttosto mascolina che femminilizza il figlio
come reazione ad una identificazione di genere disturbata nella madre
stessa.
Per quanto riguarda invece il transessuale da donna a uomo (FtM female to
male) si avrebbe una condizione familiare differente, con una madre debole
o depressa e/o un padre aggressivo, eccessivamente mascolino e spesso
alcolizzato, con frequente incoraggiamento da parte di entrambi i genitori
verso comportamenti maschili (Green 1974). Queste costellazioni familiari
non sono però sempre presenti, e potrebbero non essere necessarie, ma solo
facilitanti per lo sviluppo transessuale.
Un’altra ipotesi psicologica è stata proposta nel 1986 da Moberly e Phil,
rifacendosi alla teoria dell’attaccamento per spiegare il caso particolare di
quei figli transessuali che non sanno elaborare il lutto per la perdita della
madre o il dolore per il suo allontanamento; essi opererebbero a scopo
difensivo un’identificazione proiettiva con la madre idealizzata, cercando in
pratica di diventare come lei.