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Capitolo I
IL PRODOTTO
1.1 La storia del prodotto
La piada è un cibo semplice. Molto meno semplice è ricostruire
la sua storia. Cominciamo dal nome. L'etimologia è incerta: la maggior
parte degli studiosi collega il romagnolo "piè", "pieda" (poi
italianizzato in "piada") al greco plakous, focaccia. Il termine, se non
l'alimento, sarebbe quindi un relitto della dominazione bizantina. Il
"testo" su cui viene cotta la piada deriva invece dal latino testa, coccio
(i "testi" degni di questo nome sono infatti di terracotta refrattaria). Il
che ci rimanda all'età romana. Al mondo latino sembra rinviare anche il
famoso episodio del VII libro dell'Eneide: il segno celeste del sospirato
approdo alla terra promessa - e dell'happy end - è proprio quella specie
di piada che il pio Enea e i suoi affamati compagni sono costretti a
sgranocchiarsi in mancanza di meglio. Chi non ha dubbi sulla latinità
della piada è Giovanni Pascoli, che la chiama "pane rude di Roma" e le
dedica un verboso poemetto-ricetta.
Intendiamoci: come le numerose consorelle di cereali impastati
e cotti su lastre di pietra o terracotta (dalla yufka turca alla rodha
indiana, dalla burgutta eritrea alla taguella dei Tuareg), la piada è
realmente un alimento arcaico. Le radici di questi cibi affondano
nientemeno che nel neolitico.
La prima menzione di una vivanda chiamata "piada" si trova,
per quel che è dato sapere, nella Descriptio Romandiole del cardinale
Anglico, del 1371. Alla comunità di Modigliana è imposto, tra gli altri
balzelli, un tributo alla Camera Apostolica di due piade. E' francamente
difficile immaginare che da una comunità di 621 focolari (circa tremila
anime) ci si accontentasse di esigere due piadine, che bastano sì e no
per l'antipasto di un inappetente. Si dovrà quindi pensare che queste
piade trecentesche fossero larghe focacce lievitate e forse condite con
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strutto, cotte nel forno: del tipo di quelle che nel ravennate si chiamano
tuttora "piè" e nel resto della Romagna "spianate".
Intorno al 1572 il medico riminese Costanzo Felici, in un
trattato sulle insalate, parla incidentalmente delle "placente, cresce o
piade", e le definisce "pessimo cibo, con tutto che a molti tanto
piaccia". Qual è la ragione di un giudizio così sprezzante? Ci aiuta ad
orientarci meglio un'altra testimonianza. Nel 1622 il cronista Giacomo
Antonio Pedroni, dopo alcune considerazioni sulla carestia che
imperversava e sul micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari,
annota che "più persone facevano delle piadine di sarmenti e fave
macinati insieme, per mangiarle in così gran bisogno". Queste
miserabili piadine fabbricate con ingredienti vili e vilissimi avranno
avuto la forma, se non la composizione, delle attuali.
Nel 1801 Michele Rosa consiglia ai più derelitti di confezionare
piade con la ghianda macinata.
Alla piada il cronista ottocentesco Filippo Giangi dedica non più
che un paio di brevi citazioni. Là dove ci informa che i popolani
riminesi erano soliti consumarle, al sacco, nelle scampagnate estive alle
Grazie, le giudica, sdegnosamente, un cibo plebeo.
Singolare è una notizia del 1823: una ragazza di diciotto anni,
tale Adelaide Bazzini, muore per un'indigestione di uova sode e
piadine: ma si tratta di laute piadine fritte.
Il sospetto, in breve, è che la fragrante piada di fior di farina che
Maria Pascoli preparava al commosso (e goloso) fratello e che un
immane terziario piadaiolo ammannisce quotidianamente, oggi, a tutti i
romagnoli, sia una variante nobile - e relativamente recente - delle
meschine piadine di cerali vili e altri miserabili ingredienti (fave,
ghiande, crusca e perfino segatura) che, nei "bei" tempi andati,
servivano almeno a calmare i morsi della fame. Se ne traevano delle
piade per una sola ragione: che quella robaccia non si poteva mescolare
al lievito e panificare.
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Si può ulteriormente supporre che le piadine abbiano avuto un
massiccio rilancio nel secolo scorso, a seguito della diffusione del mais.
Si sa che i romagnoli, anche i più indigenti, non hanno mai avuto in
simpatia la polenta. Non potendo fare il pane con la farina di
frumentone, si saranno adattati a cavarne delle tortillas.
Le grandi inchieste sociali dell'Ottocento, le relazioni dei medici
e la memoria concorde dei vecchi contadini tramandano il ricordo di
tristi piade "d'furmantoun" o, nel migliore dei casi, "armes-ci", cioè di
farina di grano e di mais.
1.1.2 Un senso cronologico
Gli abitanti delle palafitte lombarde del milleduecento avanti
Cristo mangiavano pagnotte impastate con farine varie. Queste focacce
azzime venivano cotte su lastre sferiche arroventate; erano molto dure
ed indigeste. Nell'Italia antica furono probabilmente gli Etruschi ad
insegnare ai popoli locali come cucinare i cereali. La farinata di cereali
era infatti un piatto tipico degli Etruschi.
Influenzati dagli Etruschi, i primi Romani cominciarono ad
usare la spelta, l'orzo, la fava, la veccia. Ceres, per i Sabini, era il grano
che dava la vita, il cereale. A Roma diventò la Dea delle messi. Il primo
cereale coltivato dai Romani fu l'orzo, e con la farina di questo
preparavano la puls, o farinata, e le piade azzime. L'orzo venne in
seguito sostituito dal farro, un tipico grano duro dell'alto Lazio,
apprezzatissimo ancora ai giorni nostri.
Gli sposi novelli usavano offrire a Giove una focaccia di farro,
la confarreatio, durante il rito nuziale. Il grano sostituì il farro nel IV
secolo avanti Cristo, ed in quel periodo si suole far risalire la comparsa
del primo pane lievitato.
Nel cento avanti Cristo il pane lievitato aveva quasi soppiantato
del tutto le polentine di cereali, ma le piadine azzime cotte sotto la
cenere o nel forno, rimanevano le preferite. Queste focacce erano
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apparse anche a Roma verso il centosettanta avanti Cristo, ed erano una
specie di galletta bassa, scondita e piuttosto dura. Era comunque un
cibo da ricchi nonostante che rimanessero commestibili per poche ore
dalla loro cottura, perchè indurivano fino a divenire immangiabili.
Come le piadine dei nostri giorni, anche queste gallette non si
mangiavano mai da sole; si soleva accompagnarle con formaggio. Il
severo Catone era contrario al diffondersi di questo nuovo cibo fra la
popolazione di Roma, perchè richiedeva un companatico e avrebbe reso
golosi e molli i suoi sobri connazionali. Ma il pane e le piade divennero
ugualmente un elemento importante nell'alimentazione romana, e per
questi la panificazione al mattino divenne un rito austero, come lo era
stato nel passato la preparazione della puls.
Era così nata una nuova tradizione ed anche Catone, alla fine,
cedette all'uso del pane azzimo; quando poi il pane lievitato si diffuse
fortemente, l'uso delle piadine venne riservato ai soli fini religiosi. Di
tutti i tipi di pane e focacce dei quali i romani divennero abilissimi nella
preparazione, vanno ricordati i seguenti: il clibanicus, specie di piadina
distesa su di un coccio rovente e lasciata poi cadere semicotta sulla
cenere calda; il facaceus, specie di pane dal quale deriva la nostra
focaccia e che veniva condita in vari modi e ricoperta di semi di
finocchio, di anice o di sedano; la tarunda, una schiacciata votiva di
farro al miele.
Le varie invasioni barbariche influenzarono, senza sconvolgerle,
le abitudini alimentari delle popolazioni italiane. Nel Medioevo il
popolo mangiava solo quello che produceva o che trovava nel bosco,
allo stato selvatico. In pratica mangiava come il popolino romano. I
signori imponevano l'uso dei loro mulini per trarne guadagno e ciò
finiva per provocare grossi contrasti. In questo periodo in Inghilterra,
nacque la parola Lord: "signore" che deriva dall'anglosassone Hlaford e
che significa "guardiano del pane". Infatti il signore era colui che
distribuiva il pane. La parola Lady, "signora", viene dalla parola
Hlaefdige, che significa "impastatrice del pane", poiché la moglie del
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signore è colei che, col suo seguito, produce il pane che il marito
elargisce al popolo.
Nel milletrecento, anno della peste, la classe contadina non ebbe
più la possibilità di mangiare il pane lievitato e tornò al consumo di
polente e di farine di orzo, e di focacce azzime fatte con cereali meno
pregiati, con legumi secchi e con ghiande.
In Europa, nel Rinascimento, si ha l'evoluzione dell'arte
culinaria. Nascono le scuole culinarie nazionali. Si hanno i primi grandi
cuochi. In Italia ogni regione ha il suo pane. Le focacce, soprattutto
quelle non lievitate, incominciano a decadere. Solo in certe regioni le
focacce azzime continuano ad essere consumate dai ceti sociali più
poveri soprattutto nei momenti di penuria generale, di carestia.
Chiamata da Giovanni Pascoli il "pane rude di Roma", la
piadina è una schiacciata di farina di cereali azzima e condita con
strutto di maiale o lardo, cotta su di una lastra di pietra refrattaria o di
coccio, il cosiddetto "testo".
L'etimologia di piadina è incerto: probabilmente è collegata al
greco "plaukous": "focaccia". Se si accetta tale ipotesi il termine
deriverebbe quindi dalla dominazione bizantina (Esarcato) della
Romagna. Queste focacce nel millecinquecento venivano confezionate
con cereali poveri, con fave, con ghiande, con crusca. Nei periodi di
carestia si aggiungevano, quali riempitivi, anche segatura o peggio
ancora. Era inevitabile che con tali ingredienti le piadine non potevano
essere che azzime. Anche nel milleottocento le piadine erano povere e
fatte con farina di mais o con farina di mais mischiata a quella di grano.
Già agli inizi del XX secolo, la piadina ebbe un grande rilancio,
grazie alla presenza della farina di mais, che, mischiata a quella di
grano tenero per questioni più economiche che culinarie, serviva a
preparare l'impasto: le bambine già all'età di cinque o sei anni
imparavano a tirare la sfoglia, e a cuocere nel testo di coccio (dal
latino: testa = coccio) le fragranti piadine e a farcirle con il tradizionale
salame fatto in casa, la salsiccia ai ferri, i cavoli lessati e conditi con
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olio, aglio e rosmarino, o con la coppa di testa (sempre di maiale,
salume speciale di preparazione simile al wurstel, ma composto,
anziché di carne magra, di cascami semigrassi della lavorazione delle
carni e appunto dell'orecchio e della testa del maiale, cotta in poca
acqua fino a produrre una massa gelatinosa, ed insaporita con una
spezie chiamata appunto "saporita"; questa veniva poi insaccata in un
grosso budello di colon o nella "mula" che altro non era che la sacca
dell'esofago).
E la piadina, assieme alle altre specialità romagnole, iniziò a
conquistare i turisti negli anni '40 e '50, quando cominciarono ad
apparire lungo le strade statali che portavano al mare i primi chioschetti
disseminati qua e là che vendevano le piadine, preparate al momento e
gustate con la porchetta di maiale, le salsicce cotte alla brace, i cavoli, i
pomodori e le melanzane gratinate...; questa tradizione è proseguita
fino ad oggi, naturalmente è aumentata l'offerta di cibi disponibili,
affiancando ai tradizionali cassoni e alle piadine anche le specialità
tipiche del "fast food" americano: hamburghers, hot-dogs, patatine fritte
ecc...
Anche le piadine sono cambiate nel frattempo: nessuno più le
prepara al momento, ma si usa cucinare le piadine precotte, che basta
ripassarle sulla piastra bollente per qualche secondo, o in casi estremi
nel micro-onde e si farciscono secondo canoni alimentari più attuali,
legati anche alle esigenze "dietetiche" della nuova generazione: insalata
e pomodoro, rucola, verdure grigliate e il tutto scondito o quasi, usando
salumi preconfezionati e a poco costo, formaggi morbidi e cremosi una
volta inesistenti.
Oggi la piadina romagnola è consumata giornalmente quasi
come il pane; trova infatti il suo posto sia nella tavola delle famiglie,
che nelle mense aziendali, scolastiche, nei fast food ma anche nei
ristoranti tradizionali e negli alberghi, un po' ovunque insomma. E ben
poche massaie, oramai anche loro sulla strada dell’"estinzione"
preparano, o comunque sanno preparare una buona piadina; tutti siamo
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oramai abituati a trovarla al supermercato già bella e pronta, oppure se
siamo proprio dei buongustai, andiamo direttamente in uno dei
numerosi laboratori artigiani di "Piada & Cassoni" dove ce le cuociono
al momento e, incartate in appositi contenitori, ci arrivano ancora calde
e fragranti fino a casa nostra.
La piadina romagnola ha oramai superato quel processo di
industrializzazione che ha portato questo alimento da un preparato
strettamente familiare ad un bene di ordinario consumo, preparato
anche in grossi stabilimenti artigianali ed industriali, e a questo punto
nessuno si meravigli quando si dice che la piadina non è più un tipico
alimento regionale, perchè queste industrie che ne producono in enormi
quantità le indirizzano sul mercato italiano (al nord in particolare, nella
misura di circa 500.000 pezzi alla settimana) e su quello estero
(compresi gli Stati Uniti d'America, che ne fanno richiesta complessiva
per circa 20 milioni di pezzi annui).
1.2 Le ricette - le materie prime
Acqua, farina e sale, più olio o strutto. La piadina è tutta qui.
Lavorata al matterello e cotta a fiamma viva sul "testo", accoglie nel
migliore dei modi ogni tipo di farcitura: erbe di campo cotte e crude,
salumi, pesce azzurro, pomodoro, formaggi freschissimi (a cominciare
dallo "squacquerone") o stagionati. Ma anche marmellate, miele e oggi
Nutella.
La piadina è il più tipico dei prodotti di Romagna, cantata da
tutti i suoi poeti: Pascoli, Panzini, Stecchetti, Tonino Guerra. Un
prodotto che tutto il mondo ha imparato ad amare soprattutto a Rimini,
la capitale delle vacanze. Ma che ora si può trovare a New York come
in Svezia.
Grazie alle produzioni artigianali è possibile trovare anche nei
supermercati la vera piadina fresca prodotta nella sua terra d'origine
secondo la ricetta autentica. Ma per il consumatore non è facile
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distinguerla da imitazioni e da produzioni industriali che nulla hanno a
che fare con la vera piadina.
La piada diventa particolarmente gustosa sotto forma di
Cassone, cioè ripiegata in due e chiusa sul bordo con i denti di una
forchetta. La farcitura classica è quella costituita dalle rosole, che sono
le prime foglie del papavero, sminuzzate e lasciate per un'oretta con il
sale a perdere acqua.
Le imprese come questa usano le commodity come materie
prime per creare i beni, articoli tangibili venduti; dal momento che i
processi di produzione trasformano veramente le materie prime per
ottenere una varietà di beni, esiste un margine per fissare i prezzi
basandosi sia sui costi di produzione che sulla differenziazione dei
prodotti.
Oggi sono presenti differenze significative nelle caratteristiche
delle varie produzioni, e siccome i beni, essendo alimenti pronti all’uso,
possono immediatamente soddisfare un bisogno, gli utenti attribuiscono
ad essi un valore maggiore che non alle materie prime da cui sono
derivati.
Almeno questo in teoria, non tutti si accontentano del buon
sapore soprattutto in caso di patologie debilitanti quali diabete, disturbi
alimentari ecc.
La ricerca della qualità si attesta senza dubbio nel plotone di
testa dei comportamenti legati al consumo. La qualità è ancora in prima
linea. Tra tutte le dimensioni che compongono l’offerta di prodotti, è
quella che occupa sempre la prima posizione.
Parallelamente, se i consigli ed i servizi mantengono la loro
importanza, i consumatori sono sempre meno propensi a credere che
essi possano giustificare un prezzo elevato. Il plusvalore dei servizi
appare sempre più come un qualcosa di dovuto, in altre parole il
consumatore dà per assiomatico che questi servizi aggiuntivi ci siano
ed ovviamente dà per scontato che siano gratuiti.