Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
3
risultare anche sociologicamente interessante, per chi ha qualche anno più di me,
scoprire quali corde quei film hanno fatto vibrare nelle giovani generazioni, e
perché.
Rassicuro tuttavia chi legge che mi impegnerò costantemente, nel corso della
presente analisi, a tenere a freno ogni mio slancio da “appassionato” del genere,
volendomi porre qui esclusivamente come studioso con il compito di riconoscere,
decodificare ed illustrare i meccanismi che presiedono alla costituzione ed al
funzionamento di quelle “macchine” prodotte dalla “fabbrica” di miti che ho
indicato nel titolo.
Con la ferma intenzione, dunque, di adottare quel tanto di distacco dalla materia
trattata necessario all’acquisizione di uno sguardo lucido ed emotivamente
decongestionato, il mio studio si snoderà attraverso cinque stazioni tematiche,
cinque capitoli nei quali in buona sostanza tenterò di rispondere in modi diversi alla
medesima domanda: perché mitologia? Nel primo mi occuperò esclusivamente della
pellicola capostipite: “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone. La formula
interpretativa che ritengo più si addica all’analisi del primo, vero, western
all’italiana, sarà quella finalizzata alla messa in luce delle “sperimentazioni sugli
archetipi” operate – in quel film più che in qualsiasi altro – dal maestro.
Nel secondo tenterò di far luce sopra ad uno degli aspetti più evidenti della
produzione di pellicole western italiane, ovvero il suo carattere di “risposta”, anche
e soprattutto mitica, alla produzione originale americana. I miei sforzi saranno tesi
alla dimostrazione che, contrariamente a quanto il più delle volte si legge, è, per il
Western all’italiana, più lecito parlare di mitologia negativa che di antimitologia.
Nel terzo capitolo prenderò in esame due aspetti non infrequenti nel panorama del
miglior western nostrano: il citazionismo letterario e i riferimenti politici. Vedremo
come entrambe queste istanze possano essere ricondotte ad una comune matrice
“mitica” definibile della “amplificazione delle storie”.
Nel quarto capitolo mi occuperò della natura crepuscolare che ha caratterizzato e
valorizzato la mitologia di alcune tarde pellicole del genere, pellicole che hanno
dipinto il vecchio West, o anche solo alcuni suoi abitanti, come “sulla via del
tramonto”, sopraffatti dai tempi nuovi. Analizzerò poi come in altri casi questi temi
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
4
abbiano potuto essere stemperati con l’ironia ed il burlesco, dando vita a rari film
capaci di far convivere istanze opposte in modo dialettico.
Il quinto ed ultimo capitolo verterà non più su aspetti tematici, bensì su quei modelli
formali (caratterizzazioni iconografiche, colonne sonore, connotazioni spaziali,
linguaggio visivo…) che hanno contribuito alla creazione e alla messa in scena di
situazioni e personaggi mitici nell’ambito del miglior “Spaghetti Western”
1
.
Ora, prima di accedere al percorso testè delineato, ritengo doveroso fornire
definizione e cenni storici circa quelli che fin da principio ho annunciato essere i
due oggetti del presente studio, o meglio, l’oggetto del presente studio ed il suo
attributo: rispettivamente, il Western all’italiana ed il mito.
Si parta dall’attributo. Nei testi omerici “Mythos” significava semplicemente
parola, discorso; fu in età classica che il termine assunse connotazioni più
restrittive, significando infatti “racconto intorno a dei, esseri grandiosi, eroi”. Venne
così utilizzato in contrapposizione a “Lògos”: un mito era un racconto che non
necessitava di alcuna dimostrazione o argomentazione razionale. Questo antico
significato sopravvive ancor oggi, accanto ad altri; infatti un consistente
ampliamento dell’arco di applicazione del termine ha condotto a nuove sfumature e
connotazioni. Così oggi mito può significare amplificazione del reale, miraggio,
storia vera per eccellenza, o, al contrario, illusione, utopia, persino inganno. In ogni
caso esso è il luogo in cui riversare, dare libero sfogo ai propri sogni, alle proprie
aspirazioni; è il luogo dell’assoluto, appagante, in cui si cercano consolazioni,
esempio ed evasione
2
.
Veniamo ora all’oggetto. Riservando ai capitoli seguenti una trattazione di natura
tematica, cerchiamo ora, in modo più cronachistico, di rispondere al quesito: cos’è,
o meglio, cos’è stato il "Western all’italiana"? Un capitolo fondamentale della
storia cinematografica popolare italiana, un capitolo che interessò più di un
decennio (a partire dalla metà degli anni ‘60) di produzioni che si susseguirono a
1
Segnalo fin d’ora che per via della struttura analitica “a compartimenti” che mi prepongo di adottare,
capiterà più di una volta che una determinata pellicola, se si presta all’analisi di diversi paradigmi
interpretativi, verrà trattata e ripresa in più di un capitolo (ad esempio l’ultimo capolavoro western di Leone,
“Giù la testa”, verrà analizzato nel cap. II per essere portatore di una “antimitologia”, nel cap. III per quel che
concerne il contenuto di denuncia della guerra e della rivoluzione ed infine nel cap. V in merito a questioni
formali come l’uso della colonna sonora e delle esplosioni in funzione di “evocazione fantasmatica” del
personaggio protagonista Sean-James Coburn).
2
Per una “ufficiale” definizione di mito si veda: Enciclopedia Europea Garzanti, 1981; VII vol., pag. 646.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
5
ritmo vertiginoso, dando così alla luce un numero di pellicole tale (come già
ricordato più di quattrocento) da rendere problematica la decisione di etichettare
quel vasto corpus come semplice filone o come autentico genere. Se poi si pensa a
quanto, in tutto e per tutto, dalle premesse teoriche (si può dire: “dalle poetiche”?)
alle realizzazioni a queste conseguenti, il Western all’italiana si sia differenziato da
quello originale americano, ma soprattutto a quanto, negli anni a seguire, proprio
quest’ultimo sarebbe stato indelebilmente influenzato dal primo, beh, l’opzione più
esatta sembra essere quella che lo classifica come genere a pieno titolo. Agli occhi
di poi si colora dunque di involontaria ironia il proposito degli americani di
chiamare spregiativamente “Spaghetti Western” o “Makaroni Western” questa vasta
produzione italiana proprio per distinguerla da quella D.O.C., l’unica veramente
D.O.C., la propria.
Questo aspetto della questione verrà approfondito adeguatamente nel secondo
capitolo, per ora mi limito alla considerazione che solo un genere, mai un filone,
può avere la forza di contaminare un altro genere, soprattutto se quello contaminato
non è altro che il primo, il fondamentale, il genere per eccellenza della storia del
cinema.
Dunque genere; filoni a pieno titolo furono invece quello storico-mitologico o
“Peplum” che lo precedette, e quello, come lo definisce E.G. Fava, “Polizziottesco
all’italiana”, che lo seguì; ma andiamo per ordine.
Il primo film western del cinema italiano, “La vampira indiana” fu diretto nel 1913
da un certo Roberto Roberti. Se tale nome ci ricorda qualcosa, come per esempio lo
pseudonimo Bob Robertson utilizzato da Sergio Leone agli inizi di carriera (quando
presso le produzioni, non ancora consci della propria identità artistica, si preferiva
proporsi in veste “yankee”), ciò non deve stupire più di tanto: il vero nome di
Roberto Roberti era infatti Vincenzo Leone. Bob Robertson, figlio di Roberto
Roberti…e la mamma? Naturalmente Bice Waleran, la giovanissima protagonista
del protowestern all’italiana di Roberti-Loene senior. Come dire, fu un western a
dare alla luce Sergio Leone, il quale, a suo tempo, ricambiò regalando nuova linfa a
quello stesso genere.
Una successiva tappa della preistoria del cinema western italiano può essere fissata
intorno agli anni ‘30: è proprio del 1930, infatti, la versione italiana de “Il grande
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
6
sentiero” (“The big trail”) di Raoul Walsh. All’epoca, prima della comparsa
dell’unica versione doppiata o sottotitolata, si usava girare più versioni, in più
lingue, dello stesso film; troviamo dunque, nella versione italiana, Franco Corsaro e
Luisa Caselotti al posto di John Wayne e Marguerìte Churchill.
Per gli anni ‘40 si può segnalare la parodia western “Il fanciullo del West” (1943) di
Giorgio Ferroni, interpretata dal tenero comico torinese Macario; negli anni ‘50,
poi, la parodia western ebbe il volto di Renato Rascel (per esempio “Il bandolero
stanco”, 1952, di Roberto Bianchi Montero).
Com’è ovvio, nessuna delle pellicole sopra citate possiede alcunchè, a parte
l’ambientazione western, in comune con quel genere che verso la metà degli anni
‘60 stava per prendere forma incanalandosi sulla rotta appena tracciata da
pionieristici “eurowestern”. Questi ultimi sono western italo-tedeschi ispirati ai
romanzi di avventura di Karl May ambientati in America (segnalo fra gli altri
“Giorni di fuoco”, del’64, girato in Juguslavia da Harald Reinl, per la presenza nel
cast di Mario Girotti, futuro Terence Hill), ed italo-spagnoli (come “Tres hombres
buenos” di Joaquìn Romero Marchent, del ‘63, da segnalare perché co-prodotto da
Alberto Grimaldi, futuro produttore di film di Sergio Leone e di tanti altri western
all’italiana, e per la presenza di Fernando Sancho, onnipresente “villain” dello
Spaghetti western).
Anche il nostro Sergio Corbucci con “Minnesota Clay” nel ‘64 si cimentò nel
genere; occorre tuttavia specificare che nessuno di questi film seppe imporre
quell’inconfondibile stile mediterraneo che dilagò a macchia d’olio solo dopo “Per
un pugno di dollari”
3
. Anzi, si può dire che quella ventina di pellicole italiane che
precedettero d’un soffio il primo western di Leone non erano in definitiva altro che
calchi e piatte repliche dei modelli americani, importanti solo perché prepararono
quel contesto produttivo che permise al Nostro di iniziare la sua storia.
In quegli anni il cinema italiano conosceva un momento di crisi: il filone storico-
mitologico, dopo aver conosciuto i fasti delle mega-co-produzioni hollywoodiane
(uno su tutti: l’“Ulisse” di Mario Camerini del ‘54 con Kirk Duglas) era già, sul
finire del precedente decennio, apparso prossimo ad esaurirsi. Anche Sergio Leone
3
Oreste de Fornari ha osservato: “Anche se non è il primo western prodotto in Italia, [‘Per un pugno di
dollari’] è certamente il primo western all’italiana.”. De Fornari 1997, pag. 43.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
7
aveva preso parte a quelle produzioni: prima esercitando una “gavetta di lusso” al
fianco dei mostri sacri delle majors (non molti sanno che Leone era tra gli aiuto
registi che realizzarono la storica corsa delle bighe del “Ben Hur” di William Wyler
del ‘59 con Charlton Heston), poi realizzando due film propri, “Gli ultimi giorni di
Pompei” nel ‘59 e “Il colosso di Rodi” nel ‘60 (“Gli ultimi giorni di Pompei”, pur
firmato da Mario Bonnard, fu quasi integralmente girato dal primo aiuto regista
Leone, poiché l’ex celebre attore del muto e regista ufficiale della pellicola si
ammalò).
Intorno al ‘64, poi, anche gli altri generi popolari, il melò ed il filone sexy, parevano
aver stancato; infine il cinema d’autore sembrava aver esaurito la sua vena migliore.
Dunque, pur con una notevole dose di scetticismo, i produttori valutavano le
potenzialità del Western. Nell’Agosto del ‘64 esce, senza alcuna pubblicità, “Per un
pugno di dollari”, film realizzato a budget ridotto in Almeria (dove Leone era già
stato per le riprese de “Gli ultimi giorni di Pompei”). Il budget era davvero ridotto
se si pensa che l’attore protagonista dell’altro film che la produzione stava seguendo
negli stessi giorni (il Rod Cameron di “Le pistole non discutono” di Mario Caiano)
costava più di tutto il cast di “Per un pugno di dollari” messo assieme. Fatto sta che
il film di Leone seppe rastrellare tre miliardi e due di incasso. Un successo
inimmaginabile, uno dei massimi successi commerciali del cinema italiano, un
fulmine a ciel sereno. Il fulmine a ciel sereno, in realtà, fu doppio, poiché anche dal
punto di vista stilistico “Per un pugno di dollari” rappresentava una assoluta novità
nel panorama cinematografico di allora: un impatto visivo di una potenza e violenza
sconosciute, che scosse non pochi. Il film inoltre possedeva già tutti quegli
elementi, da qualsiasi aspetto del complesso e composito linguaggio
cinematografico lo si guardi, che, ingigantiti o (spesso male) rimaneggiati,
avrebbero per un decennio costituito i tratti essenziali di ogni western all’italiana.
Leone non tardò molto a confermare il suo talento: già l’anno successivo diresse
“Per qualche dollaro in più” e nel ‘66 concluse la “Trilogia del dollaro” con “Il
buono, il brutto, il cattivo”.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
8
Tra le doti più brillanti di Leone senz’altro la sua straordinaria capacità di scegliere
gli attori giusti e saperne plasmare figure indimenticabili; così si spiega l’assurzione
a divo, fra i grandi del cinema, di Clint Eastwood (protagonista costante della
trilogia) fino ad allora sconosciuto attore di un serial televisivo western statunitense
(“Rawhide”) ed in precedenza comparsa in qualche B-movie di fantascienza (per
esempio “La vendetta del mostro”, 1955, di Jack Arnold).
Terminato il suo trittico, Leone comincia a sentire l’esigenza di cimentarsi con altri
generi, tuttavia dovrà aspettare il 1984 per portare a compimento il progetto di una
pellicola-epopea sul gangsterismo americano (“C’era una volta in America”). Il
western lo voleva, lo imponeva (i produttori pure), così Leone firmò altri due
capolavori: nel ‘68 “C’era una volta il West”, il meno all’italiana dei western
all’italiana, crepuscolare, ambizioso e solenne, con la presenza di un divo del
calibro di Henry Fonda, e, nel ‘71, “Giù la testa”, maturo, struggente, poetico ed
impegnato, con una coppia di attori dell’importanza di Rod Steiger e James Coburn,
i quali vanno a terminare una straordinaria carrellata di “facce da West” che,
iniziata con Eastwood e Volontè, proseguita con Van Cleef, Kinsky e l’istrionico,
incontenibile Wallach, aggiornata con Bronson, Fonda e Robarts, ha saputo fissarsi
indelebilmente nell’immaginario cinematografico collettivo.
Torniamo al ‘64. Quel che accadde per quasi un decennio da quell’anno è che buona
parte dei registi allora attivi si mise a girare almeno un western; molti, certo, si
specializzarono, altri come Tinto Brass, Florestano Vancini e Damiano Damiani, si
accontentarono di una o due pellicole
4
; in ogni caso, quel tipo di cinema ebbe un
4
Va tuttavia specificato che escluso l’ottimo e fortemente politico “Quien sabe?” di Damiani (del ’66; si
veda il testo più avanti e il cap. III), le altre pellicole d’autore non furono affatto capaci di brillare nell’ambito
del panorama Spaghetti western: certo, se paragonate ai migliori prodotti dei migliori registi specialisti del
genere (Leone, Colizzi, Corbucci, Valerii). “Un genio, due compari, un pollo”, secondo e ultimo western di
Damiani (del ’75) è del tutto sconclusionato ed inconsistente. “Yankee”, 1966, di Brass, pur molto
interessante per via di un montaggio frenetico e per via di soluzioni visive capaci di supportare una
sperimentazione “pop” sul genere (si veda il cap. V), non riesce mai ad avvincere veramente. “Requiescant”,
1966, di Lizzani, film arricchito addirittura dalla presenza di Pasolini, risulta originale e notevole in merito ai
temi trattati (il necessario armarsi, in situazioni estreme, del braccio degli uomini di chiesa; si veda il cap.
III), tuttavia li mette in scena in modo eccessivamente serioso e grave. Infine “I lunghi giorni della vendetta”,
1967, di Vancini, pur volendosi proporre come trasposizione western di “Il conte di Montecristo” di Dumas,
fu battuto, proprio in tale proposito, dal ben più spettacolare, avvincente e meglio recitato “I quattro
dell’Avemaria” di Colizzi (del 1968, con lo straordinario Eli Wallach; si veda il cap. III).
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
9
tale carattere di onnipresenza che nessuno, anche il critico o l’autore più schizzinoso
e purista, poteva ignorare: disprezzare sì, ma non ignorare
5
.
La parabola produttiva cominciò l’impennata intorno al ‘65 –‘66, nel biennio
successivo raggiunse il picco, parallelamente al proliferare dei migliori fermenti
creativi. Quando poi, a cavallo tra i due decenni, iniziava a profilarsi la fase
discendente, intervenne il gran colpo di coda di E.B. Clucher - Enzo Barboni che
con i due “Trinità”, virando abilmente verso la commedia picaresca ed inaugurando
quel sottogenere che tra il ‘70 e il ‘72 proliferò con un centinaio di pellicole,
rilanciò le cifre ai massimi livelli raggiunti qualche anno prima. Bastarono infatti i
due film programmatici del sottogenere o filone “Fagioli western”, “Lo chiamavano
Trinità” del ‘70 e “Continuavano a chiamarlo Trinità” del ‘71 (con la coppia
Spencer-Hill nata tre anni prima ancora in seno al ceppo principale con “Dio
perdona… io no!” di Giuseppe Colizzi), a incassare otto miliardi, cifra leoniana.
Tuttavia, man mano si addentrava negli anni ‘70, il Western all’italiana dava
sempre più l’impressione di sparare le sue ultime cartucce: le pellicole veramente
riuscite di quel decennio, infatti, oltre a contarsi sulle dita di una mano, danno
l’impressione di riflettere sul “dopo”, sulla possibile scomparsa del mito, sulla
relatività di ogni storia, mettendo in discussione lo stesso genere al quale
appartengono ed assumendo coloriture sempre più drammatiche o crepuscolari
(pensiamo a “Giù la testa”, 1971, di Leone e a “Il mio nome è Nessuno”, 1973, di
Valerii). Le pellicole meno valide poi si fanno riconoscere per le atmosfere fasulle,
artificiose, per l’insincerità mal celata e la scontatezza (per esempio “Sella
d’argento”, 1978, di Lucio Fulci). L’ultimo grande western all’italiana fu quel
“Keoma” di Enzo G. Castellari che nel 1976 seppe porre con decisione la pietra
tombale sul genere trasformandolo, al suo ultimo atto, in pura e semplice
Apocalisse. Ben presto produttori e pubblico girarono pagina ed il Western
5
Un chiaro segnale di ciò è riscontrabile ad esempio nell’episodio del film “Tre passi nel delirio” girato da
Fellini (la pellicola è del ’67, l’episodio è il terzo e conclusivo, intitolato “Toby Dammit”): vi si narra di un
attore inglese alcolizzato e votato all’autodistruzione (interpretato da un Terence Stamp che assomiglia più ad
una rockstar “maledetta” che ad un player scespiriano) che, dietro la promessa di una Ferrari, acconsente a
girare un western all’italiana cristologico. Accolto al suo arrivo all’aeroporto da paparazzi e da produttori in
abito talare, Toby Dammit viene sommerso da un caotico sovrapporsi di deliri intellettualoidi tipo: “Sarebbe
il primo Western cattolico… il mito evangelico della redenzione in chiave western… il ritorno di Cristo in
una desolata terra di frontiera… Vede, certo cinema di struttura può rendere quella sublime poesia con
immagini elementari, nude, eloquenti nella loro povertà… qualcosa a metà tra Dryer e Pasolini, certo, con un
pizzico di Ford… come direbbe il mio amico Roland Barthes… ecc.”.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
10
all’italiana, salvo esplosioni circoscritte ed a scoppio ritardato, si chiuse su se
stesso.
Ma cosa era stato invece, in generale, durante gli anni migliori, a rendere così
grande, popolare, unico, lo spettacolo “Spaghetti Western”? Ci viene in aiuto Juan
Bosch che ricorda: “…gli spaghetti-western contenevano ingredienti di qualità:
audacia, immaginazione, ritmo, Morricone, memorabili soundtrack, spettacolo,
malizia picaresca, umanità, umorismo, avventura. Insomma: cinema al cento per
cento. Ed è questo ciò che amiamo di quel genere ancora oggi…”
6
.
Certo. Con ciò tuttavia, come già ho specificato in apertura, si dovrà ammettere che
il limite naturale di una produzione così vertiginosa e concentrata, specialmente
trattandosi di un genere popolare, è costituito dalla necessità di ripetersi, di
intraprendere lavori su lavori senza l’ossigenazione necessaria a regalare un minimo
di ispirazione; di qui, purtroppo, la natura vuota e scadente della maggior parte delle
pellicole del genere.
Tuttavia, anche a prescindere, ovviamente, dalle opere Leone, non mancano buone
eccezioni, buoni film, dunque buoni autori.
Ma da chi era costituita la squadra di autori del Western italiano? Molti di loro
erano giovani registi che avevano saggiato le atmosfere leoniane direttamente sui
set, essendo stati collaboratori del maestro (si veda a pag. 13 lo schema con tutti i
principali registi e tutte le relative collaborazioni con Leone), non pochi erano i
cosiddetti “artigiani”, registi-organizzatori più che autori, personaggi capaci di
realizzare pellicole a budget ed in tempi ridottissimi, cineartigiani provenienti dalle
esperienze dei “peplum” e professionalmente riciclatisi al nuovo filone, al nuovo
genere (esemplare degli incredibili ricicli produttivi di quegli anni, non limitati ai
soli registi ma anche relativi alle trame, agli scenari ecc., è “Sansone e il tesoro
degli Incas” di Piero Pierotti, realizzato proprio l’anno della grande svolta, il ‘64:
iniziato come “peplum” fu portato a termine spaghetti western! “…con Sansone un
po’ vestito in perizoma e un po’ con la giacca sfrangiata alla Davy Crockett…”
7
).
6
Bianco e nero n. 3, 1997, pag. 104.
7
Paolo Mereghetti 1998, pag. 1657.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
11
Tuttavia, come già anticipavo, la moda western coinvolse anche registi usualmente
impegnati in generi non popolari, non di rado veri e propri autori (addirittura
Pasolini presenzia come attore in “Requiescant”, 1966, di Carlo Lizzani ).
Alcuni di questi si specializzarono nel “Tortilla western” ovvero nel western
caratterizzato dal forte contenuto di temi politici cui fungeva da idoneo sfondo la
rivoluzione messicana capace di metaforizzare la lotta terzomondista e guevarista
contro tirannie e prepotenze del capitalismo (tra le pellicole del filone o sottogenere
“politico” la più riuscita è senz’altro quella che lo inaugurò: “Quien sabe?” girato
nel 1966 da Damiano Damiani e sceneggiato da Franco Solinas). La scelta autoriale
politica ed impegnata rifletteva dunque, e trasponeva in chiave western, il clima dei
fermenti ideologici, delle contestazioni, delle battaglie civili che caratterizzarono
quegli anni; per questo oggi quei film costituiscono anche un importante documento
dell’epoca.
Dunque, Spaghetti-western, Fagioli-western, Tortilla-western…vi fu poi un terzo
fondamentale sottogenere o filone, una terza diramazione dal ceppo principale: lo
Spaghetti western gotico. Capostipite ne fu “Django”,1966, di Corbucci, pellicola
che riuscì ad amplificare due aspetti già fortemente presenti in “Per un pugno di
dollari”: violenza esasperata ed atmosfere funeree (casse da morto, città fantasma, e
look da becchino per Franco Nero ad ogni inquadratura); tale manierismo
trasformava il già cupo e metafisico pistolero solitario leoniano in un vendicatore
misterioso e spettrale, in grado di sopportare le più crudeli efferatezze in attesa del
regolamento di conti finale da concludersi, obbligatoriamente, entro il recinto del
camposanto. Va tuttavia specificato che, nella maggior parte dei casi, gli altri film
del filone (come ad esempio “Preparati la bara!”,1967, di Ferdinando Baldi) oltre
che l’originalità persero, rispetto alla pellicola capostipite, credibilità e fascino,
sconfinando nella caricatura e nel 'fumettistico involontario'.
Ora, avviandomi alla conclusione di questo excursus sul western di casa nostra,
propongo uno schema riassuntivo in grado di fornirci una “visione dall’alto” del
fenomeno. In esso ho cercato di evidenziare gli aspetti genetici e genealogici del
Western all’italiana, riportando le diramazioni in sottogeneri o filoni e segnalando i
relativi registi più importanti e rappresentativi. Infine ho indicato tutte le
collaborazioni degli allievi col maestro Sergio Leone.
Bianchini Francesco - LA FABBRICA DEI MITI ALL'ITALIANA: LO SPAGHETTI WESTERN -
12
Spero, anche con l’ausilio dello schema, di aver saputo tracciare una mappa, che,
lungi dal voler essere esaustiva del fenomeno nel suo complesso, ci consenta, grazie
alle coordinate di massima, di muoverci liberamente sul terreno dello Spaghetti
western nel corso dei prossimi capitoli.
Un’ultima segnalazione: nello schema l’estremo ramo sulla destra denominato
“Imitazione”, si riferisce ai film aventi a protagonista la coppia Paul Smith e
Michael Coby (come ad esempio “Carambola”, 1974, di Ferdinando Baldi),
squallidi imitatori di Bud Spencer e Terence Hill. Ragionando per un attimo al di là
di ogni (in realtà in questo caso più che lecito) irrigidimento critico, ho ritenuto
giusto citare queste produzioni poiché senza dubbio un primato lo detengono: mai
nella storia del cinema si era arrivati all’imitazione di un sottogenere figliato da un
genere-risposta ad un genere originario.